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mercoledì 31 ottobre 2018

Scoperti in Perù 19 idoli in legno di 750 anni fa


Sono stati scoperti nei giorni scorsi i 19 idoli in legno simili ad esseri umani nella città di Chan Chan, in Perù, reliquie di oltre 700 anni fa alte circa 70 centimetri.
 Le figure antropomorfe fanno parte della zona più antica della capitale del regno Chimù, una cultura che si sviluppò fra il 900 e il 1430 circa, quando venne assorbita e conquistata dall’impero Inca.


Nonostante la “città che si scioglie”, come viene chiamata, sia parte del patrimonio UNESCO dal 1986, il corridoio con i 19 idoli è stato scoperto soltanto di recente. 

Il corridoio era probabilmente l’entrata di accesso a un luogo per le cerimonie religiose o a una piazza pubblica, e chiunque vi passasse accanto doveva rimanere impressionato dai misteriosi idoli di legno.
 La scoperta delle statue è avvenuta per caso durante i lavori di restauro delle mura del complesso di Utzh An, iniziato nel giugno 2017 che dovrebbe terminare nel maggio 2020.


Nonostante sembrino simili, ogni statua è scolpita in modo unico, e alcune indossano maschere di argilla. 
Altri idoli hanno uno scettro in mano e sono affiancati da un oggetto circolare simile a uno scudo, ma di questi non sono state fornite fotografie.



Fonte: vanillamagazine.it

martedì 30 ottobre 2018

L'incantata poesia del Lake District


Fu il poeta inglese William Wordsworth a definire il Lake District "un sacro luogo dove si mescolano terra e cielo".

 La sua poesia pubblicizzò l'area all'inizio del XIX secolo, rendendola attraente agli occhi di scrittori, poeti e artisti.

 Il Lake District, uno dei parchi nazionali britannici, attira 12 milioni di turisti ogni anno.
 I laghi e le tondeggianti colline della regione sono un'eredità lasciata dall'ultima era glaciale, quando i ghiacciai modellarono la roccia.
 Di forma stretta e allungata, i laghi sono caratteristici delle valli glaciali i cui imbocchi siano chiusi da morene terminali.

 Oggi l'intera regione è coperta dal verde dei campi, dei prati e delle foreste e dal blu e grigio delle acque. 
Benché le montagne non siano molto elevate né i laghi siano vasti, il fascino di questi luoghi sta nell'incantata poesia della terra e delle acque, che scintillano di una bellezza fragile; inoltre, a dispetto della quota modesta, nel Lake District si trova la cima più alta d'Inghilterra, lo Scafell Pike, di 978 metri.


Agli agricoltori che abitavano la zona nel tardo Neolitico seguirono le genti celtiche, quindi gli invasori Normanni; tutti abbatterono le antiche foreste per far posto a pascoli lussureggianti, simili a parchi.

 I vocaboli della lingua parlata dai Vichinghi, il norse, permangono nei toponimi attuali: dale sta per valle, fell indica la montagna o la collina, bec/c significa torrente e tarn è un lago di montagna.

 Le tradizioni regionali sono tenaci, ma stanno per essere soffocate dalle migliaia di turisti che giungono qui ogni anno con la speranza di poter stare a contatto con la natura, così come un tempo sosteneva Wordsworth.
 Per proteggere l'area, nel 1951 fu creato il Lake District National Park, il cui territorio, a differenza di analoghe istituzioni in altre nazioni, è per la maggior parte di proprietà privata.


Il parco, esteso su 1400 chilometri quadrati, è il più vasto dei dieci parchi nazionali di Inghilterra e Galles e include 16 laghi principali, fra cui l'Ullswater, il Bassenthwaite, il West Water, il Coniston Water e il più grande, il Windermere, lungo una quindicina di chilometri e largo in media non più di 800 metri.

 Molti escursionisti vengono ad assaporare le bellezze di questo paesaggio, di questa parte di Inghilterra che colpisce profondamente, rara e vulnerabile. 

 Il parco è composto da tenute private, per lo più fattorie per l'allevamento delle pecore, collegate da quasi 3000 chilometri di sentieri aperti al pubblico e di tracciati per l'equitazione.
 La popolazione locale conta 40.000 abitanti, insediati nelle proprietà e nelle cittadine che sorgono in prossimità dei laghi. 

