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martedì 29 dicembre 2020

Pompei incanta di nuovo il mondo: scoperto un Termopolio straordinariamente intatto nella Regio V


 Non si stanca veramente mai di incantare il mondo lo scavo archeologico forse più famoso, quello di Pompei, antica città sepolta dall’eruzione del Vesuvio del 79 d.C.. A seguito di lavori iniziati già nel 2019, riemerge ora in tutto il suo splendore il Termopolio della Regio V, una sorta di bar/ristorante dell’epoca, completo di decorazioni e utensili.

Come spiega Pompeii Sites, la struttura commerciale era stata studiata solo in parte nel 2019, durante gli interventi del Grande Progetto Pompei volti a stabilizzare e consolidare i fronti di scavo storici. Solo ora di scopre però il Termopolio praticamente intatto.

E dunque, vista l’eccezionalità delle decorazioni, si è deciso di ampliare il progetto e completare lo scavo del intera area, con l’obiettivo di ripristinare l’assetto completo del “ristorante”, che si trova nello spiazzo tra Vicolo delle Nozze d’Argento e Vicolo dei Balconi.


Alcune decorazioni erano state già ritrovate, tra le quali quella di una Nereide che cavalca un cavalluccio marino in ambiente marinaro sul fronte e un’illustrazione che probabilmente apparteneva al negozio stesso, come una sorta di marchio di fabbrica.

Ma ora anche l’ultima sezione del bancone ha rivelato altre squisite scene di natura morta, con raffigurazioni di animali che qui venivano probabilmente macellati e venduti. Frammenti ossei appartenenti agli stessi animali sono stati rinvenuti anche all’interno di contenitori incassati nel bancone, che contenevano derrate alimentari destinate alla vendita, come nel caso delle due anatre domestiche capovolte, pronte per essere cucinate e mangiate, un gallo e un cane al guinzaglio, probabilmente un vero e proprio Cave Canem, ‘Attenti al cane’.


“Oltre ad essere un altro spaccato della vita quotidiana di Pompei, le possibilità di studio di questo Termopolio sono eccezionali, perché per la prima volta un’area di questo tipo è stata scavata nella sua interezza, ed è stato possibile effettuare tutte le analisi che la tecnologia odierna permette – spiega Massimo Osanna, Direttore Generale ad Interim del Parco Archeologico di Pompei – I materiali scoperti sono stati infatti scavati e studiati sotto tutti i punti di vista da un team interdisciplinare composto da professionisti del settore di antropologia fisica, archeologia, archeobotanica, archeozoologia, geologia e vulcanologia. I reperti verranno ulteriormente analizzati in laboratorio, e in particolare si prevede che i resti rinvenuti nei dolia (contenitori di terracotta) del banco forniscano dati eccezionali per far capire cosa veniva venduto e com’era la dieta”.

Molto di più dunque di una curiosità archeologia: la scoperta promette di essere una via per una conoscenza più approfondita della vita dell’epoca (siamo nel I secolo d.C.).


Gli scavi hanno portato alla luce anche ossa umane, anche se trovate purtroppo disperse a causa delle gallerie scavate nel XVII secolo da scavi illegali alla ricerca di oggetti preziosi. Diversi frammenti, come confermano le prime analisi, appartengono a un individuo di almeno cinquant’anni, che, nel momento in cui è stato raggiunto dalle ceneri e dai lapilli, molto probabilmente si trovava in un giaciglio, come testimonia lo spazio riservato per riporlo e una serie di chiodi e residui di legno trovati sotto il corpo.

Altre ossa, ancora da indagare, appartengono invece ad un altro individuo, e sono state trovate all’interno di un grande dolium, forse dove furono collocate dai primi scavatori.

Lo scheletro completo di un cane è stato inoltre trovato nell’angolo tra le due porte del Termopolio (nell’angolo nord-occidentale della stanza). Non era un cane grande e muscoloso come quello raffigurato sul bancone, ma un esemplare estremamente piccolo, alto circa 20-25cm al garrese nonostante fosse un cane adulto. Anche se piuttosto rari, cani di taglia così piccola indicano che anche in epoca romana veniva praticata la selezione intenzionale.


lunedì 21 dicembre 2020

La Grotta Chauvet in Francia: i temi delle pitture rupestri


 Siamo in Francia, nel dicembre 1994, Jean Marie Chauvet, speleologo, insieme a due amici perlustra una serie di siti e caverne nella zona di Ardèche, a Vallon-pont d’Arc, convinto di poter trovare qualcosa di archeologicamente interessante.

