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lunedì 17 febbraio 2014

Le preghiere...


Un esploratore, nella foresta, vedendo arrivare un leone, pieno di paura inizia a pregare: "Signore infondi sentimenti cristiani a questa bestia feroce!"
 Il leone allora si inginocchia, fa il segno della Croce e prega a sua volta: "Signore, benedici il cibo che sto per mangiare..." 

Impariamo italiani come si parla in "" Itagliano""

Santorini una grande civiltà scomparsa

Nel mare Egeo, a circa 80 km dall’isola di Creta, vi è una piccola isola, dell’arcipelago delle Cicladi, dalla forma di mezzaluna, e nelle sue vicinanze altri due isolotti, Therasia e Aspronisi,a dividerli solo una laguna.

Il nome dell’isola è Thira, conosciuta anche come Santorini, ma, nell’antichità era conosciuta anche con il nome di Kalliste (“la Bellissima”)
Millenni fa, quest’isola fu la sede di una cultura altamente progredita per i canoni dell’epoca, oseremmo dire “all’avanguardia”.
Quasi 3600 anni fa), l’isola non aveva questa forma né queste dimensioni.
Era un’isola di forma circolare, al cui centro si ergeva una montagna, essa doveva avere fiumi e vallate verdi di papiri e palme. Oggi giorno, per chi sbarca su quest’isola , è visibile un cartello con la scritta, in inglese, che la celebra come l’isola più bella del mondo e, seppur ammaliati dalla sua selvaggia bellezza, non può non sembrare una forzatura, visto che il paesaggio è quello tipicamente vulcanico, brullo e spoglio.
Non si vedono né olivi ne cipressi e pochissimi sono in generale gli alberi e i cespugli, mentre viti e pomodori crescono nei pochi campi coltivabili sottratti alla pomice lavica, disposti a terrazza, con muri di contenimento che a volta raggiungono i 6 metri, rendendo persino difficile il camminamento delle persone.
Sicuramente non era così 3600 anni fa, visto che persino i faraoni egiziani la celebravano come un posto paradisiaco.
Quello che oggi ne rimane è uno scheletro, sconquassato da una delle più tremende esplosioni vulcaniche che si siano mai registrate sulla terra, ed è, da allora, rimasta priva del suo nucleo centrale, sprofondato per centinaia di metri nel mare, formando quella che, geologicamente parlando, viene definita una caldera.
Dove una volta vi era il nucleo centrale dell’isola sorgono oggi due isolotti neri che emersero successivamente chiamati con i nomi Nea Kameni e Palia Kameni (la più piccola, sorta durante un’eruzione del 196 a.C.).
Tutta l’isola non è altro che un vulcano, ancora attivo.
3600 anni fa, il nucleo centrale esplose con un immane boato, proiettando la parte centrale dell’isola in aria e sprofondando il resto sotto l’immane massa d’acqua che si dovette riversare nel bacino creatosi.
Dove una volta vi era terra oggi vi sono rupi denudate che testimoniano l’improvviso sprofondamento,
Archeologicamente parlando l’isola è interessante perché, sin dal 1967, anno in cui iniziò una vera e propria campagna di scavi, venne portata di nuovo alla luce, strappata da strati di polvere vulcanica e pietra pomice, a volta spessi anche trenta metri, depositatesi nei secoli, una vera e propria città dell’epoca minoica, con tanto di vasellame, affreschi, utensili, oggetti di arredamento perfettamente conservati.

E’ singolare constatare che la stessa eruzione che provocò la distruzione di gran parte dell’isola e l’annientamento dell’allora civiltà fiorente che ivi prosperò, ha, di fatto, permesso, coprendola con le sue polveri eruttive, con i suoi detriti lavici, che la storia di questo posto potesse giungere a noi, migliaia di anni dopo, con i sue edifici, i suoi manufatti, i suoi affreschi, .

