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venerdì 5 luglio 2019

Trimithis, la Pompei scoperta nel deserto egiziano


Gli scavi nelle oasi del deserto occidentale egiziano hanno portato alla luce un’intera città con tesori di inestimabile valore artistico e culturale risalenti all’epoca della dominazione romana 


 “Quello di Trimithis è uno scavo di enorme importanza, che ci fa capire in modo chiaro che l’idea dell’Egitto come circoscritto alla valle del Nilo è davvero limitativa”, spiega a “Le Scienze” Paola Davoli, docente di egittologia all’Università del Salento e direttrice archeologa degli scavi.
 Le aree della valle del Nilo sono caratterizzate da un solo raccolto l’anno, nel periodo invernale. 
I romani però si resero conto che nelle oasi si poteva invece ottenere più di un raccolto e sfruttare il terreno, per esempio, anche per la coltivazione del cotone.
 Per farlo si impegnarono in una vasta opera di canalizzazione: nell’oasi di Dakhla realizzarono classici canali di superficie, mentre in quella di Kharga usarono tecniche più raffinate e peculiari, mutuate dai persiani.
 Sono i cosiddetti qanat, canali sotterranei scavati nella roccia, che permettono di sfruttare a scopo agricolo le acque del sottosuolo.


Da questo sforzo nacque Trimithis che, prosegue Davoli, “era una grande città, con un impianto urbano complesso e una struttura sociale articolata, che comprendeva, per esempio, una boulé, cioè un consiglio cittadino”, aggiunge.

 L’abitato di Trimithis non è quello di una tipica città romana: le strade sono strette e si articolano in una sorta di labirinto con frequenti cambi di direzione, forse per difendersi da un clima ostile: caldissimo d’estate e con frequenti tempeste di sabbia in inverno. 

“Trimithis era una città importante, anche se è il centro principale dell’oasi, la cui capitale è da sempre Mut, che per la continua frequentazione si è conservata molto di meno”, aggiunge Davoli.


 Il miracolo della conservazione di Trimithis è dovuto in primo luogo alla sua rapida copertura di sabbia, che l’ha avvolta e protetta come una coperta dopo che la popolazione abbandonò all’improvviso l’insediamento alla fine del IV secolo d.C. 
Anche la distanza dai centri abitati e dalle colture agricole ha di sicuro contribuito alla buona conservazione.

 Gli edifici sono per la maggior parte costruiti con mattoni crudi, un materiale molto friabile, che non ha scampo se rimane esposto, soprattutto se sottoposto all’azione delle piogge, che qui sono rare, ma distruttive.
 “Lo strato protettivo della sabbia ha consentito agli edifici una conservazione ottimale. 
Alcune case sono conservate per un’altezza di tre metri e le loro pareti sono riccamente dipinte, tanto da farci ricordare Pompei. 
La ricchezza e l’importanza dei reperti trovati ha rafforzato questa analogia”, ricorda Davoli.


Uno degli edifici portati alla luce dalla missione della New York University sembra appartenesse a un certo Serenos, il cui nome è riportato su alcuni óstraka, cocci di ceramica (nel sito ne sono stati trovati molti). 

“Serenos era un personaggio di un certo rilievo, un membro del consiglio cittadino, che sembrava avere molto a cuore il fatto di dimostrare la sua appartenenza a un’élite culturale, che padroneggiava la lingua e la cultura greca”, nota Davoli.
 Lo capiamo da diverse cose: per esempio dalle scene tratte dalla mitologia greca, che adornano la sua casa.
 “Si tratta di pitture molto belle e scenografiche, che rappresentano gli dei dell’Olimpo, con le relative didascalie e il nome dei personaggi.
 La sala del banchetto, in particolar modo, colpisce per l’uso di colori vivaci e le scelte stilistiche insolite”, osserva l’archeologa.


“La sala, inoltre, era coperta da una cupola, un elemento inusuale in questo contesto, in cui predominano le semplici volte a botte, dipinta con motivi e colori così intensi da sembrare quasi “psichedelici””, continua Davoli. 


