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venerdì 30 settembre 2016

Termina la missione della sonda Rosetta


Rosetta addio, oggi alle 12:40 circa il D-Day della storica missione dell’Esa che ha portato per la prima volta una sonda su una cometa. Dopo quasi 12 anni di missione, Rosetta ci riserva di un finale straordinario, con una discesa controllata sulla superficie della cometa 67/P Churyumov-Gerasimenko, calcolato nella zona di Ma’at.
 E questa avventura unica parla molto anche italiano.
 La sonda Rosetta, grazie al supporto dell’Agenzia Spaziale Italiana (Asi), è infatti frutto anche della capacità industriale e accademica del nostro Paese. 
Il colosso aerospaziale Leonardo ha gestito la progettazione e la realizzazione degli strumenti scientifici sviluppati con l’Istituto Nazionale di Astrofisica, Università Parthenope di Napoli, Politecnico di Milano e l’Università di Padova-Cisas.
 Intanto per gli scienziati dell’Esa non è semplice prevedere come si evolveranno gli ultimi minuti di vita della sonda, quindi sono tutti col fiato sospeso.


E’ ormai è iniziato il conto alla rovescia per la conferma della fine della missione, prevista dalla sala di controllo principale dell’Esa alle 1320 circa ora italiana. 
A guidare Rosetta nel suo viaggio conclusivo sulla cometa è Andrea Accomazzo, Capo della divisione Missioni Interplanetarie dell’Esa. 
Rosetta è ‘lanciata’ verso la sua cometa 67/P intorno alla quale è in orbita da due anni, cioè dal 6 agosto 2014, quando ha raggiunto l’obiettivo della missione dopo un viaggio lungo dodici anni.

 La missione di Rosetta è iniziata il 2 marzo 2004 e da quel giorno la sonda ha compiuto una lunga strada attraverso il sistema solare. Circa tre mesi dopo il suo arrivo intorno alla cometa 67/P, la sonda ha rilasciato il lander Philae approdato sul corpo celeste il 12 novembre 2014. 
“Dopo due anni con la cometa, inviando informazioni di una ricchezza scientifica senza precedenti durante il suo massimo avvicinamento al Sole, Rosetta e la cometa si stanno ora dirigendo di nuovo oltre l’orbita di Giove” spiegano gli scienziati dell’Esa. Viaggiando “sempre più lontano dal Sole come non mai prima, ed affrontando una significativa riduzione dell’energia solare, che è necessaria affinché sia operativa, il destino di Rosetta è fissato: seguirà Philae sulla superficie della cometa” aggiungono.

 In questi anni di lavoro nello spazio, Rosetta ha fornito “molti indizi importanti per gli scienziati, indizi – rileva l’Esa – da mettere insieme per risolvere le questioni chiave in materia di origine ed evoluzione della cometa, il suo posto nel sistema solare primordiale ed il possibile ruolo delle comete nel trasportare ingredienti considerati cruciali per la comparsa della vita sulla Terra, tra cui acqua e materiali organici“.

 Rosetta sta continuando a raccogliere importanti dati scientifici durante la complessa manovra, iniziata ieri e gestita nella sala di controllo principale dell’Esa a Darmstadt, in Germania, dal team Esoc (European Space Operations Centre), supportato da personale di Telespazio Vega Deutschland, società controllata da Leonardo-Finmeccanica coinvolta nel programma Rosetta dalla fine degli anni ’90, quando Esoc iniziò la pianificazione della missione. Queste ultime ore di discesa della sonda verso la sua cometa, “danno a Rosetta un’occasione unica per fare molte misurazioni, compreso analizzare gas e polvere il più vicino alla superficie della cometa che sia mai stato possibile finora, e scattando immagini ad alta risoluzione del nucleo della cometa, compresi i pozzi aperti della regione di Ma’at dove è previsto avvenga il suo impatto controllato con la cometa” assicura l’Esa. 
Questi dati, evidenzia l’Agenzia Spaziale Europea, “dovrebbero essere trasmessi durante la discesa e fino al momento dell’impatto finale, dopo il quale le comunicazioni con la navicella non saranno più possibili“. 
E per Rosetta sarà ‘game over’. 