L’uomo che ridiede vita a questa città, che la riportò alla luce dopo secoli di oblio, fu l’archeologo greco Spyridon Marinatos, che le dedicò tutta la sua vita, tanto da morire in loco, per strapparla all’abbraccio delle prove della tremenda sciagura avvenuta millenni fa. Santorini, con la morte del suo padre putativo, è come se fosse morta di nuovo, come se quasi 40 anni di scavi non fossero serviti a niente, rimanendo esclusa, volontariamente dai normali itinerari archeologici citata semplicemente molto più semplicemente come “sede di scavi archeologici relativi al periodo tardo minoico”. Perché oggi forse Santorini non sarà più l’isola più bella del mondo, ma è, sicuramente , la sede di alcuni dei più affascinanti enigmi della storia.
La civiltà che fiorì su quest’isola che alcuni autori, accademici non, vedono quest’isola come la sede della mitica Atlantide narrata da Platone, altri ne sono convinti.
Akrothiri e la civiltà che vi dovette prosperare la rendono , di fatto, uno dei luoghi più enigmatici del nostro pianeta.
Alcuni vulcanologi e archeologi francesi e greci accorsero sull’isola per studiare il fenomeno e la loro attenzione si rivolse ad alcuni blocchi di pietra, costituenti delle mura, che gli operai della cava di pomice avevano portato alla luce
Un vulcanologo, Fouquè, entrò in possesso, tramite un contadino, di alcuni reperti antichi e dopo alcune opere di scavo scoprì delle cripte, strumenti di ossidiana, uno scheletro e frammenti di vasi. Stimolati da queste scoperte due studiosi francesi, Henrì Mamet ed Henrì Grocex cominciarono altri scavi nel 1870, scoprendo, coperti da pomice, pareti ricoperte di gesso, dipinte con affreschi dai colori vivaci e realistici, con effetti ottici straordinari.

Chi diede impulso alla ricerca su Thera fu l’archeologo greco Spyridon Marinatos che , in più riprese, partendo dal 1930, ne studiò la storia, fino a quando, nel 1956, diventando direttore del dipartimento delle antichità, non decise di dedicarsi anima e corpo a trovare le tracce di un antico insediamento sull’isola.

Marinatos ebbe il grande merito di capire che gli scavi da lui effettuati andavano protetti, al contrario di quanto era successo a Pompei.
Coprì così gli scavi con lamiera ondulata sottile e fibra di vetro per consentire comunque il passaggio dei raggi solari.
A sostegno di questa copertura, impiantò un sistema di travi in acciaio autoportanti, sistema che gli consentiva facilità nell’installazione e nell’estensione dell’area da proteggere.
In questo clima e con quest’ingegnosità Marinatos si accinse a svelare al mondo il “suo” piccolo, grande, tesoro, anche se si rese subito conto che tra lui e la fine degli scavi sarebbero intercorsi generazioni di archeologi e forse persino qualche secolo.
Ma valeva veramente la pena, e per stabilire questo bastarono poche picconate, per portare alla luce ciò che si celava sotto la cenere e la pomice di Santorini erano i resti di una civiltà ben strutturata e ingegnosamente abile.
I suoi membri vivevano in una sorta di paradiso idilliaco, e questo li aiutò a sprigionare grandi verve di energia creativa, talento artistico e gusto sofisticato.

Durante l’età del bronzo, gli abitanti dell’isola godettero di uno standard di vita e di benessere invidiato ancora oggi da molte comunità moderne, o comunque raggiunto solo nel corso degli ultimi tre secoli.
In quest’isola inondata dal sole, gli abitanti di Thera si costruirono case alte ed eleganti, con stanze ben proporzionate, e adornate con esempi fantastici della creatività pitturale dell’epoca.
La loro piccola patria era un punto cruciale per i traffici marittimi dell’Egeo, e, per generazioni, godettero di una prosperità senza eguali, dovuta ai numerosi scambi commerciali che intrattenevano con i mercanti che ivi sbarcavano e con le terre che le loro navi raggiungevano.
Man mano che i lavori procedevano ci si accorgeva di essere dinanzi a qualcosa di straordinario.
Non ci volle molto per affermare che la città era stata una località di spicco.
Chiunque avesse avuto la fortuna di sbarcare a Thera in quell’epoca felice, sarebbe rimasto impressionato dalla fila di imponenti edifici che si ergevano sulla costa.
Grandi case con solide fondamenta e architravi in legno si erigevano su due, tre o forse anche quattro piani, utilizzate de singole famiglie o da assembramenti popolari.
Per la sua densità abitativa e per il numero di edifici, Thera avrebbe ben figurato a cospetto dei maggiori porti di mare europei del periodo medioevale.
Disegno di Francesco Corni

