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venerdì 29 ottobre 2021

Il macabro ma indispensabile mestiere di Medico della Peste


 L’abito del medico della peste è uno dei simboli più riconoscibili della “Morte Nera”, le celebri epidemie di peste che decimarono la popolazione europea fra il Medioevo e l’età Moderna. L’origine della maschera risale probabilmente alle prime epidemie che colpirono l’Europa durante il XIV secolo, fra il 1347 e il 1353, e che sterminarono circa un terzo della popolazione complessiva del nostro continente.

Il costume completo del medico, caratterizzato da un lungo abito nero in tela cerata e un pronunciatissimo becco di fronte a bocca e naso, è di molto successivo, e assume la sua forma all’inizio del ‘600 circa, in Francia.

Perché i medici si vestivano in questo modo?

Il motivo è da ricercarsi nella teoria di trasmissione del morbo mediante la dottrina miasmatico-umorale. Secondo questa tesi, che venne coniata da antichi medici greci come Ippocrate e Galeno, le malattie si trasmettevano per lo squilibrio fra i vari umori del corpo: sangue, flegma, bile gialla e bile nera. A causa dei miasmi dell’aria (escrementi riversati in strada, acqua stagnante, scarti di produzione e via dicendo) combinati a eventi come eruzioni, congiunzioni astrali, inalazione di aria proveniente da corpi in putrefazione, acque paludose o simili, gli antichi pensavano che le malattie riuscissero ad attecchire nel corpo umano.

La maschera del medico della peste aveva un lungo becco all’interno del quale venivano inseriti fiori secchi, lavanda, timo, mirra, ambra, foglie di menta, canfora, chiodi di garofano, aglio e spugne imbevute di aceto, tutti elementi i quali avrebbero dovuto ridurre al minimo il rischio di contagio per la respirazione di “miasmi” da parte dei medici.

I medici della peste erano dei dipendenti pubblici assunti dai villaggi o dalle città quando una pestilenza colpiva la popolazione. I loro compiti principali erano due: alleviare le sofferenze degli appestati e compilare il libro pubblico in cui venivano registrate le ultime volontà dei moribondi. Durante le fasi acute delle epidemie erano gli unici a poter girare liberamente per le città, nelle quali solitamente vigeva il coprifuoco perenne con pena di morte, e si occupavano di compilare anche i registri funebri per avere una stima completa della conta dei morti.


I medici della peste operarono nelle diverse zone d’Europa colpite dalle pestilenze fra la metà del XIV secolo e la fine del XVIII secolo, e hanno permesso a noi esseri umani moderni di conoscere nel dettaglio le modalità di diffusione dell’epidemia, il numero di morti che provocavano le diverse ondate di “morte nera” e anche la socialità modificata di quei terribili periodi.

Medici della peste, sì, ma soprattutto cronisti di un lungo periodo della storia umana durante il quale il dilagare di un’epidemia poteva con facilità sterminare i piccoli villaggi e ridurre di centinaia di migliaia di persone la popolazione delle città più grandi.

Fonte: vanillamagazine.it


Un sub trova in fondo al mare la spada di un cavaliere crociato risalente a 900 anni fa


 Per secoli una lunga spada appartenente ad un cavaliere crociato è rimasta negli abissi del mare, nascosta sotto la sabbia. Ma qualche giorno fa è stata finalmente rinvenuta da un sub al largo della costa del Monte Carmelo, ad Haifa. 

Ad annunciare l’eccezionale scoperta l’Autorità israeliana per le Antichità (IAA), che sui canali social ha mostrato l’antico reperto in un affascinante filmato.


La spada è conservata in perfette condizioni. È un reperto bello e raro ed evidentemente apparteneva a un cavaliere crociato – ha dichiarato Nir Distelfeld, ispettore dell’unità di prevenzione dei furti dell’IAA – È stato trovato incrostato di organismi marini, ma a quanto pare è di ferro. È emozionante imbattersi in un oggetto così personale, che ti riporta indietro di 900 anni nel tempo in un’era diversa, con cavalieri, armature e spade.


La spada crociata è lunga circa un metro e non è l’unico reperto trovato dal sub. Shlomi Katzin, che è stato premiato con un riconoscimento, ha infatti individuato anche diversi frammenti di ceramica e ancore in pietra e metallo.

Secondo gli esperti, quel tratto di costa israeliana potrebbe custodire tanti altri tesori risalenti al passato. 

I ritrovamenti archeologici nel sito mostrano che serviva da piccolo e temporaneo ancoraggio naturale per le navi in cerca di un riparo – chiarisce Kobi Sharvit, direttore dell’unità archeologia marina dell’Autorità israeliana per le Antichità – La scoperta di vari reperti rivela che l’ancoraggio era utilizzato già durante la tarda età del bronzo, 4000 anni fa. La recente scoperta della spada suggerisce che la caletta naturale sia stata usata anche nel periodo crociato, ovvero circa 900 anni fa.