 Fonte:www.meteoweb.eu

Il "Drago d'argento" del fiume fiume Qiantang


Anche quest'anno il "Drago d'argento", un fenomeno naturale che interessa il fiume Qiantang, nella regione cinese di Zhejiang, non ha deluso le aspettative. 
Il corso d'acqua è infatti interessato da gigantesche onde "di ritorno" che si formano, complice la marea, alla foce del fiume e assumono dimensioni impressionanti . 
Il fenomeno è noto da centinaia di anni e si verifica a partire dal diciottesimo giorno dell'ottavo mese lunare cinese.
 Dura circa una settimana e attrae ogni anno oltre 100 mila turisti. Ma che cosa accade, di preciso? 
 Questa onda anomala chiamata, in gergo scientifico, mascheretto (mascaret, in francese), è dovuta alla resistenza opposta dalla corrente del fiume alla grande massa d'acqua proveniente dal mare che, spinta dalla marea, prova a risalirne il corso.
 Quando il fronte d'onda marina raggiunge l'estuario, l'acqua si incanala nel fiume e lo percorre "al contrario", creando turbolenze capaci di generare tsunami alti diversi metri.


Il fenomeno non riguarda soltanto il fiume Qiantang ma anche altri importanti corsi d'acqua come il Rio delle Amazzoni, il Severn (in Gran Bretagna) o il Brahmaputra, che sfocia nel Golfo del Bengala (Oceano Indiano). 
 Nel Qiantang però assume dimensioni importanti, con onde che possono toccare diversi metri di altezza e i 40 km orari di velocità. Nel 2016 si è finora parlato di onde alte un paio di metri.
 Nel video qui sotto girato qualche giorno fa, potete vedere il mascheretto avanzare e crescere improvvisamente mentre raggiunge gli argini, cogliendo la folla di sorpresa.

 

Il fenomeno è particolarmente frequente durante la Festa di metà autunno dell'anno cinese, quando la Luna è piena e l'attrazione gravitazionale che esercita sulla Terra è massima. 
Questa forza, e la forza centrifuga del sistema Terra-Luna fanno sì che le maree siano particolarmente intense. 
 In questo periodo e per circa una settimana, la città cinese di Haining, dove il fenomeno è particolarmente evidente, viene presa d'assalto da curiosi, fotografi e surfisti che provano ad assistere allo spettacolo (e talvolta a cavalcare l'onda). 
 Quest'ultima attività è naturalmente molto pericolosa ed è capitato in passato che qualcuno sia morto annegato. 
Quest'anno fortunatamente non sembrano esserci stati incidenti di rilievo.


Da lontano, l'onda in avvicinamento somiglia a una falce di Luna color argento. 
Quando si infrange sulla riva, sembra una marea nera come la pece. I locali la chiamano infatti Silver (o Black) Dragon, dragone d'argento (o nero). 

 La caratteristica che rende l'onda così magnetica e spettacolare è proprio la sua imprevedibilità, una capacità di trasformazione che spesso, in passato, è stata sottovalutata dalle autorità. 
Nel 1993, quasi 60 persone persero la vita mentre assistevano all'arrivo del mascheretto.

 La forma triangolare della baia di Hangzhou, dove l'onda si forma, contribuisce a incanalare l'acqua, rendendo il fronte così energico e turbolento. 
Talvolta l'onda forma un "muro" inclinato facilmente surfabile. Altre volte si disintegra in una schiuma turbolenta e alta come un palazzo di due piani.
 A complicare le cose c'è il fatto che il fiume è trafficato di barche, moli, strutture in cemento. 
Tutte barriere che rendono i tentativi di domare l'onda vicini a una corsa ad ostacoli.
 Oggi l'impresa è riservata a pochi, intrepidi stuntman sprezzanti del pericolo. 
In passato, si racconta che alcuni provassero a surfarla senza tavola, nuotandole appresso.

 Fonte: focus.it

mercoledì 28 settembre 2016

Il segreto dei pasti "light" delle balene


I più grandi animali marini si nutrono di creature spesso più piccole di una graffetta: come fanno a sostentarsi? 
Un nuovo studio dell'università di Stanford (California) pubblicato su Current Biology offre uno spaccato più che mai dettagliato sulle abitudini di pasto delle balenottere.