Rilievi corrugati in morbide curve, avvolte dai folti manti di erba verde e bruna, coronano i placidi laghi distesi ai loro piedi e sembrano volersi precipitare nelle acque increspate dal vento che gli uccelli acquatici, in prevalenza anitre, eleggono a loro dimora.
 Il colore delle colline che circondano le acque appare quasi iridescente, in uno scenario che non ha eguali al mondo, dove a predominare sono sensazioni di pace e di quiete.


Fra coloro che amano percorrere a piedi questa scenografia di spettacolare bellezza è diffuso il fell running, ovvero la corsa su e giù per le colline e le montagne della regione.

 Sia che corra, sia che passeggi piacevolmente nella campagna, ogni escursionista potrà comunque contemplare, nella luce screziata del giorno, l'ombra delle nuvole arrampicarsi lungo i fianchi arrotondati delle colline e gli sarà facile comprendere, ammirando i riflessi del sole in un lago o in una cascata, come un paesaggio tanto spettacolare possa condurre artisti e poeti ad altezze gloriose.


E' curioso notare che, come uno scrittore indirizzò l'attenzione del pubblico sul Lake District, così una scrittrice si sia impegnata per conservarlo: Beatrix Potter, autrice dei racconti di Peter Rabbit, si adoperò per salvare le fragili risorse della regione in cui risiedeva. Quando morì, nel 1943, lasciò 15 fattorie e altre proprietà al National Trust, atto che ispirò l'istituzione del Parco Nazionale. 

Attualmente il National Trust possiede circa un quarto del Lake District, ovvero 360 chilometri quadrati di territorio, che includono 85 fattorie oltre, naturalmente, ai feìl, ai laghi e ai tarn.



Fonte: viaggioneltempo.eu

lunedì 29 ottobre 2018

La mummia di una donna egizia stranamente tatuata, potrebbe essere di una maga molto potente?


Quattro anni dopo che un torso mummificato di donna, decorato con tatuaggi unici, è stato scoperto in una tomba di Luxor, le autorità egiziane hanno ufficialmente confermato che i resti appartenevano a una figura religiosa molto rispettata che morì in un periodo della sua vita compreso trai 25 e i 35 anni 

I resti insoliti sono caratterizzati dal primo esempio di complessi tatuaggi religiosi nell’antico Egitto, aggiungendo prove dell’ipotesi che una tale forma dettagliata di alterazione del corpo avrebbe potuto trasformare le donne in oggetti di rito divino o magico. 

“Studi scientifici e archeologici rivelano che è la mummia di una donna che probabilmente visse tra il 1300 e il 1070 a.C. e morì quando la sua età era compresa tra i 25 e i 35 anni”, ha annunciato il segretario generale del Consiglio Supremo delle Antichità, Mustafa el Waziri . 

L’annuncio è recente, ma il tronco di mummia è stato scoperto nel 2014 nel sito archeologico del villagio di Deir El-Madina, sulla riva occidentale di Luxor dall’Istituto Francese di Archeologia Orientale, all’interno di una tomba che mostrava chiari segni di saccheggio.
 Senza le mani, le gambe, la testa e il bacino, non era facile stabilire l’età del corpo. 
La tomba saccheggiata ha anche fornito pochi indizi sulla sua storia, lasciando i ricercatori desiderosi di capire di più sul suo background con un compito molto arduo.

 Quello che hanno trovato era un corpo adornato con più di 30 intricati disegni tatuati nella sua pelle ancora conservata su spalle, collo, schiena e braccia. 
Alcuni erano disegni di fiori di loto e babbuini seduti, che indicavano proprietà magiche di guarigione o protezione contro la malattia.
 La maggior parte era chiaramente destinata a essere visibile.


Ma era la moltitudine di occhi semi-chiusi bordati di linee serpeggianti che spiccavano davvero. 
“Da qualsiasi angolazione guardi questa donna, puoi vedere un paio di occhi divini che ti osservano”, ha spiegato la bioarcheologa Anne Austin della Stanford University durante un incontro di antropologi nel 2016.
 I numerosi “wadjet” o occhi di Horus che decoravano il suo corpo non sarebbero sembrati fuori posto sulle pareti del tempi dove veniva adorata la dea Hathor. 
Il che ha spinto i ricercatori a chiedersi: era questo il corpo di una specie di sacerdotessa?