 Sembra un capriccio, ma J.M.Chauvet non viene smentito e scopre una meraviglia mai conosciuta e vista prima, la Grotta Chauvet o Grotta delle Meraviglie.

Fino a quel momento non si sapeva nulla di questa caverna, la sua scoperta si è rivelata un evento grandioso e significativo in campo archeologico. Ma perché è cosi importante?

Partiamo dalle origini della Grotta Chauvet:

Stiamo parlando di 500 metri di lunghezza all’interno della montagna. La caverna infatti fu scavata nei secoli dal fiume Ardèche, e le frane ne hanno impedito l’accesso per ben 20.000 anni!

 La bellezza di questo luogo è inspiegabile, ma il suo valore preistorico è unico, e vale la pena provare a descriverlo. I nostri antenati vivevano proprio qui all’epoca, in una zona come la tundra, desolata e fredda.


Le straordinarie pitture trovate all’interno della grotta risalirebbero a ben 30.000 anni fa, e sono il motivo del grande entusiasmo degli archeologi e storici. 

Decorano le pareti della grotta, e sono di certo la più antica e più raffinata manifestazione di arte pittorica rupestre conosciuta. Possiamo vantare la certezza di questa affermazione, grazie alle conferme che ci provengono dallo studio condotto da ricercatori dell’Université de Savoie/CNRS e dell’Aix-Marseille Université

Il sito rappresenta un’eccellenza, in quanto, i temi pittorici rappresentati al suo interno non si riscontrano in alcun altro sito di arte rupestre del Paleolitico.


I temi sono diversi, ma vi troviamo in prevalenza animali come, iene, renne, bisonti, mammut, gufi,  felini enormi, rinoceronti, leoni, orsi, cervi, cavalli.

 Le figure hanno un elevato dinamismo, ma molte sono abbozzate, e ciò contribuisce a darne un indole magica ed eccitante.

 Usualmente, siamo abituati ad immaginare le pitture ripresti come disegni estremamente arcaici, privi di ogni senso realistico, eppure in questa grotta è incredibile come gli animali sembrino uscire dalla roccia stessa, o rientrarvi grazie a dei sorprendenti e forse anche inconsapevoli giochi di luce.


Proprio per tale motivo, la qualità delle tecniche degli artisti nella grotta Chauvet è considerata l’esempio più esaltante dell’arte del Paleolitico superiore. Ma nella grotta non c’è solo quanto detto: rinveniamo anche ossa di animali e qualche teschio, probabilmente usato come sacrificio divino in un rito.


Il momento più interessante per gli archeologi, oltre al valore estetico di queste pitture, è sicuramente la fase di interpretazione di queste.

Le ipotesi sui significati delle pitture rupestri sono il mezzo migliore che possiamo usare, per poter capire meglio lo stile di vita dei nostri antenati.

Inizialmente, si ipotizzò fossero opera di soggetti iniziati ai culti, convinti che le grotte fossero luoghi di creature mostruose, potenti e stregate.

Di conseguenza, forse un incontro con queste creature rappresentava prove di coraggio, qualificando la persona come adulta, idonea alla caccia e a procreare.

 Il segno del coraggio e del passaggio alla vita adulta spesso era rappresentato da una ferita di circoncisione per gli uomini, da parte di creature che personificavano il leone; ciò creava le basi per l’attività sessuale e per la caccia agli animali, proprio le attività indispensabili ad assicurare la sopravvivenza a lui e al suo clan.


Tra le ipotesi più discusse, questa sembra essere l’interpretazione più attendibile per una serie di successive e più approfondite analisi. Scopriamo perché: esiste all’interno della grotta una sorta di sala più interna, infatti chiamata la Sala del Fondo, che proprio per la sua posizione avrebbe potuto rappresentare il cardine del percorso di iniziazione

Qui c’è una figura con corna frontali: sembrerebbe un bisonte e qualcuno l’ha chiamato lo Stregone della grotta.