 I sensori di pressione, gli accelerometri e i registratori di suoni sono usati nello studio dei cetacei da almeno 15 anni. 
Questi strumenti tracciano i movimenti delle balene in tre dimensioni, ma non sempre sono affidabili nel cogliere i dettagli. Un gruppo di biologi della Hopkins Marine Station ha unito ai comuni sensori di movimento alcune telecamere "a dorso di balena", in modo da avere una visione in soggettiva dei pasti. 
Con questi strumenti sono state taggate balene di Sudafrica, Patagonia e coste est ed ovest degli Stati Uniti.
 Si è così scoperto che particolari adattamenti anatomici permettono alle balenottere di ingurgitare in pochi secondi un volume d'acqua e di prede superiore a quello del loro stesso corpo. 
Per una balenottera azzurra (Balaenoptera musculus) ciò si traduce nell'ingestione di una quantità d'acqua pari a quella di una piscina o di un tipico scuolabus.


Ma le fauci devono aprirsi al momento giusto, perché la mole di materiale che entra rallenta notevolmente gli animali, provocando, insieme alla fatica per l'immersione anche a 300 metri di profondità, un enorme dispendio energetico.
 Così le balene che si nutrono di krill aprono la bocca quando si trovano alla velocità massima (che per la balenottera azzurra è di 4 metri al secondo) e la richiudono una volta tornate a velocità normale.
 Quelle che mangiano piccoli pesci, come la megattera (Megaptera novaeangliae), cambiano il timing e sprecano più energie per compensare la velocità di fuga dei pesci.
 Ma spesso i loro pasti sono anche più appaganti e calorici. 

 Lo studio servirà a perfezionare le strategie di conservazione di questi animali, minacciati dalla scomparsa delle loro fonti di cibo primarie. 

Fonte: focus.it

Storia della lavorazione del vetro di Murano


Sembra che le origini del vetro di Murano siano antichissime, alcuni scavi archeologici fanno risalire i primi reperti al settimo secolo a.C.
 L’arte vetraia si è però sviluppata molto più tardi.
 Se consideriamo il primo documento scritto che relaziona riguardo una donazione di artefatti di vetro, risale al 982.
 Fu grazie a tale ritrovamento che si è deciso che da lì doveva partire la storia di questa particolare attività economica, importantissima per lo sviluppo di Venezia, ed è proprio in base a questa specifica data che si sono celebrati nel 1982, i mille anni della presenza dell’arte del vetro di Murano.
 Proprio a Murano infatti si erano sviluppate le fornaci, che pian piano, dal XII secolo circa, si erano conformate in una vera è propria attività manifatturiera. 
All’inizio le botteghe erano tutte concentrate lungo il Rio dei Vetrai, dove ancora oggi si possono visitare i laboratori più antichi, e se alcune fornaci erano presenti anche nel centro storico di Venezia, per evitare eventuali incendi, ci fu una legge speciale della Repubblica a trasferire tutta la attività del vetro e dei suoi laboratori sull’isola.






Le tecniche di lavorazione, molte delle quali si utilizzano ancora oggi, si svilupparono nella seconda metà del XIII secolo, 
Venezia fu privilegiata rispetto ad altre località europee che si dedicavano a questa forma di artigianato poiché vantava stretti rapporti commerciali con il vicino oriente e sembra proprio che Fenici, Siriani ed Egiziani, già da molto prima conoscevano la lavorazione di questo pregiato materiale, così che i Veneziani hanno avuto l’opportunità di apprendere le tecniche antiche da loro utilizzate per poi sintetizzarle con le loro proprie conoscenze.
 Nei due secoli successivi le tecniche hanno subito una veloce evoluzione, che hanno permesso di ottenere un particolare vetro lavorato di incredibile purezza. 
Sembra che sia stato proprio questo il giusto mix, tra tradizione ed evoluzione, a conferire alla produzione vetraia muranese quella particolarità che tutto il mondo ammira ancora oggi, come gli apprezzatissimi lampadari di Murano.


Questo incredibile successo che si consolidò in Europa nel sedicesimo secolo, grazie alle tecniche sempre più affinate ed allo sviluppo della materia prima che permise di perfezionare ed impreziosire gli artefatti dei maestri muranesi, si espanse anche oltre oceano.
 I vetrai veneziani sono infatti arrivati sino in Virginia, in vari documenti della Virginia Company of London si fa riferimento alla presenza di italiani, citati come “Itallyans” che, riconosciuti maestri specializzati nella produzione di vetri soffiati, erano stati chiamati per aprire e dirigere una fornace in loco. 
Sembra che il progetto non abbia potuto svilupparsi, forse per difficoltà tecnica di svolgere quest’arte tanto pregiata, forse per le epidemie ed anche per le rappresaglie degli indiani che al tempo erano molto frequenti.