 I tatuaggi figurati nell’antico Egitto risalgono ad almeno 5.000 anni fa . 
Prima di questo periodo, la body art consisteva principalmente di punti e linee semplici.
 Antichi esempi di tatuaggi più complessi si distinguono perché sono così incredibilmente rari, rendendo difficile fare molto di più che speculare sul loro significato.
 Gli archeologi possono fare congetture sulla base di schemi che trovano su figure, ma è un passo avanti affermare che queste immagini rappresentino accuratamente i tatuaggi così come erano nella realtà.


Nel 1891, un egittologo francese di nome Eugène Grébaut scoprì una specie di stele di Rosetta per tatuaggi in una vecchia bara di legno, con i resti mummificati di una donna dell’XI e XII dinastia (circa 4000 anni fa).
 Grazie ai suoi meravigliosi motivi a inchiostro che assomigliavano a quelli trovati su minuscole statue e sculture religiose, venne riconosciuta come Amunet, Sacerdotessa della Dea Hathor.

 C’è solo un problema in quanto c’è un dibattito sul fatto che alle donne sarebbe stato permesso di agire come figure religiose in molte delle sette egiziane.
 Solo avere simboli sacri non ha reso Amunet stessa una donna santa. 

Con questa scoperta più recente, la discussione è tornata di nuovo sul fatto che la donna con immagini divine e magiche tatuate sulla sua pelle potesse essere stata una figura religiosa, o se i tatuaggi avessero un altro scopo, forse per guarirla dalla malattia.

 I ricercatori hanno avuto comunicato la loro opinione in merito due anni fa, pubblicando uno studio che riduceva la sua età al momento della morte in base alla crescita e alla densità ossea.
 Sostenevano anche che questa figura fosse davvero qualcuno di qualche significato religioso.
 Quei tatuaggi, suggeriscono, potrebbero averla trasformata in un oggetto di un rituale divino.


Citano la prova che le donne potrebbero essere effettivamente condotte del potere divino e fare riferimento ad esempi di “donne sagge” dello stesso periodo. 

“Questo ci porta ad affermare che la nostra donna tatuata era forse anche una di queste donne sagge o, almeno, una specie di maga” , suggeriscono nella loro relazione . 

Ci è voluto del tempo prima che il concetto venisse accettato dai funzionari egiziani.
 Il Supremo Consiglio delle Antichità ora riconosce che i resti rappresentano in realtà una figura che ha avuto un ruolo di qualche significato religioso nella storia dell’Egitto.

 Dopo circa 3.000 anni, è meraviglioso vedere il suo corpo decorato che può essere ancora una volta apprezzato come un’opera d’arte. 


 Da: www.sciencealert.com

venerdì 26 ottobre 2018

Bisti Badlands: il deserto di pinnacoli del New Mexico


Bisti Badlands è un luogo surreale, poco conosciuto e straordinario dal punto di vista naturalistico.

 Questa riserva naturale, conosciuta anche come Bisti Wilderness Area (e comprendente la contigua De-Na-Zin), si trova in New Mexico, nel deserto del Bacino di San Juan. 

Qui, la distesa di rocce, tumuli, pinnacoli, canyon dalle forme più strane per effetto dell’erosione degli agenti atmosferici ha creato un suggestivo scenario per il viaggiatore curioso che si spinge in questo luogo remoto ma stupefacente.






Anticamente, sull’area si estendeva il mare. 
Il moto ondoso ha levigato quegli strati che, una volta esposti al sole e al vento, hanno subito ulteriori processi di trasformazione che oggi si manifestano in forme bizzarre e curiose. 

Non ci sono percorsi segnalati (anche se la Riserva è gestita dal BLM, il Bureau of Land Management) quindi si rende indispensabile una certa attenzione mentre si cammina in questo paesaggio lunare per non danneggiare, se non distruggere, la morfologia così delicata della Riserva. 

Oltre alle forme eccentriche, a rendere la location ancor più affascinante sono i colori delle rocce (bianco, arancione, giallo, rosso, viola, grigio e nero) che offrono dei punti di riferimenti per il visitatore che altrimenti avrebbe ben pochi elementi per orientarsi.