Di fronte invece, ci ritroviamo un pendente dalla palese forma fallica, proprio davanti ad una cavità invece di forma vaginale. Questa chiara mescolanza di forme maschili e femminili, dunque, ci rimanda all’ipotesi formulata da speleologi e archeologi.

 Una terza creatura, forse un leone, unisce la donna a quella sorta di bisonte, che rimanda invece al cerchio “vita-morte” che abbiamo tentato di ricostruire. 

Il leone, per tutti i periodi storici, dalla preistoria al medioevo, fino all’epoca moderna, è sempre stato un giudice di morte e portatore di vita, ma anche di rinascita.


Il tratto più suggestivo e anche simpatico emerge da alcuni disegni che riproducono le mani di un individuo, probabilmente lo stesso che ha prodotto tutte le pitture presenti nella grotta. Infatti c’è la traccia di un suo lieve difetto fisico, il quinto dito della mano destra che ha falangina leggermente curvata verso l’interno.


La grotta è un sito di estrema delicatezza, miracolosamente conservato grazie ai materiali naturali prodotti dalle frane, per cui, non è visitabile per non danneggiare alcun millimetro di questo grande tesoro. 

Negare però al pubblico una risorsa simile sarebbe un limite enorme: per questo è stata aperta al pubblico la replica perfettamente identica della Grotta Chauvet-Pont d’Arc. 

È il più grande duplicato di grotta paleolitica mai realizzato al mondo. Tutti gli elementi geologici ed artistici, quindi stalagmiti, stalattiti, formazioni rocciose, pitture e incisioni rupestri, sono stati riprodotti in un ambiente sotterraneo identico all’originale.

 La cura con la quale si è portato avanti questo magnifico progetto è degna di grande ammirazione da parte di tutta l’Europa.

Fonte: lacooltura.com

venerdì 11 dicembre 2020

Newgrange: in Irlanda l’immenso sepolcro più antico delle piramidi d’Egitto


 Nella vicina Inghilterra ancora non c’era traccia del gigantesco anello di megaliti che oggi conosciamo come Stonehenge, il più suggestivo e misterioso monumento preistorico della Gran Bretagna. Nel lontano Egitto la Piramide di Cheope era molto di là da venire: fu costruita sei secoli dopo Newgrange (Brú na Bóinne in lingua irlandese), una grande tomba risalente all’incirca al 3200 a.C, che domina un complesso neolitico tra i più importanti d’Europa.


Nella verde Irlanda, gli uomini del neolitico trovarono qualche forte motivazione per impegnarsi nella costruzione di monumenti rituali che devono aver richiesto uno sforzo enorme, sia in termini di tempo, sia di lavoro. Perché oltre a Newgrange, altre tombe ugualmente imponenti, e con la stessa struttura, si possono trovare in un territorio che oggi occupa diverse contee.

E’ verosimile che chi ha costruito Newgrange abbia avuto una forte influenza in aree estese dell’Irlanda, ma al di là della capacità costruttiva e degli scopi rituali che possono averli animati, di questi straordinari architetti della preistoria non si sa praticamente nulla.

Il professor Muiris Ó  Súilleabháin, della Scuola di Archeologia dell’Università di Dublino, li definisce “estremamente sfuggenti”, perché non è rimasto niente che possa testimoniare la vita quotidiana di quei costruttori di tombe: “Non ci sono prove di un insediamento su larga scala che spiegherebbe l’organizzazione e il grado di sofisticazione mostrate nelle tombe”.


Newgrange è un esempio notevole di “tomba a corridoio”: un gigantesco tumulo di forma circolare, contenuto da un muro di ciottoli di quarzo bianco e granito, provenienti anche da luoghi molto lontani, con un tetto di erba verde.

76 metri di diametro per un’altezza di 12 e complessivi 4500 metri quadrati: sono le dimensioni del gigantesco tumulo, che copre un corridoio lungo 19 metri, in fondo al quale si allarga una camera con tetto a volta, da dove si aprono altre tre stanze più piccole.



Resti umani di diverse persone, cremati e non, sono stati trovati all’interno delle camere piccole, ma questo non significa che Newgrange fosse una semplice tomba collettiva.