Attualmente le tecniche di lavorazione del vetro di Murano si sono perfezionate a tal punto da dover riconoscere ai vetrai muranesi il titolo di veri artisti contemporanei, proprio per essersi dedicati a seguire con il proprio artigianato le correnti più importanti dell’arte contemporanea, senza per questo non avvalorare nei loro artefatti la millenaria tradizione che fa ancora oggi del vetro di Murano un materiale unico ed inimitabile, ma soprattutto molto pregiato.


 Fonte: gizzeta.it

lunedì 26 settembre 2016

Ceci neri : una rarità tutta pugliese


I ceci neri sono una varietà del Cicer arietinum e sono prodotti nella zona della Murgia Barese.
 La Murgia è un altopiano carsico collocato nella Puglia centrale; la parte che si trova in provincia di Bari viene definita dalle persone del posto “Murgia carsica” e si colloca a sud est di Bari.
 Questo territorio, comprendente comuni come Acquaviva delle Fonti, Cassano delle Murge e Sant'eramo in Colle, un tempo era ricco di allevamenti e di coltivazioni: vigneti, mandorleti e oliveti, che ben crescevano grazie ad un terreno roccioso e spesso privo di acqua. 
 Oltre a queste colture destinate al commercio, i contadini piantavano, per il loro sostentamento, legumi e cipolle, che erano alla base della loro alimentazione e che vendevano nei mercati locali: ceci e lenticchie soprattutto e, tra questi legumi, il cece nero della Murgia carsica che rischiò seriamente l'estinzione, soppiantato da colture più redditizie per il commercio, quali viti e olivi.
 La scomparsa fu scongiurata grazie all'intervento della Camera di Commercio di Bari e della Cia (confederazione italiana agricoltori) che, con il loro sostegno alla Fondazione Slow Food, permisero di riunire in un Presidio sei agricoltori locali che hanno rimesso a coltura il Cece Nero, permettendo così a questa varietà locale di continuare ad esistere.
 I Presidi Slow Food sono molto preziosi perché sostengono le piccole produzioni tradizionali che rischiano di scomparire, valorizzano territori, recuperano antichi mestieri e tecniche di lavorazione, salvano dall’estinzione razze autoctone e varietà di ortaggi e frutta. 

 Il cece nero si raccoglie ad agosto ed essiccato, è reperibile tutto l'anno. 
L' aspetto è diverso dal cece comune: ha una forma a chicco di mais, molto più piccola, con la buccia rugosa e irregolare e l’apice a forma di uncino.


E' molto gustoso e saporito, quasi non necessita di sale, dal sapore vagamente erbaceo. 
Ha una buccia consistente, che richiede un tempo di ammollo di 12 ore e una cottura di circa due ore. 
 La cucina locale lo propone in zuppa, con un soffritto abbondante di cipolle o come primo piatto con tagliolini, pomodoro e un filo d’olio. I ceci neri, come i comuni ceci, sono composti per il 10% d’acqua, per il 19% da proteine e il 17% da fibre alimentari.


Hanno un ottimo potere energetico, grazie all'elevato contenuto glucidico e, un elevato contenuto proteico, pari al 21%. 
Ricchissimi di fibre, aiutano la regolarità intestinale e diventano un alimento saziante, ideale per chi vuole tenere sotto controllo il peso. 
Inoltre i ceci neri sono ricchi di vitamine: B, C, K ed E. 
Sono un’ottima fonte di minerali come il potassio, il calcio, il fosforo e il magnesio e sono molto più ricchi di ferro, a differenza della versione comune, tanto che in passato erano molto consigliati alle donne in gravidanza 

 Fonte: greenme.it

venerdì 23 settembre 2016

Maschere africane: cosa simboleggiano e come vengono usate nei rituali


E’ difficile superare la diffidenza razionale della mentalità occidentale, persino quando crediamo nell’esistenza di altro. Siamo permeati di logica e per questo tendiamo ad attribuire alle maschere africane un valore quasi prettamente estetico.
 Fa meno paura e rientra nella normalità.
 Eppure nelle culture d’origine il loro ruolo trascende la materia e non si tratta di mere superstizioni, anche se ognuno ha il diritto di chiamarle a modo suo.
 Per comprenderne l’importanza è indispensabile inoltrarsi nel territorio del rito che, a differenza di quanto crediamo, è capace di influenzare la realtà agendo a livello sottile, invisibile alla percezione sensibile.
 Nell’ottica razionale si ritiene che i rituali aiutino la collettività a unirsi favorendo il senso di solidarietà e sebbene sia vero, viene da chiedersi se il loro compito si riduca solo a questo.