 All’atto di far emergere questi splendidi ambienti, risultò però chiaro come la sabbia che li aveva custoditi fino a quel momento fosse l’unico mezzo in grado di garantire la loro conservazione per il futuro, anche in attesa del proseguimento degli scavi che, a causa della difficile situazione politica dell’Egitto di oggi sono interrotti dal 2016. 
“È stata presa, perciò, la decisione di ricoprirli di nuovo di sabbia e ristabilire le condizioni iniziali.

 Per offrire al pubblico la possibilità di visitare questa bella casa è stata realizzata una sua fedele ricostruzione, che funge anche da centro informativo”, afferma Davoli. 

Accanto alla casa di Serenos venne costruito un edificio particolare, la cui originale struttura non è chiara, a causa della sua successiva riorganizzazione da parte della famiglia di Serenos. 

Sottolinea l’archeologa: “Anche qui ci troviamo di fronte a un ritrovamento eccezionale, perché si tratta di un antico edificio scolastico, abbandonato verso la metà del IV secolo d.C.

 Se, in generale, gli edifici scolastici sono molto rari, questo è un caso davvero particolare perché ci troviamo di fronte a una vera e propria scuola di retorica, in pieno deserto. 
Non sappiamo se vi fossero anche stanze in cui si impartivano i primi rudimenti della lingua greca”.


Ce lo testimonia un ritrovamento che ha un grande fascino: un muro intonacato di bianco, dove si vedono iscrizioni tracciate con ocra rossa, materiale che è presente nel deserto circostante e ha la caratteristica di poter essere lavato, permettendo di riutilizzare la parete, come è testimoniato da chiari segni di più riscritture successive. 
 “Era l’equivalente antico di una lavagna”, nota Davoli. “E che si tratti del lavoro di un insegnante risulta evidente dalla chiarezza dei caratteri, come pure dalla presenza di segni diacritici che aiutano la pronuncia e la lettura.
 Sono testi che riportano epigrammi in distici elegiaci ed esametri; in altre stanze, ci sono altre iscrizioni, con testi di autori classici, come Omero e Plutarco. 
Non mancano le esortazioni a studiare con impegno, evidentemente utili anche allora”, aggiunge l’archeologa. 

 All’atto di unire la scuola abbandonata alla sua casa, Serenos trasformò gli ambienti in un grosso magazzino e – con una certa ironia – in una stalla per i propri asini. 


 “Non meno sorpresa ha destato il ritrovamento, proprio sotto la scuola di retorica, di un edificio termale con tutti i suoi tipici ambienti, come il frigidarium, il tepidarium, due calidaria.
 A quanto pare i Romani non potevano fare a meno delle terme neppure nel mezzo del deserto, in un’oasi che di certo non abbondava di acqua”, continua Davoli.


La storia dell’insediamento di Trimithis si interruppe di colpo nel IV secolo e per riprendere solo nel Medioevo.
 Che cos’era accaduto? 

“Una delle cause potrebbe essere un’improvvisa carenza d’acqua, forse provocata da un abbassamento della falda freatica o collegata a un cambiamento climatico”, afferma Davoli. 
D’altra parte, una chiara testimonianza dei mutamenti climatici nelle oasi si trova nel confronto stridente tra le fonti storiche.

 Per Erodoto si trattava di “un’isola dei beati”, mentre le fonti di epoca romana parlano di un inferno in cui la gente muore.

 In questo passaggio dal paradiso all’inferno si può avvertire l’impatto che l’ambiente ha avuto sulla vita di questa gente, inducendola a un brusco spostamento.

 Un dramma che riporta alla mente quello delle popolazioni su cui oggi si riflettono le conseguenze del riscaldamento globale.

 Colpito dalle conseguenze della siccità, Serenos si allontanò insieme agli altri, ma prima seppellì con diligenza il suo tesoretto di suppellettili di bronzo. 
Possiamo immaginare che pensasse di tornare, in seguito, ad abitare la casa. Ma non vi fece più ritorno. 

Ma quello dell’insediamento romano è solo un tassello di ciò che possono rivelare gli scavi di Amheida, osserva Davoli: “Ci troviamo di fronte a un sito che presenta una stratificazione profonda, che ci offre testimonianza di molti periodi storici, dall’epoca predinastica fino alla tarda età romana: si tratta, in pratica, di un sito che ha più di 3000 anni di storia, che attendono di essere portati alla luce completamente”. 

 Fonte originale : www.lescienze.it
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