In poche parole la spada appena ritrovata potrebbe essere soltanto una di una lunga serie di preziosi reperti! 

ROSITA CIPOLLA


venerdì 15 ottobre 2021

La Signora di Elche: il Mistero della “Reina Mora”

 Con quello sguardo fisso e altero la Signora di Elche osserva imperturbabile quello che le accade intorno. E chissà quante cose deve aver visto nei suoi 2500 anni di vita la Reina Mora (regina moresca), anche se per molti secoli ha atteso di rivedere la luce in una buca scavata nella terra, nelle campagne di Elche, in Spagna.

Chi ha sepolto quel misterioso busto di donna voleva proteggerlo, anche se non sappiamo da cosa. Il 4 agosto 1897 è un giorno di lavoro come un altro per i contadini che lavorano su un terreno di proprietà del Dottor Manuel Campello. Un ragazzo di 14 anni aiuta a dissodare il campo e con la zappa urta una pietra. Lui prova ad andare avanti, ma deve fermarsi perché un viso di donna sporge dal terreno.

 Interviene un operaio più esperto, Antonio Maciá, che libera il manufatto ma lo lascia lì, in attesa dell’arrivo di Campello.

Intanto però si capisce che quel busto è stato seppellito lì di proposito, chissà quando, con intorno una protezione di lastre di pietra.

Campello fa trasportare il busto dal terreno a casa sua, a Elche, con un gran numero di curiosi che assistono al viaggio della Reina Mora, come viene subito chiamata dagli abitanti del luogo.


La notizia di quel ritrovamento passa di bocca in bocca e una folla di persone si raduna sotto la casa di Campello, tanto che lui deve mettere la Reina Mora in mostra sul balcone di casa.

 Lei guarda imperturbabile e chissà cosa pensa quando Pedro Ibarra, archeologo e giornalista locale, scrive di lei: “una bella scultura in busto, scolpita con la massima perfezione … Rappresenta l’immagine di un uomo con le caratteristiche più corrette … Grave maestosità unita a una certa dolcezza nell’espressione. Purezza impeccabile che richiama l’arte greca … questa bellissima scultura, credo rappresenti il dio Apollo … La scultura oggetto di ammirazione oggi a Elche e domani del mondo scientifico … arriva a rivelare un altro segreto dei tanti che custodiscono quelle terre … che illustrano il passato del nostro popolo”.

La prima interpretazione è quindi approssimativa e viene subito smentita, anche se in realtà nessuno sa con certezza a chi appartenga quel misterioso volto.

 E’ certamente una donna che indossa preziosi gioielli e ricche vesti, ma chi fosse è difficile dirlo: forse una dea, o una sacerdotessa, o un personaggio importante dell’aristocrazia con abiti cerimoniali. 

La cosa che più colpisce è l’elaborato copricapo, con quelle due grandi “ruote” (dette rodeti) ai lati del viso, unite da una tiara posta sopra un velo.

La scultura, in pietra calcarea, oggi affascina anche per i suoi spenti toni ocra, che la rendono una figura misteriosa e senza tempo. Originariamente però l’opera, probabilmente a figura intera, era policroma, con labbra rosse e abiti colorati, mentre gli occhi erano ricoperti di pasta vitrea.

 Il mantello che copre le spalle è appuntato al centro del petto con una fibula, ma lascia scoperte le preziose collane porta-amuleti, un tempo ricoperte di foglie in oro, come i due lunghi orecchini pendenti.

La scultura, che sicuramente fu realizzata nel IV secolo a.C. nella stessa area dove è stata trovata, risente di influssi ellenistici e forse lo sconosciuto artista era proprio greco.

Tuttavia sono molte le domande che ancora non trovano risposta e danno adito ad interpretazioni diverse. 

Forse la Signora di Elche è una rappresentazione della dea della fertilità fenicia, Tanit, peraltro adorata anche in Spagna al tempo del dominio di Cartagine.


C’è stato anche chi ha messo in dubbio l’autenticità della statua, “troppo delicata per essere stata scolpita nella Spagna precristiana” (John Moffit, 1995), ma successivi studi sulle tracce dei pigmenti hanno dimostrato che si tratta di un’opera antica.

Un altro studio, condotto nel 2011, ha scoperto che il busto fu usato come urna cineraria. Allora forse quella donna, dalla bellezza idealizzata e dallo sguardo grave, era una dea che accompagnava il defunto nel suo viaggio ultraterreno?

Nessuno potrà mai dirlo con certezza. Quel che è certo invece, è che la misteriosa Signora di Elche, considerata simbolo dell’identità iberica,  ha influenzato l’arte spagnola del ’900, da Picasso a Dalí, che la definì come: “una nuova idea di bellezza, con la gloria di una regina, l’attrattiva di un angelo e la forza di un’amazzone”.

Fonte: vanillamagazine.it

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