 Jodorowski spiega accuratamente il significato dei rituali nella sua psicomagia attribuendo loro la capacità di parlare all’inconscio attraverso il linguaggio dei simboli poiché quest’ultimo, rispetto al linguaggio verbale, è più diretto. 
Ecco perché le religioni ne fanno largo uso, incluso il cristianesimo, ed ecco perché, probabilmente, i rituali hanno resistito al trascorrere del tempo insinuandosi persino nell’era della ragione, che pur non credendoci consente loro di sopravvivere. 
D’altronde non potrebbe fare diversamente.

La maschera africana è uno strumento attraverso il quale il rituale può svolgersi efficacemente connettendo mondi diversi. 
Gli strumenti cambiano di cultura in cultura ma il rituale conserva la stessa fisionomia, seppure declinato in forme diverse a seconda dello scopo. 
Colui che indossa la maschera rituale ha il compito di perdersi in essa, lasciandosene risucchiare in modo da trasformare o dissimulare la propria identità e per riuscirci, spesso, il rito è accompagnato da danze e musiche ipnotiche che favoriscono lo stato di coscienza alterato.
 La somiglianza con le pratiche sciamaniche è indiscutibile. Ovviamente sussistono differenze di impiego da paese a paese ed essendo l’Africa un continente tanto vasto, generalizzare sarebbe assurdo.
 Tuttavia si notano tratti comuni, per esempio un largo impiego in fase di realizzazione del legno, successivamente intagliato, scolpito e talvolta dipinto o decorato con pelli, corna, ossa, conchiglie, paglia e altri materiali. Si direbbe un perfetto esempio di riciclo creativo.




Ogni etnia si caratterizza per l’uso di maschere specifiche che hanno sempre un significato spirituale e mai esclusivamente estetico, sebbene facciano ormai parte di un florido mercato destinato al turismo.
 Tuttavia molte delle maschere vendute nei mercatini sono copie appositamente concepite allo scopo, diverse da quelle create artigianalmente secondo procedimenti specifici, spesso tramandati di padre in figlio.
 Queste ultime inoltre sono cariche di riferimenti simbolici sconosciuti ai più.
 I rituali con le maschere fin dal paleolitico venivano condotti da stregoni locali, o figure simili a seconda delle tradizioni, i quali indossandole si connettevano con il mondo degli spiriti. Accadeva, per esempio, in occasioni particolari come i funerali, durante i matrimonio o feste annuali, cerimonie di iniziazione.


L’estetica caratteristica di ogni maschera non è casuale ma riproduce il valore simbolico e psicologico della stessa. 
Quindi ogni particolare ha un suo significato: come riporta il sito www.novica.it, “gli occhi socchiusi (Costa d’Avorio) rappresentano la pazienza, il dominio di sé; gli occhi piccoli possono rappresentare l’umiltà, mentre la bocca grande rappresenta la forza e l’autorità (Gabon). 
Le ciglia arcuate e gli occhi a mandorla ricordano invece la bellezza femminile (anche se la maschera viene indossata da un uomo).
 Se la maschera riproduce la forma di un teschio umano è relativa al culto degli antenati: l’antenato deve essere reso propizio ai vivi, anziché nocivo.”






In altri casi, la maschera racchiude in se stessa le caratteristiche di determinati animali e indossarla connette lo stregone con l’animale stesso. 
Lo scopo può essere, per esempio, comunicare con l’animale per allontanare eventuali rappresentanti della stessa specie potenzialmente pericolosi per la comunità.
 Lo stregone, quindi, si trasforma nell’animale di cui ha paura per entrarci in empatia. 
Talvolta la maschera assolve a funzioni augurali oppure, se in una maschera si celano più animali, essa può rappresentare uno strumento per accedere alle qualità degli stessi.
 E’ il caso di alcune “maschere usate in Costa d’Avorio che, mescolando le corna dell’antilope, le zanne del facocero e la dentatura del coccodrillo, vogliono dare una impressione di potenza e di pericolo.” 