Le case si districavano su un labirinto di vie e vialetti, ognuna di loro munita di solide porte e scale, con ampie finestre che davano luce ed aria a stanze di grandi dimensioni.
L’arredamento, in legno, era di squisita fattura, come si è potuto concludere dai calchi in gesso rilevati dalle forme impresse nella coltre di cenere vulcanica, unica traccia dopo che il legno era oramai deteriorato da tempo.
Nelle case erano presenti affreschi che rappresentavano episodi di vita marinara, lunghi viaggi, donne della lunghe vesti drappeggiate, dal seno nudo e da sfavillanti gioielli.
Gli affreschi che rappresentavano scene di vita naturale erano caratterizzati da una costante presenza di animali oggigiorno non più esistenti sull’isola, come antilopi, scimmie, rondini o da piante come papiri e gigli.
Quando venne trovata la prima casa così riccamente decorata si pensò subito che essa appartenesse a qualche nobile, ma poi ci si accorse, ben presto, che questo rappresentava non un optional ma un qualcosa di serie nelle abitazioni di Thera.
Ma il popolo di quest’isola aveva anche il buon gusto per le cose belle e la pulizia.
Le case erano, infatti, dotate di bagni con vasche in terra cotta e toilette in pietra che un tempo dovevano avere l’asse in legno.
Le toilette venivano ritrovate sempre al secondo piano degli edifici, ed erano collegate, mediante tubi in argilla incassati tra le spesse pareti, ad una sofisticata rete fognaria comunale che correva sotto le strade!
Sembra che quindi i minoici abbiano anticipato quest’invenzione di almeno una trentina di secoli!!
Per dare un ‘idea di cosa significasse pensate solo che la Venezia dei Dogi, la Parigi dell’inizio XVIII secolo, e persino al Reggia di Versailles all’inizio erano del tutto sprovviste di queste comodità. Comodità che invece ritroviamo in siti antichissimi e altrettanto misteriosi come Mohenjo-Daro, in Pakistan e che colpirono di stupore i primi conquistadores che si ritrovarono dinanzi alle bellezze di Tenochtitlan, tanto che alcune testimonianze la descrissero più lussuosa di qualsiasi città europea di allora, persino di Roma o Costantinopoli.
Ma torniamo a Santorini. Vi doveva essere, all’epoca una sorgente d’acqua che a quanto pare riempiva le cisterne della città e scorreva continuamente grazie ad un ingegnoso impianto di fognatura.
In quella che viene comunemente definita come casa occidentale, probabilmente , veniva utilizzata la pressione del vapore di qualche sorgente vulcanica affinché si potesse utilizzare una sorta di autoclave che spingeva l’acqua nelle cisterne sui tetti delle case. L’intrico di tubi presente nelle case fa pensare che il vapore, mentre veniva convogliato in apposite cisterne di condensazione, dove si sarebbe trasformato in acqua per il bagno, nel suo percorso attraversava i muri, riscaldando così d’inverno le stanze delle case. In effetti sembra che qualcosa simile a valvole sia stato trovato anche se spesso, per prudenza o per voglia di nascondere, si preferisce dare un altro significato a determinati oggetti.
E’ solo un caso che Platone, descrivendo Atlantide, affermi che essa si forniva d’acqua da due sorgenti, una calda e una fredda?
La pesca, insieme alle forme di agricoltura e allevamento, forniva gli approvvigionamenti alimentari di cui la popolazione abbisognava.
Inoltre ogni casa aveva una macina per ridurre in farina l’orzo per fare il pane.
Tutte le ceramiche erano un concentrato di colori e grazia, sia che fossero bacinelle o coppe, brocche o piatti, o semplici vasi.
Lo stile delle ceramiche di Thera sembra precorrere quello presente sulle opere di Creta, rinforzando l’ipotesi che gli abitanti di quest’isola abbiano poi esportato il loro stile anche al di fuori del loro territorio.
Il resto di cui questa civiltà aveva bisogno era sicuramente fornito da un importante commercio con altre parti del mondo allora conosciuto, e quindi l’abilità marinaresca di questo popolo era considerevolmente superiore a molti altri popoli dell’epoca. D’altronde molti affreschi mostrano scene di viaggi per mare.
Al contrario della nostrana Pompei, a Thera non sono stati ritrovati scheletri di corpi umani o di animali, o oggetti veramente preziosi.
Questo fa supporre che la maggior parte della popolazione riuscì a fuggire a tempo.
Forse precedenti scosse telluriche, l’apertura di fratture nella terra, da cui incominciarono a scaturire esalazioni di gas e fuochi che incominciarono a levarsi dal cono del vulcano, impaurirono oltremodo la popolazione dell’isola che decise di trovare riparo in altri luoghi.