Ricordiamo che nei 4000 ettari di estensione la vegetazione è ridotta a spogli cespugli e ad alberi pietrificati rilevantissimi dal punto di vista scientifico, insieme ai resti di fossili risalenti ai dinosauri che abitavano l’area.


Fonte: turistadimestiere

giovedì 25 ottobre 2018

Mar Nero: il relitto di una nave greca di 2.400 anni fa, quasi intatta


Sul fondo del Mar Nero, a circa 80 km dalle coste della Bulgaria e a 2.000 metri di profondità, giace quello che sembra essere il più antico relitto di un naufragio: una nave mercantile lunga circa 25 metri, di origine greca (presumibilmente di oltre 2.400 anni fa), ritrovata in ottimo stato di conservazione, "sdraiata" sul fondale ancora con i suoi alberi, il timone e le panche dove sedevano i rematori.

 La nave a "doppia propulsione" - vele e remi - è stata individuata in un noto cimitero di relitti, dove sono già state localizzate oltre 60 imbarcazioni.

 L'esplorazione del relitto è stata condotta in momenti diversi negli ultimi anni, e solo nel corso dell'ultima spedizione si è giunti alla conclusione che dovrebbe trattarsi del più antico relitto intatto al mondo: una nave la cui struttura era nota solamente perché rappresentata nei disegni di antiche ceramiche greche, come il cosiddetto Siren Vase (il vaso delle Sirene), conservato al British Museum.


Rispetto alla moltitudine di reperti, quel particolare vaso è citato da alcuni perché si ritiene che possa rivelare qualcosa sulla storia dei viaggi di Ulisse, forse persino di quel passo dell'Odissea dove si racconta che il re di Itaca si fece legare a un albero della nave per ascoltare senza rischi il canto tentatore delle sirene - esattamente la "scena" descritta dalle decorazioni del vaso.


L'eccellente stato di conservazione del reperto è dovuto al fatto che, alla profondità in cui giace, l'acqua del Mar Nero è anossica, ossia è quasi completamente priva di ossigeno, e questo ha permesso al materiale organico di conservarsi per migliaia di anni.

 La datazione della nave è stata condotta col metodo del carbonio-14 su di un piccolo pezzo di legno portato in superficie: l'analisi la fa risalire al 400 avanti Cristo.


Jon Adams, responsabile della ricerca nell'ambito del progetto di esplorazione e mappatura del Mar Nero, rivela che «il relitto è così ben conservato che è ancora possibile osservare il timone in posizione. 
Non avrei mai pensato che una nave del mondo classico situata a oltre 2.000 metri di profondità potesse conservarsi praticamente intatta per oltre 2000 anni.
 Lo studio sul relitto promette di cambiare radicalmente le nostre conoscenze sulla costruzione navale e la navigazione del mondo antico».


Stando ad Adams la nave potrebbe essere affondata durante una tempesta di fronte alla quale l'equipaggio, che poteva essere composto tra i 15 e i 25 uomini, non riuscì a fare nulla, e non sarebbe da escludere la possibilità che vi siano i loro corpi conservati nei sedimenti circostanti la nave.

 Al momento non c'è un progetto per riportare il relitto in superficie, in parte per i costi di una tale operazione e in parte perché sarebbe necessario suddividerlo in pezzi.

 I ricercatori impegnati nel progetto Black Sea Map hanno rinvenuto reperti anche più antichi della nave greca, ma di questi sono stati trovati solo frammenti.
 Il luogo dove giace la nave greca è in realtà costellato di relitti: «Nella stessa area ci sono, per esempio, alcune parti di una nave mercantile medievale, con le sue torri di prua e di poppa ancora praticamente intatte, con il sartiame e tutte le sue decorazioni», conclude Adams.

 Fonte: focus.it

mercoledì 24 ottobre 2018

IL Castello di Eltz: la roccaforte dei liberi cavalieri


Oggi Eltz è un castello fatato racchiuso nel verde di un bosco ma, durante il medioevo fu il caposaldo dei liberi cavalieri germanici contro lo strapotere imperiale. 

Situato nella regione Rheinland–Pflanz a circa 20 km da Coblenza, in Germania, si erge una costruzione fatata, ricca di guglie e di torrette, incastonata nel verde, una vista indimenticabile ed affascinante che nasconde perfettamente l’aspetto guerresco delle sue vicende storiche.