Ci sono anche maschere stilizzate che rappresentano spiriti e non avendo questi ultimi alcun aspetto esteriore, esse si caratterizzano per le forme molto astratte. 
Lo scopo rimane il medesimo, connettere l’uomo, di solito uno stregone o figure simili, con un altro mondo attraverso la potenza del rito. 

 Fonte: www.eticamente.net

Autunno


Quattro Stagioni. Autunno. 
Autore, Giuseppe Arcimboldo

giovedì 22 settembre 2016

Autunno


Incredibile come la natura sappia stupire, allo sfiorire dei fiori estivi, ne nascono di nuovi, sono le foglie d’autunno. 

Stephen Littleword

Dal Dna la verità sulla macchina di Antikythera?


Il relitto di Antikythera rivela una nuova sorpresa: nell'area dov'è affondata la nave romana, nel I sec. a.C., sono stati rinvenuti diversi reperti ossei.
 Il loro studio permetterà forse di chiarire l'origine della macchina di Anticitera (o meccanismo di Antikythera), una delle più sorprendenti "tecnologie" dell'antichità. 

 La macchina di Anticitera è stata rinvenuta al largo dell'isola greca di Cerigotto (o Anticitera, a sud del Peloponneso) all’inizio del secolo scorso.


Rimasto a lungo un oggetto misterioso, solo negli ultimi anni, dopo un lungo e meticoloso lavoro di pulizia e restauro, si è scoperto che fungeva da meccanismo per ricostruire il movimento dei pianeti e delle stelle, oltre che per predire le eclissi di Sole e di Luna.


È persino stato ricostruito un modello funzionante del meccanismo (sulla base di ciò che era stato recuperato), ma non è ancora stato del tutto interpretato.
 In più, c'è un enigma al quale nessuno finora ha dato risposta: chi ha progettato e costruito una macchina talmente complessa per le conoscenze di 2.000 anni fa? 

 I reperti ossei sono stati rinvenuti nell'area del relitto, a 50 metri di profondità: parte di una scatola cranica, una mascella, un femore e parti di braccia.
 Se sarà possibile estrarre DNA non del tutto compromesso, potrebbe dunque essere possibile risalire all'origine degli uomini che viaggiavano sulla nave.


«Di loro non sappiamo nulla, se non che le ossa sembrano appartenere a persone giovani», spiega Brendan Foley, archeologo della Woodshole Oceanographic Institution del Massachusetts, che ha pubblicato i dati preliminari della scoperta su Nature.

 È possibile che il meccanismo di Anticitera servisse per spiegare agli studenti i meccanismi del cielo allora conosciuti? Oppure serviva "solo" per studiare e predire i fenomeni celesti? 
Se sarà possibile studiarlo, il DNA non risponderà comunque a queste domande, ma potrebbe rivelare da dove arrivava e, con questo, chi gestiva la misteriosa macchina.

 Fonte: focus.it

mercoledì 21 settembre 2016

Domani inizia l’autunno: perché si chiama così questa stagione dell’anno?


Il 22 settembre 2016 è l’equinozio d’autunno, il giorno che segna l’inizio della stagione che segue l’estate e che precede l’inverno. Ma perché si chiama autunno?
 Cosa significa questa parola a cui spesso si associa metaforicamente il concetto di declino, di perdita della vitalità, dopo gli “splendori” della primavera e dell’estate? In realtà nell’etimologia di autunno è nascosta una sorpresa, che ci mostra come l’autunno sia tutt’altro che “decadenza” e “tristezza”. Autunno deriva infatti dal participio passato del verbo latino “augere”. Augere, che significa “aumentare”, “arricchire”, diventa – con il suo participio passato – “auctus”, a cui è stata associata la desinenza -mnus. 
Ciò dà origine al latino autumnus, da cui poi tutte le lingue neolatine hanno tratto il nome della terza stagione dell’anno (Otoño in spagnolo, Automne in francese, Outono in portoghese, ed anche in inglese si dice Autumn – mentre negli USA è più usato il termine “fall”).


Dunque l’autunno non è, nell’etimologia latina, la stagione della decadenza, tutt’altro. È la stagione dell’abbondanza. 
Dopo l’estate infatti, è in autunno che si concentrano i grandi raccolti della frutta. 
In autunno si tengono le importantissime raccolte dell’uva, la vendemmia, e dell’oliva, per fare l’olio.
 In autunno si raccolgono le mele, le pere, le castagne, ed è anche la stagione di una serie di frutti “dimenticati” come la melagrana, il corbezzolo e le cotogne. 
Anche gli ortaggi riservano grande abbondanza in questa stagione, e l’ortaggio più famoso dell’autunno è la zucca. 