Ma quello che stupisce di più è che gli abitanti dell’isola lasciarono le loro case con la ferma speranza di ritornarci, un giorno.
Vasi pieni cibi posti ordinatamente, ceramiche riposte nei ripiani con solerzia,i mobili sistemati e in ordine e, dall’altra parte, la completa mancanza di oggetti di valore, fa pensare ad un esodo tranquillo e disciplinato, benché rapido ed efficiente, piuttosto che ad una fuga travolti dal panico.

La civiltà minoica, privata della sua arma migliore, la flotta navale, distrutta dalle onde di maremoto, e terrorizzata da quell’immane catastrofe rimase ben presto vittima delle invasioni di altri popoli, tra i quali i greci, che ben presto distrussero una civiltà che aveva raggiunto un apice eguagliabile (se non superiore) a quello raggiunto dalla società egizia. 
Thera potrebbe rivivere, o quanto meno restituirci parte della sua bellezza se l’intero sito fosse riportato alla luce, ma forse la realtà è che, oggi, ben poche persone ne hanno sentito parlare, così che dove la pomice non è più presente a nascondere quest’antico teatro di civiltà, vi è ora la cappa dell’indifferenza e della disinformazione storica e culturale.

Peste Nera, la più grande pandemia nella storia dell’umanità

Fu il più grande episodio pandemico attestato nella storia dell’umanità, provocando in pochi anni la morte, solo in Europa, di decine di milioni di persone, verosimilmente un abitante su tre (o perfino su due) del nostro continente.
 L’evento fu cosi devastante che l’intero assetto sociale, economico e politico dell’Europa alla fine del Medioevo ne fu modificato per sempre.


Il ceppo della Peste Nera pare venisse dai recessi misteriosi del Deserto del Gobi, in Mongolia, o da un qualche altro luogo sperduto della sconfinata Asia Centrale. 
Trasportato dai ratti e dalle loro pulci, in un luogo imprecisato di abbandono e miseria in cui anche i parassiti morivano di stenti, il batterio Yersinia pestis mutò per poter assalire anche l’uomo e garantirsi sopravvivenza e diffusione su un nuovo tipo di ospite/vittima. 
 Viaggiando di villaggio in villaggio, il bacillo della Morte Atroce raggiunse i monti Altaj e il Pamir e fu registrato per la prima volta da un resoconto scritto intorno al 1338 nell'attuale Kirghizistan, presso una comunità cristiana-assira posizionata sul lago Issyk-Kul. 