 Nel XIV secolo i liberi cavalieri germanici del Sacro Romano Impero, guidati dai signori di Eltz, rifiutarono obbedienza all’imperatore Enrico VII di Lussemburgo. 
Contro di loro mosse il fratello dell’imperatore, il Principe Elettore Baldovino di Treviri, che strinse d’assedio il castello di Eltz, dove si erano asserragliati gli oppositori. Ma gli assalti si rivelarono inutili contro le solide mura della fortificazione. 
Il castello venne attaccato in tutti modi ma tutto si rivelò vano, il castello era inespugnabile fino a che, due anni dopo gli assediati dovettero arrendersi per fame.


Quello di Eltz può essere considerato una specie di “condominio medievale”o meglio un “castello consortile”, una fortificazione medievale divisa tra i vari rami di una stessa famiglia. 

Questo castello fatato apparteneva infatti a quattro differenti rami dei signori di Eltz: i Platteltz, i Kempenich, i Rodendorf ed i Rubenach, ognuno con il suo proprio simbolo araldico viveva in un ala di sua proprietà. Se uno dei rami si fosse estinto, la sua parte di proprietà sarebbe automaticamente passata ai restanti “colonnellati”, come erano appunto chiamati i diversi rami di una stessa famiglia. 

 Al suo interno, lo stretto cortile rende particolarmente evidente la struttura verticale e difensiva, della costruzione che si innalza in modo vertiginoso dal suo basamento di roccia.


All’interno del castello, ci sono ancora gli arredi originali, che è possibile ammirare durante le visite guidate.
 Le sale interne, infatti, sono ancora più belle dell’esterno, con i loro decori e le opere d’arte contenute. 
Tra le opere più prestigiose, anche la “Madonna con bambino e uva” di Lucas Cranach.




In più, nella Sala del tesoro, sono custodite ceramiche, armi antiche, gioielli, argenterie, monete e porcellane pregiate.

 L’opera più importante della sala è però una statuetta di Diana, dea della caccia, che cavalca un cervo, realizzata da Joachim Friess intorno al 1600.


Nella Sala dei cavalieri, invece, la più sontuosa di tutto il castello, ci sono armature, fregi araldici e maschere di buffoni.




I visitatori apprezzano molto anche la cucina della casa dei Rodendorf, risalente al XV secolo e rimasta inalterata da allora.


Il Castello è completamente circondato da circa 300 ettari di foresta incontaminata, che formano una 
riserva naturale, ricca di alberi di numerose specie, alcune molto rare.

 Fonti: riverflash
          siviaggia.it

Lo chiamano 'mostro pollo', ma per noi è straordinario! Le rare immagini della sua danza negli abissi


Una creatura marina rossa e bulbosa nuota nelle acque dell'Oceano Antartico, nella parte orientale del Polo Sud.
 Il suo nome scientifico è Enipniastes eximia, il suo soprannome è "mostro pollo senza testa".

 Si tratta di un cetriolo di mare, osservato grazie a nuova tecnologia per la fotografica subacquea sviluppata dai ricercatori australiani. Essa sta facendo luce su specie inedite nell'Oceano Antartico contribuendo a migliorarne la conservazione e la tutela.

 Il direttore del programma della divisione antartica australiana, Dirk Welsford, ha spiegato che le telecamere stanno acquisendo dati importanti che vengono inseriti nell'organismo internazionale che gestisce l'Oceano Australe, la Commissione per la conservazione delle risorse biologiche dell'Antartico (CCAMLR). 

Questa piccola creatura, una delle centinaia di specie conosciute di cetrioli di mare, trascorre la maggior parte del tempo a galleggiare lungo il fondo marino usando le sue pinne tubolari per nutrirsi di sedimenti superficiali, secondo la National Oceanic and Atmospheric Administration (NOAA) dell'Australia.


All'apparenza goffa ma in realtà estremamente agile, l'Enipniastes eximia sa nuotare ma anche spostarsi sulle pinne per sfuggire ai predatori o spingersi sul fondo dell'oceano. 

I suoi movimenti sembrano quasi una danza.