Quasi certamente per il popolo che costruì il tumulo (e gli altri simili), il sole aveva una parte fondamentale nei riti religiosi: l’ingresso alla tomba è allineato con il sorgere del sole nel giorno del solstizio d’inverno.


Cinquemila anni fa, esattamente all’alba di ogni 21 dicembre (oggi avviene circa 4 minuti dopo), attraverso un’apertura posta sull’ingresso, chiamata tettuccio, la luce inondava la camera interna, facendo risplendere le incisioni sulle pietre e illuminando il corridoio per circa 17 minuti.


Era il segno tanto atteso che finalmente i giorni avrebbero ricominciato lentamente ad allungarsi, portando alla ciclica rinascita dei campi e della vita.

Il luogo di culto di Newgrange fu probabilmente abbandonato già verso la fine del neolitico, anche se tornò probabilmente in uso nei primi secoli dopo Cristo, tanto che all’interno sono stati trovarti reperti di epoca romana (320/337 d.C.).

Poi tutti si dimenticarono della grande tomba, che fu ritrovata per caso nel 1699. Nessuno, nel corso dei decenni e dei secoli successivi riuscì a dare delle risposte alle tante domande che il tumulo faceva sorgere: era opera dei fenici, oppure dei visitatori romani che adoravano Mitra (l’Irlanda non fu mai annessa all’Impero Romano), o forse erano arrivati in Irlanda gli antichi egizi, o i meno lontani Vichinghi?

Solo gli scavi compiuti dal professor Michael O’Kelly, tra il 1962 e il 1975, hanno in gran parte risolto il mistero. Fu lui ad accorgersi, il 21 dicembre 1967, che i lontanissimi antenati neolitici avevano voluto onorare il sole e i loro morti con una costruzione che impressiona ancora oggi, dopo cinquemila anni. Perché il ciclo della vita e della morte, il rincorrersi delle stagioni in un continuo addormentarsi e risvegliarsi, sono immutabili e immutati .

Fonte: vanillamagazine.it

martedì 8 dicembre 2020

Il “volo” del Botafumeiro, il grande incensiere di Santiago de Compostela


 Uno dei simboli più famosi e internazionalmente riconoscibili della Cattedrale di Santiago de Compostela è il Botafumeiro, si tratta di un incensiere di imponenti dimensioni che si muove nella cupola centrale della Cattedrale.

Grazie a un sistema di carrucole e pulegge, otto uomini chiamati “tiraboleiros” fanno oscillare verso le navate laterali e lungo tutta la navata centrale questo grande incensiere che pesa 53 chilogrammi e misura un metro e mezzo.

 Durante il momento in cui il Botafumeiro asperge i fedeli con l’incenso, sospeso a circa 20 metri d’altezza, la sua velocità può raggiungere quasi i 70 chilometri orari e lasciare letteralmente senza fiato gli astanti con il suo volo iperbolico.


La prima fonte documentaria che cita il Botafumeiro è una nota marginale del Codex Calixtinus, del XIV secolo dove è chiamato “Turibulum magnum” che con tutta probabilità rappresenta il primo degli incensieri che si sono avvicendati nel corso dei secoli.

Uno dei più noti è quello regalato dal re francese Luigi XI nel XVI secolo e che era stato realizzato completamente in argento; probabilmente proprio il suo grande valore lo rese oggetto dell’interesse dell’esercito napoleonico che lo rubò nel 1809.
Il Botafumeiro che viene utilizzato oggi nelle funzioni religiose risale al 1851 è stato costruito in ottone e argento ad opera di Josè Losanda, ed è quello che viene utilizzato regolarmente; ma dopo il furto avvenuto durante l’occupazione francese del principale ne è stata realizzata una replica in argento.


Non sempre il suo funzionamento fu così perfetto, nel corso della storia, infatti, sono diverse le testimonianze che segnalano i difetti di gestione dell’incensiere: nel 1610, il pellegrino Diego de Guzman scriveva nel suo diario che il Botafumeiro toccava regolarmente la struttura della cattedrale “dando colpi alle volte alte”; e in diverse altre occasioni, in effetti, sappiamo che l’incensiere arrivò a sganciarsi dai suoi ingranaggi.