Spostandosi lungo la Via della Seta, la Grande Pestilenza raggiunse poi nel 1345 la Crimea, il Mar Nero e il Mar Caspio, affacciandosi così sull’Europa.
 Dopo essere serpeggiata per oltre un decennio in Oriente, attraverso vastità desolate che ne rendevano più lenta la diffusione, la Morte Nera raggiunse la colonia genovese di Caffa, nell’odierna Ucraina, durante l’assedio che l’Orda d’Oro del Khan Gani Bek teneva contro questo avamposto commerciale "italiano" nel Levante. 
 Caffa, la "Regina del Mar Grande", resisteva con tenacia all’assedio dell’Orda, che nel frattempo veniva invece flagellata dalla Pestilenza. 
Gani Bek Khan abbandonò allora la guerra e si ritirò, portando via la sua armata di assalitori. Prima di andare via, tuttavia, come gesto di sfregio e ripicca, fece gettare con le catapulte i cadaveri infettati dei suoi uomini dentro le mura della città, in una strana forma di guerra batteriologica ante litteram, non meno crudele e insensata delle attuali. 
 Salvatisi dalla furia stragista degli uomini dell’Orda, i genovesi di Caffa non sfuggirono invece all’implacabile e orripilante contagio della peste, che strinse ben presto la città in una morsa di morte generata direttamente dal proprio interno. 
 Allo stesso modo, i marinai e commercianti che partivano da Caffa diretti verso un qualsiasi altro centro e avamposto marittimo del Mar Nero e del Mediterraneo, diffusero la Morte Nera in ogni regione d’Europa, Medio Oriente e Africa Settentrionale, stavolta con la rapidità e la potenza di un contagio che si diffonda in Occidente, tra regni malnutriti, città sovrappopolate e scarse condizioni di igiene e salute. 
 I primi focolai scoppiarono quindi nei porti più trafficati del Vecchio Mondo, a partire da Costantinopoli, Messina, Genova, Pisa e Venezia, per poi diffondersi da essi per ogni dove. 
Secondo le cronache dell’epoca, la gente moriva per le case, nei palazzi, per le strade, sulle navi, in viaggio per cercare salvezza dopo essere fuggita dalle proprie città. 
 Morirono contadini e cittadini di ogni estrazione sociale. Morirono accattoni e miserabili così come re, giudici e vescovi.
 Morirono perfino i medici che tentavano di curarli.



Nel 1940, emulando la barbarie folle dei mongoli di Gani Bek Khan, l’esercito giapponese decise di utilizzare la Peste Nera contro i cinesi della provincia del Chekiang.
 Sul villaggio di Chushien vennero lanciate tramite aerei delle provviste di riso contaminate da feci di ratto appestato, che causarono un centinaio di morti. 

 Al giorno d’oggi la Peste non è ancora debellata ma appare in qualche migliaio di casi all’anno, in focolai di contagio che vengono presto debellati, ma si manifestano purtroppo in ogni parte del mondo, comprese Africa, Asia, Caucaso e Americhe. 
 Attualmente la Peste viene curata tramite antibiotici e il 27 Aprile 2012 è stato approvato in USA un farmaco specificamente creato contro di essa. 
Eppure, alcuni ceppi risultano resistenti a tutti i trattamenti e questo male antico è anche considerato un agente biologico di possibile utilizzo terroristico nelle guerre e nelle insorgenze del futuro.

 Dalla preistoria dell’uomo fino agli scenari dei conflitti anticonvenzionali di domani, la Morte Nera accompagna il sorgere e il cadere delle civiltà umane senza che sia stato ancora possibile sgominarla. 
Simbolo stesso della Pestilenza come idea astratta e della Malattia in quanto tale, la Peste Nera è stata raffigurata nel Medioevo come uno degli aspetti stessi della Morte e come uno dei Cavalieri dell’Apocalisse.