I cetrioli di mare sono una parte importante dell'ecosistema marino. Sono considerati gli aspirapolvere del mare vista la loro capacità di pulire i fondali aspirando grandi quantità di detriti.
 Essi filtrano il materiale organico e lasciano la sabbia pulita dietro di loro.


Eppure, alcuni sono sull'orlo dell'estinzione a causa del sovrasfruttamento.
 Da qui l'importanza della ricerca e dell'osservazione diretta per tutelarle: 

"L'involucro che protegge la fotocamera e l'elettronica è stato progettato per essere attaccato ai palangari nell'Oceano Antartico, quindi deve essere estremamente resistente. Avevamo bisogno di qualcosa che potesse essere gettato dal lato di una barca e continuasse a funzionare in modo affidabile sotto estrema pressione, nel buio pesto per lunghi periodi di tempo. Alcune delle riprese che stiamo effettuando con le telecamere sono mozzafiato, comprese le specie che non abbiamo mai visto in questa parte del mondo" ha spiegato Dirk Welsford. 

 Secondo la commissaria australiana del CCAMLR, Gillian Slocum, l'Australia continuerà a guidare le questioni più urgenti che riguardano l'Oceano Australe, tra cui la conservazione della biodiversità, i cambiamenti climatici e la gestione della pesca: "L'Australia tornerà a cercare sostegno per la creazione di una nuova area marina protetta dell'Antartide orientale". 

 L'Oceano Antartico ospita un'incredibile abbondanza e varietà di vita marina. Tutte specie minacciate dal clima che cambia e dalla pesca intensiva. 
Per questo, serve correre ai ripari e tutelarle prima che sia troppo tardi.

 

 Francesca Mancuso

lunedì 22 ottobre 2018

L' incantevole Castello di Gropparello



 Il castello di Gropparello è una rocca fortificata, nel comune omonimo in provincia di Piacenza.
 La particolarità di questa imponente costruzione è la sua posizione. Si trova infatti arroccata su uno sperone roccioso, su uno strapiombo che finisce nelle acque del fiume Vezzeno.

 Questa sua locazione gli ha dato il nome che porta, infatti Gropparello deriva dal termine celtico “Grop” che indica un ostacolo naturale, di tipo roccioso. 
La sua posizione sulla roccia lo ha reso noto nel passato come rocca inespugnabile.


Il castello venne costruito sulla sede di un castrum romano, posto a difesa della via per Velleia. 
Nel medioevo fu terreno di scontro tra Guelfi e Ghibellini, rappresentando l’unica roccaforte guelfa nel territorio piacentino. 

Nei secoli passò nelle mani di diverse famiglie fino a che nel 1869 venne acquistato dal conte Ludovico Marazzani-Visconti che affidò il restauro all’architetto Camillo Guidotti.

 Quest’ultimo aggiunse strutture neogotiche ed apertura di finestre nel mastio. 

 In seguito arrivò nelle mani della famiglia Gibelli, che lo aprì al pubblico e lo trasformò in un’opportunità commerciale offrendo visite guidate e allestendo ambienti tematici per i bambini. 


 Una leggende aleggia intorno a questo castello medievale teatro di una tragica vicenda.
 Verso la metà del Duecento era signore di queste zone Pietrone da Cagnano, che un giornò partì per un viaggio lasciando sola la bella moglie Rosania Fulgosio.

 Approfittando della situazione, Lancillotto Bracciforte, capitano del marchese Pallavicino, prese d’assedio il castello, ma affascinato dalla bellezza della giovane castellana se ne innamorò e desistette dai propri propositi belligeranti. 
L’amore di Lancillotto era ricambiato da Rosania, e così i due divennero amanti.

 Pietrone venne a sapere dell’accaduto da una perfida serva,e decise di vendicarsi.
 Narcotizzata la moglie durante il suo ultimo sontuoso banchetto, la murò viva nelle segrete del castello ed ancora oggi, specie nelle notti di vento si sente una voce invocare aiuto…


Il castello è caratterizzato da tutti gli elementi di una vera e propria roccaforte compatta, nonostante abbia parti risalenti ad epoche diverse.
 Mura merlate, cortili, torri e ponte levatoio, tutto questo lo rende un classico castello che sembra uscito dalle favole. 

La torre è la parte più antica del castello, costruita proprio sulla sommità della rupe, il punto ideale per sorvegliare la città e avvistare l’arrivo di potenziali nemici dalla pianura padana.