Il primo scopo del Botafumeiro non era di natura religiosa, poiché veniva utilizzato per coprire i cattivi odori dei pellegrini che giungevano alla Cattedrale di Santiago de Compostela dopo mesi di intenso cammino.
Solo più tardi assunse la sua funzione liturgica a simboleggiare la vera attitudine del credente che, analogamente a quanto accade con il fumo dell’incenso che sale in cima alle navate, profonde le sue preghiere con intensità così che salgano al cuore di Dio.

Il suo aroma ha, infatti, un riconoscibile significato simbolico connesso con la preghiera e con la purificazione spirituale: “Come incenso salga a te la mia preghiera” (Salmo 141:2).


Fonte : meteoweb.eu

 

martedì 1 dicembre 2020

La scienza svela cosa si nasconde dietro 2 Mummie scoperte nel 1615


 Circa 2.000 anni fa tre persone morirono e vennero mummificate, finendo poi sepolte nella necropoli di Saqqara.

 Due delle mummie vennero scoperte nell’ormai lontano 1615, mentre un’altra, quella di una ragazza, è stata svelata in epoca più recente.

 I loro volti furono dipinti nelle assi di legno che ricoprivano la mummia, similmente ai ritratti del Fayyum, e ci mostrano l’aspetto dei defunti quando erano ancora in vita.

Grazie alla tomografia computerizzata, ovvero a una TAC su corpi ormai antichissimi, sono emersi particolari interessanti riguardo le mummie, particolari inimmaginabili sino a quando non sono stati svelati.


Tutte e tre le mummie risalivano all’epoca romana dell’Egitto, fra il 30 a.C. e il 395 a.C., e avevano età simili tra loro:

  • Tra i 30 e 40 anni la donna, alta 151 centimetri
  • Tra i 25 e 30 anni l’uomo, alto 164 centimetri
  • Tra i 17 e 19 anni la ragazza, alta 156 centimetri

Stephanie Zesch, antropologa ed egittologa tedesca, spiega: “E’ probabile che a nessuna di queste mummie siano stato rimossi il cervello e gli organi interni. Siamo sicuri che i loro corpi si siano preservati e siano riusciti a sopravvivere fino a oggi grazie a una semplice tecnica di disidratazione, dove si utilizzava il natron (un particolare tipo sale)”.


L’ipotesi della mummificazione per disidratazione e della non asportazione degli organi è confermata dalla mummia della ragazza, che presenta sia un tumore benigno alla spina dorsale sia residui dei suoi organi.

 Gli adulti non presentano tracce così evidenti di organi e tessuti organici, e di loro sono ormai rimaste soltanto le ossa.

Le tre persone sepolte inoltre dovevano essere membri abbienti della società, perché portavano con sé collane e monete d’oro e diversi altri gioielli.


Le mummie dei due adulti furono scoperte nel 1615 da un compositore italiano, Pietro della Valle (1586-1652), che si trovava a passare dall’Egitto durante il pellegrinaggio verso la terra santa.


A Saqqara scoprì questi corpi e decise di portarli con sé in Europa, a Roma, precisamente, considerando la scoperta come un miracolo legato al suo viaggio. Gli Europei dell’epoca videro, per la prima volta, dei ritratti appartenenti a delle mummie morte nel periodo romano dell’Antico Egitto. I reperti passarono di mano in mano sino a giungere in Germania, dove sono state infine analizzate e da dove abbiamo scoperto (alcuni) dei loro segreti.

Fonte: vanillamagazine.it



lunedì 23 novembre 2020

Le Cascate delle Marmore, come gli antichi romani resero più bella la natura


 Uno dei più singolari e affascinanti spettacoli “naturali” dell’Umbria è rappresentato dalla Cascata delle Marmore.

 Descritte già in età romana, furono celebrate dai viaggiatori del “Gran Tour” tra Sette e Ottocento, ma molti non sanno che si tratta di una realizzazione artificiale dovuta proprio all’opera ingegneristica degli antichi romani, grazie alla quale oggi possiamo apprezzare questo  stupefacente panorama.