Mauro longo

Ermete Trismegisto



(o Trimegisto), appellativo che significa "tre volte grandissimo" e che è riferito a un personaggio leggendario dell'età ellenistica e considerato autore del Corpus Hermeticum, un gruppo di scritti di argomento filosofico-religioso che circolarono nel mondo greco-romano nei primi secoli d.C.
Questi scritti facevano riferimento a una cosmogonia incentrata sulla creazione dell'uomo e sulle condizioni della sua liberazione spirituale attraverso la conoscenza 



Unione Thot e Hermes

Gli scrittori che si definirono "ermetici" vollero attribuire le dottrine dei filosofi classici a quelli che pensavano ne fossero stati i maestri: da ciò nacque l'idea di assegnarli all'antichissimo dio egiziano Thoth, identificato con il greco Ermete Trismegisto.   Dunque, questa figura nacque dall'assimilazione della figura greca del dio Hermes (noto anche tra i Romani con il nome di Mercurio), messaggero degli dèi e guida delle anime nel mondo dei morti, con il dio egiziano Thoth, scriba degli dèi e depositario della sapienza divina che in tempi antichissimi avrebbe appunto rivelato negli scritti attribuitigli.
Queste due divinità, infatti, presentano numerosi aspetti comuni: entrambi sono al servizio di una divinità superiore (Hermes è messaggero di Zeus, Thoth è lo scriba di Osiride); Hermes è dio della parola e Thot è dio della parola e della letteratura; entrambi sono psicopompi, ovvero accompagnatori delle anime dei defunti nell'oltretomba; inoltre, sia Hermes che Thoth sono, nelle rispettive culture, gli dèi della scrittura e della magia.
Già nella tradizione religiosa dell’antico Egitto si trovano riferimenti a vari personaggi chiamati Ermete. 
Il primo fu "innanzi a tutte le cose", comprese egli solo la natura del Demiurgo e depose tale conoscenza in scritti che furono a lungo tenuti celati.
Cooperò alla creazione dei corpi da congiungere alle anime, aggiungendovi tra l’altro l’amore del vero.
Comunicò la scienza a Camefi, avo di Iside e Osiride ed a questi concesse di penetrare negli arcani suoi scritti, parte dei quali serbarono per sè, parte scolpirono su colonne, come regola alla vita degli uomini.
Quelle prime scritture furono poi tradotte in lingua comune dal secondo Ermete, inventore della scrittura, della grammatica, dell’astronomia, della geometria, della medicina, della musica, dell’aritmetica, della religione e di tutte le arti.
 La tradizione gnostica accenna più esplicitamente al significato del termine "Trismegisto" nel senso di "tre volte incarnato".

Si tratterebbe cioè della triplice incarnazione, secondo la tradizione egiziana, del medesimo personaggio, Ermete, che sempre visse filosoficamente, dedito alla conoscenza il quale, nel corso della sua terza vita, grazie ai meriti accumulati nelle due precedenti, si "ricordò di se stesso" o meglio "riconobbe se stesso".
Accadde cioè che, mediante "un atto straordinario e illuminatore di reminiscenza che gli rivelò la sua identità e la sua origine trascendenti", Ermete riprese coscienza e possesso del suo autentico "io", e contemporaneamente "seppe" con certezza che sarebbe tornato al mondo superiore da cui era venuto, "al luogo intellegibile in cui si trovava primitivamente".
E' chiaro a questo punto come, attraverso il processo di assimilazione tra divinità greche ed egizie, avvenuto nell'atmosfera sincretistica dell'Impero romano.
Ermete Trismegisto divenne il dio rivelatore della verità e mediatore tra gli uomini e gli dèi. Il raggiungimento della verità e la mediazione tra uomini e dèi, secondo la natura stessa di Ermete Trismegisto, che rimanda inequivocabilmente a un'esperienza mistica e spirituale.
Nei suoi discorsi ad Asclepio, suo discepolo, Ermete parla di Dio come inconoscibile, invisibile, incorporeo; tuttavia "egli può, in verità, concedere a qualche eletto la facoltà di innalzarsi al di sopra delle cose naturali, così da percepire un barlume della sua somma perfezione".
Ermete dunque dichiara che  la percezione spirituale è la base di ogni conoscenza esoterica.
 Il mondo antico affidava questa esperienza al rito iniziatico, cui erano ammessi gli adepti che se ne mostravano degni: essi dovevano sottoporsi a prove che ne sondavano le attitudini fisiche, morali ed intellettuali. L’iniziazione coinvolgeva l’individuo in tutta la sua interezza, risvegliava le sensibilità sopite dell’anima inducendo l’adepto a mettersi in contatto cosciente con le forze occulte dell’universo, ri-conoscendo la propria vera natura attraverso la percezione spirituale diretta.
 Ermete era appunto la figura guida in questo percorso iniziatico: ne troviamo testimonianza diretta nella Visione di Ermete, scritto attribuito ad Ermete Trimegisto e giunto fino a noi col titolo Il Pimandro, ossia l’intelligenza suprema che si rivela e parla.