 Il castello è circondato da un grande parco, il primo parco emotivo d’Italia, dove animatori vestiti da guerrieri medievali intrattengono i bambini che si divertono con fiabe e racconti sugli esseri magici che abitano il bosco.





Fonte: viaggiare.moondo

venerdì 19 ottobre 2018

Xiaohe, un cimitero nel deserto di 4000 anni


Nell’estremo oriente del desolato deserto del Taklamakan, a centinaia di chilometri dall’insediamento più vicino, un gruppo di fitti paletti di legno segna il posto di un cimitero di 4000 anni.

 Il cimitero si trova in cima a una piccola duna di sabbia. I pali di legno, le cui cime sono state scheggiate da secoli di forte vento, sono le pietre tombali di coloro che giacciono sepolti sotto.
 L’estate secca e gli inverni gelidi hanno contribuito a preservare i corpi a tal punto che si possono ancora vedere le caratteristiche e i contorni dei loro volti.

 Uno di questi corpi mummificati, soprannominato “La bellezza di Xiaohe”, doveva essere una donna straordinariamente bella quando era viva. 



Il cimitero fu scoperto all’inizio del XX secolo da un cacciatore locale di nome Ördek.
 Il cacciatore uiguro stava vagando per una zona del deserto inospitale quando inciampò attraverso la foresta di pali di legno con ossa umane e antichi manufatti religiosi disseminati intorno. Credendo che il posto fosse infestato, si affrettò a non tornare più. 

Decenni dopo, un esploratore e archeologo svedese, Folke Bergman, stava curiosando nella regione alla ricerca di antiche rovine legate alla leggendaria Via della Seta quando qualcuno lo aveva diretto a Ördek.
 Ördek spiegò a Bergman come trovare il cimitero ma rifiutò di andare con lui.
 Bergman riuscì comunque a trovare il sito e lo chiamò la necropoli di Ördek.

 Bergman ha scavato circa una dozzina di corpi e recuperato circa 200 manufatti. 
Ha lasciato un resoconto abbastanza dettagliato delle sue scoperte nel libro Ricerche archeologiche nel Sinkiang, in particolare nella regione di Lop-nor .

 Bergman notò la forma insolita delle bare, che sembravano barche rovesciate. Dopo aver sistemato i morti in queste barche rovesciate, furono accuratamente coperti di pelle di mucca e seppelliti nella sabbia insieme a cesti di paglia contenenti grano e altri cereali alimentari.
 I paletti di legno furono poi conficcati nel terreno.
 L’intero sito, scriveva Bergman, era disseminato di monumenti in legno a forma di remo e figure umane in legno.



Il cimitero fu quasi dimenticato fino ai primi anni del 2000, quando gli archeologi cinesi condussero una spedizione nel sito.

 Hanno scoperto che la scoperta di Bergman era molto più notevole di quanto inizialmente pensato.
 Gli archeologi hanno trovato centinaia di corpi sepolti cinque strati in profondità, insieme a mummie intatte, le mummie più antiche e meglio conservate nella zona del bacino di Tarim in Cina.

 “Mai prima d’ora un numero così elevato di mummie è stato trovato in un singolo sito in qualsiasi parte del mondo”, ha dichiarato Idelisi Abuduresule , ricercatrice e capo dello Xinjiang Cultural Relics and Archaeology Institute.

 Gli archeologi hanno anche scoperto varie figure e animali scolpiti nel legno, piccole maschere di legno e sculture in legno di genitali maschili e femminili, tra le altre cose.

 “Tutto questo ci ha portato in un mondo misterioso permeato da un’atmosfera religiosa originale”, ha detto Idelisi. “La ricca connotazione culturale delle Tombe Xiaohe è senza pari tra le scoperte archeologiche cinesi e straniere”.

 La necropoli di Ördek era ora chiamata il cimitero di Xiaohe, dopo un fiume asciutto nelle vicinanze. Ma l’archeologo preferisce chiamarlo il piccolo cimitero del fiume n. 5. 

 Una delle scoperte più interessanti è che, sebbene il cimitero si trovi in ​​Cina, i cadaveri presentano forti tratti europei con capelli castani e nasi lunghi.
 Le analisi genetiche delle mummie hanno mostrato che i lignaggi materni del popolo Xiaohe provenivano dall’Asia orientale e dall’Eurasia occidentale, mentre i lignaggi paterni provenivano tutti dall’Europa. 