La cascata si trova nella Valnerina, a 7 chilometri di distanza dalla città di Terni, nel meraviglioso Parco Naturale della Cascata delle Marmore, ed è formata artificialmente dal precipitare del fiume Velino dall’altopiano delle Marmore nel fiume Nera.
Il nome Marmore deriva dai caratteristici sali di carbonato di calcio che si sedimentano sulle rocce della montagna e che grazie al riflesso della luce del sole assumono l’aspetto di bianchi cristalli di marmo.


La Cascata delle Marmore ha origini antichissime che risalgono al 271 a.C.. 

In epoca romana, il console Manio Curio Dentato ordinò la costruzione di un canale che potesse far defluire le acque stagnanti del Velino convergendole verso il Nera. 

La grande opera di bonifica fu realizzata deviando il corso del fiume e formando quella che oggi conosciamo come una delle cascate più famose d’Italia.

Nel tempo, gli allagamenti che periodicamente si verificavano durante le piene dei due fiumi e che causavano le inondazioni delle campagne e molte altre difficoltà agli abitanti delle zone circostanti, richiesero ulteriori interventi.

 Uno dei più famosi è da attribuire all’opera di Antonio Da Sangallo il Giovane con la costruzione di uno dei due nuovi canali che furono realizzati tra XV e XVI secolo.

 Il pericolo delle inondazioni fece insorgere più di una volta gli abitanti della Valnerina e ottennero altri interventi, tra Seicento e Settecento, che mettessero in sicuro la loro esistenza e che fecero assumere alla Cascata l’aspetto che apprezziamo oggi.



La spumeggiante massa bianca delle acque compie tre salti, scivolando per un dislivello di 165 metri e la spettacolarità è accentuata dal fragore e dalla polverizzazione acquea che in certe condizioni atmosferiche crea effetti cromatici dal sicuro effetto scenografico.

L’area della Cascata è formata da depositi di travertino che, grazie alla sua natura friabile e all’intensa circolazione delle acque, ha permesso il formarsi di cavità, grotte e forme carsiche

Le cavità più interessanti dal punto di vista speleologico sono quelle della Grotta della Morta e della Grotta delle Diaclasi che hanno uno sviluppo di 287 metri e una profondità di 23 metri, oltre alla Grotta della Condotta che si sviluppa per oltre 190 metri.

Fonte:meteoweb.eu

giovedì 19 novembre 2020

Perché a Praga c’è una faccia gigante che ruota in perenne “metamorfosi”?


 “Le Metamorfosi” di Kafka rappresentate attraverso una scultura cinetica che riproduce il capo del noto scrittore: ecco una delle ultime opere dell’artista ceco David Černý, famoso per le sue intallazioni provocatorie e irriverenti.

L’opera, commissionata dai centri commerciali Quadrio di Praga nel 2014, consiste in una testa alta quasi 11 metri realizzata in acciaio inox; i 42 blocchi che compongono la scultura ruotano in modo indipendente grazie a un motore.

 L’installazione, oggi diventata un vero e proprio monumento che attrae numerosi turisti,  è un connubio di arte e tecnica: per realizzarla l’artista ha collaborato con il reparto di ingegneria meccanica di una nota ditta specializzata in robotica.


L’effetto è straniante: la forma della statua cambia senza fermarsi mai, come a simboleggiare l’alienazione dell’essere umano moderno all’interno della società.

 È evidente che l’artista ha ripreso uno degli elementi peculiari della poetica del noto scrittore: i personaggi kafkiani sono spesso privi di tratti fisici distintivi, nonché incastrati in dinamiche indipendenti dal loro volere, vittime di un destino indecifrabile.

La scultura raffigura  la dispersione dell’identità  attraverso un volto vuoto, in continua trasformazione, che riverbera lo spazio circostante grazie al gioco di specchi. 

La continua scomposizione del viso rivela una verità che ha a che fare con il concetto di identità dell’Io: il nostro ego non è altro che la proiezione degli sguardi altrui, un’unità fragile e sempre mutevole.


In questa scultura Černý quindi non ha solamente omaggiato uno degli scrittori europei più importanti di tutti i tempi, ma ha rappresentato l’essenza stessa della psiche umana e dell’alienazione dell’uomo moderno nella società


lunedì 16 novembre 2020

Epocale scoperta archeologica: riemerge il quartiere marittimo dell’antica Ostia, luogo che sugellò la fortuna di Roma


 Ostia ha fatto la fortuna di Roma. 