Nel testo si narra di come un giorno, mentre era in meditazione, a Ermete comparve un essere immenso che si presentò a lui dicendo: "Io sono Pimandro, l’Intelligenza suprema". Subito Ermete ebbe una visione prodigiosa del Tutto.
Poi Pimandro proseguì: "Ascolta: quello che in te vede e intende è il Verbo, la parola di Dio; l’intelligenza è il Dio Padre. Essi non sono separati poichè l’unione è la loro vita." E ancora: "Comprendi dunque la luce e conoscila".
  "A queste parole - prosegue Ermete - egli mi fissò a lungo ed io tremai nel guardarlo. E a un cenno di lui vidi nel mio pensiero la luce e le sue potenze innumerevoli, il mondo infinito prodursi e il fuoco, mantenuto da una forza immensa, arrivare al suo equilibrio. Ecco quel che compresi guardando attraverso la parola di Pimandro".
Questa esperienza fu all’origine della conoscenza di Ermete, che egli testimoniò, sicchè di lui fu detto:
 
Ermete vide la totalità delle cose e, vistala, comprese; e con la comprensione acquisì la forza di testimoniare e rivelare. Mise per iscritto il suo pensiero e occultò gran parte dei suoi scritti, a volte saggiamente tacendo, a volte parlando, così che in avvenire il mondo continuasse a cercare queste cose. E, comandato agli dèi suoi fratelli di fargli da corteo, ascese alle stelle. 

Ermete Trismegisto è ritenuto per questo anche il padre fondatore di scienze occulte, come l'astrologia e soprattutto l'alchimia, poiché a lui è attribuita la redazione della Tabula Smaragdina o Tavola di Smeraldo, uno dei testi ermetici più importanti in assoluto.

Festa del gatto 2014: oggi 17 febbraio celebriamo tutti i gatti


Gattare e gattari d’Italia esultate! 
Oggi, 17 febbraio, celebriamo il gatto nella sua gattità! Oggi, infatti, è la festa del gatto (conosciuta anche come Giornata del gatto), una ricorrenza tutta italiana che, nel corso degli anni, è divenuta sempre più popolare.

 La festa del gatto nasce nel 1990 quando la giornalista Claudia Angeletti propose una sorta di referendum dalle pagine della rivista Tuttogatto per scegliere una data in cui festeggiare lui, Sua Maestà il Gatto.
 La scelta per la giornata del gatto (o festa del gatto) cadde sul 17 febbraio per due motivi principali: astrologicamente parlando ci si trova sotto il segno dell’Acquario le cui caratteristiche costituiscono una summa del gatto. I nati sono il segno dell’Acquario, infatti, sono interessanti: sono dotati di intuito, anticonformismo, libertà; sono naturalmente affascinanti, riservati e anche estroversi con chi dicono loro; caparbi e ostinati; dotati di spirito d’avventura; sensibili e permalosi; il numero 17: nel nord Europa ha un significato positivo (vivere la vita sette volte), da noi un significato meno benefico perché, se si anagramma il modo in cui il numero è scritto in cifre romane (XVII) otteniamo vixi, cioè ho vissuto (e ora non ci sono più). E sulle sette vite dei gatti nessuno nutre dubbi!