Gli archeologi credono che le popolazioni europea e siberiana probabilmente si siano sposate prima di entrare nel bacino di Tarim circa 4000 anni fa.
 Il bacino di Tarim era già asciutto quando il popolo Xiaohe vi entrò costringendoli a vivere ai margini della sopravvivenza fino a quando i laghi e i fiumi dai quali dipendevano alla fine si seccarono intorno al 400 dC.


Fonte: Amusingplanet

giovedì 18 ottobre 2018

A caccia delle luci del sud


Una volta provato, dà subito dipendenza. 
Il fotografo australiano Lachlan Manley è dipendente dalla natura e dalle aurore boreali… scusate, australi.

 Quando parliamo di aurore, ci vengono subito in mente: aurore boreali, paesaggi innevati e abitazioni invernali. Ma non serve arrivare fino in Lapponia, alle Lofoten o in Alaska per poter osservare questo spettacolo.
 Anche a sud (molto a sud), la Natura ci propone il luminoso “show”. 
È possibile osservare questo fenomeno anche dall’Argentina, dal Cile, dalla Nuova Zelanda, dall’Australia, dalle Isole Malvine (Falkland) o dall’Antartide.

 Sono meno famose delle parenti settentrionali, ma l’effetto è altrettanto ipnotico.


Il periodo migliore per andare a caccia di aurore resta sempre l’inverno, che nell’emisfero sud va da marzo a settembre. Ovviamente nelle ore più buie, condizione imprescindibile per poter vedere le luci danzanti in tutto il loro splendore. 

I mesi migliori sono solitamente luglio e agosto, ma non sempre è così.
 Le luci del sud, come quelle del nord, sono imprevedibili. 

“Catturare l’aurora con la fotocamera non è tanto difficile. La cosa complicata è essere lì nel momento in cui arriva” dice Lachlan. Non solo devi essere nel luogo giusto (“più sei a sud, meglio è”, specifica) al momento giusto, ma devono esserci anche le condizioni perfette.
 Servono cieli limpidi e scuri, lontani da ogni fonte di luce, compresa la luna.


Per questo, la Aoraki Mackenzie Dark Sky Reserve, nel sud della Nuova Zelanda, è uno dei luoghi migliori per osservarle.

 Si tratta della “riserva di cielo buio” più grande del mondo e la prima certificata dalla IDA (International Dark-Sky Association) nell’emisfero sud.
 Qui si trovano il Parco Nazionale Aoraki/Monte Cook e il Lago Tekapo.
 Il primo vanta 23 vette sopra i 3.000 metri di altitudine, tra cui il Monte Cook (o Aoraki, in lingua maori), la montagna più alta della Nuova Zelanda.
 Nel secondo, si trova l’osservatorio principale del paese, l’Osservatorio del Monte John. 

Non sono solo questi, gli angoli nascosti nell’isola dei kiwi, i posti giusti per i cacciatori di aurore.
 L’Isola Stewart è l’isola neozelandese più vicina al Polo Sud. Il suo nome maori, Rakiura, ci dà già un indizio: il suo significato è “cieli brillanti”.


Anche dall’Australia è possibile fotografare i “cieli brillanti” di colore rosa, verde e giallo. 
Lachlan Manley è riuscito a farlo a Queenscliff, a sud di Melbourne, e a Port Phillip Heads, anch’esso nello stato di Victoria. Tuttavia, se dovessi consigliare un luogo, direi senza dubbio la Tasmania. 
I fotografi Matt Glastonbury e Dietmar Kahles sono degli esperti di quest’isola.
 Il primo ha immortalato le luci del sud dal Monte Wellington, riflesse nel fiume Derwent.
 Il secondo lo ha fatto da Strahan, una piccola città costiera sulla riva occidentale.
 Cradle Mountain, i dintorni della città di Hobart e la remota Melaleuca sono altri dei suoi “spot” preferiti.

 La chiave sta nel cercare un luogo buio, guardare a sud, meglio se dall’alto di una montagna o di fronte alla costa, e aspettare che inizi la magia.

 Fonte: passenger6a
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