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venerdì 18 gennaio 2013

Il furto della Gioconda

Leonardo Da Vinci, massimo genio espresso dal genio italiano, probabilmente avrebbe voluto conoscere Vincenzo Peruggia da Dumenza, cittadina di poche anime sulle sponde del lago Maggiore; non un’artista, ma un umile decoratore, di quelli che faticano a portare a casa la pagnotta.

 Perché Leonardo avrebbe dovuto o voluto conoscere un oscuro imbianchino, come lo definì la stampa degli inizi del 1900? Semplicemente perché Peruggia riuscì in un’impresa incredibile, che tenne con il fiato sospeso coloro che amavano l’arte, il direttore del Louvre, la polizia francese e la gran parte dell’opinione pubblica dello stesso paese con un’impresa folle, ma geniale allo stesso tempo, sia per il modo in cui venne compiuta, sia per le modalità di realizzazione: il furto del ritratto di Monna Lisa Gherardini, universalmente conosciuto come La Gioconda.

 La mattina del 21 agosto 1911 era un lunedì, una giornata torrida, di quelle tipiche parigine, senza vento e con un’afa che tagliava il respiro;Vincenzo Peruggia, che all’epoca dei fatti non aveva ancora compiuto 30 anni, si diresse con passo svelto verso il Louvre, che conosceva abbastanza bene per averci lavorato tempo addietro, come addetto alla sistemazione di una teca di vetro che doveva preservare il celeberrimo dipinto di Leonardo dalla polvere e dall’umidità. 

In mente, un’idea folle, quella di rubare la Gioconda, quadro simbolo, con la Tour Eiffel, di una città e di una nazione.

Un quadro che era in Francia dal 1516, da quando cioè era stato acquistato per una cifra impressionante, 4000 ducati d’oro, da parte del re Francesco I, presso il quale il genio toscano visse gli ultimi anni della sua tribolata vita, prima di spegnersi nel castello di Amboise il 2 maggio del 1519.

 Peruggia aveva, in qualche modo, organizzato il tutto con cura, pur nel dilettantismo assoluto del suo tentativo; la sera precedente, la domenica del 20 agosto, era uscito con degli amici, e aveva trascorso la serata in un caffè parigino, fingendo di ubriacarsi a tal punto da essere poi multato per schiamazzi notturni. Si era quindi costruito anche un alibi; il lunedì mattina di buon ora, all’incirca alle 6 e mezza, sgattaiolò dalla sua stanza che divideva con un compatriota, diretto alla Cour Carree, il padiglione del Louvre dov’era custodito il dipinto. Il quadro di Leonardo è un dipinto a olio su legno di pioppo che misura 77×53 cm, misure quindi decisamente contenute, tuttavia tali da essere comunque un ingombro e fatalmente anche abbastanza visibile.

 Ma quel giorno a Peruggia andò tutto liscio come l’olio; arrivò al Louvre, sommariamente custodito da un guardiano che spesso, la mattina presto, dormiva della grossa, abitudine che il Peruggia conosceva perfettamente, si diresse verso il dipinto, lo staccò dalla parete, lo mise sotto il giubbotto che indossava e andò via indisturbato, senza essere visto da nessuno.
 Pochi minuti dopo era nel suo appartamento, nel quale il compagno di stanza dormiva pacificamente. Il tempo di nascondere sotto il letto la Gioconda, poi andò giù lentamente per le scale, simulando una sonnolenza post sbronza.
 L’astuto italiano fece in modo di essere visto dalla portinaia, alla quale raccontò di essere ancora sotto gli effetti della sbronza del giorno prima.
 Poi si diresse verso il Louvre; qui regnava il caos, con poliziotti e agenti della gendarmeria che correvano avanti e dietro per le stanze del Louvre, mentre la notizia si diffondeva in un batter d’occhio in città. 

Era stato un pittore, Louis Beroud, ad accorgersi della sparizione; si era recato per fare una copia del dipinto, aveva sistemato il suo cavalletto con la tela, aveva alzato gli occhi e con sorpresa aveva visto che la Gioconda non era al suo posto.

Un’ondata di commozione, mista ad ira e orgoglio patriottico scosse la Francia; vennero istituiti posti di blocco, controllati ricettatori, ambienti della malavita. 
Tutto inutilmente; venne interrogato anche il poeta Apollinaire, che non aveva alcuna simpatia per le opere rinascimentali, che considerava nemiche della vera arte, quella dell’art nouveau. 
Venne interrogato e fermato come indiziato, per lo stesso motivo, e per l’amicizia che lo legava ad Apollinaire anche Pablo Picasso. Vennero perquisite tutte le abitazioni dei dipendenti del Louvre, poi anche quelle di coloro che in qualche modo avevano collaborato ai lavori di manutenzione del museo. 
Così accadde che il Prefetto di Parigi andò personalmente a perquisire l’abitazione del Peruggia, senza trovare traccia del dipinto, che si trovava, ironia della sorte, sotto il tavolo sul quale scrisse il verbale di ricognizione.

 Nei successivi due anni, la polizia, la gendarmeria, spinte dall’opinione pubblica e dalle autorità, non smisero un secondo di cercare il dipinto, che tuttavia sembrava essersi volatilizzato. 

Probabilmente, se il furto fosse stato compiuto su ordinazione, o da qualcuno meno ingenuo del Peruggia, il mondo non avrebbe rivisto mai più il capolavoro di Leonardo; accadde invece il contrario, con modalità altrettanto assurde quanto quelle della sparizione. 

Vincenzo Peruggia scrisse una lettera , a firma “Vincent Leonard” , all’ antiquario fiorentino Alfredo Geri, proponendogli la vendita del dipinto di Leonardo da concordarsi durante un appuntamento all’ albergo “Tripoli e Italia” .
 Aveva scelto, per sua sfortuna, la persona sbagliata; l’antiquario chiamò Giovanni Poggi, direttore degli Uffizi, che confermò l’autenticità del dipinto e chiamò i carabinieri, che arrestarono Peruggia e recuperarono la Gioconda.


La notizia del ritrovamento arrivò in Francia come un fulmine, suscitando enormi entusiasmi; nel frattempo, Peruggia veniva interrogato dalle autorità, alle quali raccontò di aver agito per puro spirito patriottico.
 Aveva sottratto il dipinto ai francesi per restituirlo all’Italia, alla quale, secondo lui, era stata illecitamente sottratta, e sopratutto per vendicarsi dei francesi, che lo dileggiavano con il nomignolo di mangia spaghetti. 
Le cose, evidentemente, non erano andate così, ma i giornali che riportarono le dichiarazioni del Peruggia, riuscirono a convogliare un’ondata di simpatia attorno all’uomo, tanto che la condanna inflitta dai giudici, incaricati di giudicare i fatti, fu eccezionalmente mite. 
Il verdetto, emesso dopo il processo celebrato il 4 e 5 giugno 1913 a Firenze, condannò Vincenzo Peruggia ad un anno e 15 giorni di reclusione, che l’uomo scontò per intero.

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