 In ogni caso ricordiamo che festeggiare i gatti non è una peculiarità dei nostri giorni: abbiamo testimonianze di “feste” del gatto presso l’Antico Egitto, i Celti, le civiltà pre-colombiane; ma anche in India e in Giappone dov’è tuttora venerato.



Il mio Romeo

La cava di bauxite: meraviglia rossa vicino Otranto

Se siete sensibili ai grandi paesaggi e agli spettacoli naturali che l’ambiente è in grado di offrire, il Salento si rivela ancora una volta per voi, la meta ideale, soprattutto per chi è amante della fotografia e degli scatti indimenticabili. Mettendo da parte spiagge e stabilimenti, potete trascorrere una meravigliosa giornata nei pressi di Otranto, ammirando i diversi luoghi che questa terra nasconde lungo la sua costa.
Spostandovi progressivamente verso l’entroterra noterete come il paesaggio sia dominato da una grande ricchezza biologica e da falesie dolomitiche, simili più a quelle greche che a quelle italiane.


In questo panorama fatto di piccoli centri agricoli immersi nel verde ed uliveti, si aprirà davanti ai vostri occhi un luogo quasi magico ed estremamente suggestivo, ovvero la cava di bauxite, collocata esattamente tra Otranto e Punta Palascia, vicino a Monte S. Angelo.
 La bauxite è un minerale dal quale si ricava l’alluminio. Dopo la scoperta di un suo giacimento vicino Otranto, ne iniziò lo sfruttamento, andato poi avanti per molti anni, fino al 1976, quando la cava fu abbandonata poiché non più redditizia.
 Al di sotto della cava, grazie a delle infiltrazioni di acqua provenienti da una falda acquifera sotterranea, si è andato a formare, con il passare degli anni, un laghetto, coloratosi di un inteso verde smeraldo a causa del minerale stesso.


Uno spettacolo naturale che vi colpirà soprattutto per la varietà di colori, una distesa rossa e blu, che attraversa numerose sfumature e gradazioni di colore, mettendo in forte risalto anche la vegetazione presente.
 Un paesaggio quasi surreale, che diventa ancora più affascinante con i vari giochi di colore creati dai raggi del sole che si tuffano all’interno del favoloso cratere. 
 Una visione che vi resterà impressa nella memoria .

Sara Carriero

I paesaggi multicolor delle miniere di sale più belle del mondo


A decine di metri sotto una cittadina russa c'è una miniera di sale abbandonata, che presenta spettacolari paesaggi multicolor, con pareti coperte da motivi psichedelici causati dagli strati naturali di carnallite, il minerale che si trova proprio nei depositi di sale marino e nei laghi salati. La carnallite è facilmente solubile in acqua ed è deliquescente. È anche fluorescente e viene utilizzata nel processo di fertilizzazione delle piante, essendo uno dei principali minerali di potassio.
 I suoi colori variano dal giallo al bianco, passando per il rossastro, ma a volte può essere anche blu o addirittura completamente incolore. 
Anche se una piccola parte della miniera è ancora in uso, chilometri di gallerie ora sono abbandonati. 
Vi si può accedere solo con un permesso speciale del governo. Ma questo non ha impedito al fotografo Mikhail Mishainik, 29 anni, di esplorare questa spettacolare rete di cunicoli che si trova sotto la città industriale di Ekaterinburg.
 L'avventuriero ragazzo ha passato oltre 20 ore ad esplorare il labirinto poco illuminato, incurante del rischio di perdersi, della possibilità che si verificasse una perdita di gas da sostanze chimiche come metano, idrogeno solforato anidride carbonica e dei rischio di una frana. 
"Le miniere sono enormi e proseguono per molti chilometri in larghezza e in lunghezza, un unico tunnel può essere lungo più di quattro miglia. E 'difficile descrivere come ci si a stare così sotto, si perde la cognizione del tempo e l'aria è molto secca, si sente sempre sete", racconta il fotografo, orgoglioso di aver visitato un posto che in pochissimi hanno visto.






Fonte: greenMe
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