L’antica città, infatti, è stata la prima colonia dell’antica Roma, espandendosi per secoli come suo alter ego sulla costa del Tirreno. Ora, zone mai scavate (o esplorate solo superficialmente) dell’abitato, in particolare il quartiere marittimo, stanno tornando alla luce grazie ad un progetto guidato dal Dipartimento di Storia Culture Civiltà dell’Università di Bologna. 

L’ultima campagna di scavo, conclusa nei giorni scorsi, si è concentrata attorno all’area del ‘Caseggiato delle due scale’, un isolato dal quale è possibile ottenere informazioni importanti su come mutarono i modi dell’abitare nell’antica città tra il II e il V secolo d.C.

Gli studenti e gli archeologi dell’Alma Mater bolognese coinvolti hanno inoltre realizzato un saggio stratigrafico dell’area archeologica, e hanno portato avanti una campagna di restauro della “Caupona del dio Pan“, antica osteria che a partire dal IV secolo venne trasformata in un mitreo (edificio sacro destinato al culto del dio Mitra) decorato con marmi colorati.

 L’area del quartiere marittimo, su cui si concentra il ‘Progetto Ostia Marina‘, si estende fuori dalle mura della città, oltre l’antica Porta Marina, che doveva distare poco più di centro metri dal mare quando venne realizzata nel I secolo a.C. 

In seguito, in quel tratto di costa il mare si allontanò. È così che nacque il quartiere: una zona suburbana che crebbe progressivamente sulla costa, fuori dalla città.

Grazie alle campagne di scavo realizzate fino ad oggi sono stati individuati tre nuovi edifici: la “Caupona del dio Pan”, il “Caseggiato delle due scale” a cui sono associate le “Terme dello scheletro” e le “Terme del Sileno”. 

Inoltre, sono stati indagati edifici già noti e famosi come le “Terme della Marciana” e le “Terme di Musiciolus”. “Le ricerche del Progetto Ostia Marina richiamano l’attenzione di studiosi impegnati su molti temi diversi: esperti del paleoambiente, storici dell’architettura, storici delle religioni, numismatici, medievisti e tanti altri specialisti – dichiara Massimiliano David, professore dell’Università di Bologna che dirige gli scavi – Tutti calamitati da scoperte che stanno offrendo opportunità inattese per riuscire a ricostruire la vita di questa antica città, un centro di fondamentale importanza per l’antico spazio mediterraneo“.

Nato nel 2007 grazie ad un accordo strategico con l’allora Soprintendenza Speciale per i Beni Archeologici di Roma (oggi Parco Archeologico di Ostia Antica), il ‘Progetto Ostia Marina’ si concentra sul quartiere marittimo, una delle aree suburbane più importanti dell’antica città. 

Il fascino di questa ricerca deriva dalla possibilità di documentare un paesaggio urbano che si è trasformato continuamente nei secoli, sia per mano dell’uomo che a causa dell’azione della natura“, spiega Massimiliano David.




Il nome Ostia deriva da Ostium, ovvero la bocca, la foce del fiume. Anticamente, infatti, il Tevere terminava il suo corso proprio qui prima di buttarsi nel mar Tirreno. 

Il parco archeologico di Ostia Antica è uno dei meglio preservati siti archeologici dell’antica Roma, con 50 ettari di costruzioni e cambiamenti durante circa 8 secoli.

Secondo le fonti dell’epoca Ostia fu fondata dal re Anco Marzio nel VII sec. a.c.

 Reperti di materiali dell’età del bronzo recente (XIII-X sec. a.c.) nel territorio di Ostia e Acilia (antica Ficana), testimoniano come la foce del Tevere fosse abitata in tempi remoti, ma non ci sono tracce dell’era monarchica. 

Maggiori informazioni sono note invece in merito all’insediamento romano nel IV sec. a.c., dove Ostia fu fondata come colonia militare per il controllo della costa, con un porto fluviale, il Portus Urbis, da cui, fin dal II sec. a.c., dipendeva l’approvvigionamento di grano per l’antica Roma.

I primi insediamenti risalenti al IV sec. ebbero luogo sullo sbocco del Tevere. 

Ostia sorse dunque come castrum, ovvero un insediamento fortificato delimitato da un perimetro quadrangolare edificato in blocchi di tufo.

 Dopo la fondazione della cinta muraria, progettata da Cicerone, la città venne dotata di piano urbanistico e riorganizzata, ad opera degli imperatori, in maniera tale da renderla adatta per le distribuzioni alimentari alla plebe.

 In età imperiale, dunque, Ostia si sviluppò come Porta del Tevere, divenendo per diversi secoli via di comunicazione primaria, e porta del Tirreno, come centro commerciale portuale, indispensabile per l’approvvigionamento del grano nell’Urbe.

Dalla metà del I sec. a.c. Ostia divenne a tutti gli effetti colonia romana, raggiungendo così un grande sviluppo economico, commerciale e demografico, divenendo altresì raccordo tra importantissime vie di comunicazione (Tevere e Tirreno) con Roma. Quello sviluppo trasformò Ostia in una città cosmopolita, con razze e culture differenti.

 I cittadini erano, in base alla professione, raggruppati in corporazioni, con lingue e religioni differenti, come emerge dai templi dedicati oltre alle divinità locali, a Mitra persiana, a Cibele frigia, a Iside egiziana, e a una Sinagoga ebraica.

 Fu la città delle libertà: vi si insediarono persone  in cerca di fortuna e soprattutto liberti.

 La vicinanza a Roma fece di Ostia un importante centro di commercio e approvvigionamento per la capitale, ampliandola con un foro, un acquedotto e un teatro.

Dal porto di Ostia passava ogni cosa destinata a Roma: dal grano, ai cammelli e agli elefanti per gli spettacoli circensi.

 Ostia arrivò a contare 100.000 abitanti, ma con la crisi del III secolo giunse anche il suo declino.

 Si riprese nel IV sec. come sede residenziale, ma le attività commerciali e amministrative si erano ormai spostate nella città di Porto e dunque dopo poco tempo decadde nuovamente.

Fonte: meteoweb.eu

sabato 14 novembre 2020

Perché nell'inchiostro dei papiri egizi c'è del piombo?


 Secondo quanto scoperto da uno studio pubblicato su PNAS, condotto da un team di ricercatori dell'Università di Copenaghen, gli antichi egizi utilizzavano inchiostri colorati a base di piombo per favorire l'asciugatura della tinta evitando nel contempo sbavature sul supporto. Prima d'ora questa soluzione era stata documentata solo per le pitture europee del XV secolo: ora l'utilizzo di pigmenti a base di piombo può essere retrodatato di 1.400 anni.

Con una tecnica di microscopia a raggi X gli studiosi hanno analizzato 12 frammenti di papiri egizi risalenti agli anni dal 100 al 200 d.C., periodo di dominazione romana: «La nostra analisi ha evidenziato ingredienti finora sconosciuti negli inchiostri rossi e neri utilizzati dagli antichi egizi», spiega il responsabile dello studio, Thomas Christiansen, «in particolare il piombo e il ferro».

Il ferro è stato trovato negli inchiostri rossi, creati probabilmente a partire dall'ocra, un pigmento naturale nel quale sono presenti anche alluminio ed ematite. 

Il piombo, invece, è stato ritrovato sia negli inchiostri rossi, sia in quelli neri.

 Per questo gli studiosi ritengono che il piombo non servisse a colorare l'inchiostro, ma ad asciugarlo rapidamente sui papiri.


I frammenti di papiro studiati formano parte di una serie di manoscritti appartenenti alla biblioteca del tempio dell'antica città di Tebtunis. 

È probabile che i sacerdoti del tempio, autori dei papiri, non producessero gli inchiostri, ma li acquistassero. 

Secondo quanto rivelato dalle analisi, infatti, gli inchiostri rossi erano particolarmente complicati da ottenere e richiedevano la mano di specialisti.

Le parole di un incantesimo impresse su un papiro alchemico greco del III secolo d.C. supporterebbero proprio questa ipotesi: «L'incantesimo fa riferimento a un inchiostro rosso preparato in un laboratorio», afferma Christiansen, «a conferma che le nostre ipotesi sono corrette, e che i sacerdoti non producevano l'inchiostro da soli».

Fonte: focus.it

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