 Anche in termine metaforico legato alla vita delle persone l’autunno può essere considerato la stagione dell’abbondanza, intesa come quella parte della vita in cui si raccolgono i frutti di ciò che si è seminato in precedenza. 

Fonte; www.meteoweb.eu

Il super yacht con la cabina sospesa nel vuoto


Un designer italiano ha concepito un concept radicale che mira a scrivere un nuovo capitolo nella storia dei superyacht. Si chiama Shaddai ed è l’ultimo frutto dell’ingegno di Gabriele Terruzzi, già noto per le sue fantastiche creazioni.
 Lungo 150 metri, promette di portare il suo proprietario e relativi ospiti “dal mare al cielo”, offrendo loro vedute di bellezza incomparabile.
 Il tratto distintivo del “gioiellino” è sicuramente la cabina sopraelevata (di quasi 40 metri sul livello del mare), con una terrazza di oltre 100 metri quadrati, per assicurare il massimo del comfort e della privacy. 
Qui trovano posto un angolo bar, un salottino che all’occorrenza si trasforma in sala da pranzo e una piscina da sogno con pareti di vetro, con l’effetto visivo di una “fusione” con il cielo.
 A detta dello stesso Teruzzi, la cabina in questione è “il posto perfetto da cui guardare un tramonto”.


Va da sé che Shaddai non può non essere dotato, nelle intenzioni del suo artefice, di rifiniture lussuose ed esclusive, con materiali e tessuti firmati dalle più prestigiose griffe italiane, e forme che si ispirano all’architettura contemporanea. 
Non a caso il nome stesso del superyacht, di origine ebraica, significa “onnipotente”, e Teruzzi l’ha messo a punto nell’obiettivo di fare sentire “chiunque salga a bordo come se fosse in Paradiso”.




Il resto dello yacht comprende anche un beach club da circa 300 metri quadrati, con un acquarium e soffitti di cristallo, e una seconda piscina più grande (ce n’è anche una terza), che funge anche da “soffitto”… la realtà che supera quasi la fantasia. 

 Fonte: www.tuttomotoriweb.com

martedì 20 settembre 2016

Quanto è astuta la civetta delle tane!


La civetta delle tane è davvero astuta perché per difendere i suoi piccoli ha messo a punto una serie di strategie davvero incredibili. Athene cunicularia è un rapace notturno presente in tutto il continente americano, dal Canada fino all’Argentina, con sottospecie diverse, ma tutte con le stesse abitudini e i medesimi problemi di conservazione, certo più acuiti laddove l’uomo è presente con le sue attività.
 Se dovesse capitarvi di trovarvi a Los Angeles, Dallas o San Francisco, nelle aree periferiche potreste osservarla con facilità, anche di giorno. 

Parente stretta della nostra civetta, deve il suo nome alla particolare abilità dimostrata nello scavare il suo tunnel-nido, che riesce a preparare anche in due soli giorni.
 Una caratteristica che sembra più spiccata nelle civette nordamericane rispetto a quelle di Brasile e Argentina, più propense a utilizzare, invece, le tane scavate dagli armadilli.


Una delle abitudini comuni alle popolazioni sia del nord che del sud America è quella di decorare, se così si può dire, i nidi-tunnel con numerosi oggetti, tra cui anche frammenti di carta, plastica, mozziconi di sigaretta, e spesso anche con sterco di mammiferi. L’uso di quest’ultimo elemento è stato oggetto di studi ed è stato dimostrato che il suo impiego è un efficiente deterrente per disorientare predatori terrestri come tassi e coyote. 
Quindi lo sterco diventa a tutti gli effetti un efficace strumento di mimetismo olfattivo, capace di confondere alcuni nemici. 
Altri ricercatori hanno dimostrato che il posizionamento davanti al tunnel di sterco ed escrementi attira numerosi coleotteri stercorari, una preda molto prelibata per le nostre civette. 
Un ricercatore americano, Dung, ha evidenziato che questa scelta potrebbe influire anche sulla necessità di queste civette di recuperare dosi di carotenoidi presenti negli insetti, che gli uccelli usano per incrementare il sistema immunitario e nella costituzione del tuorlo durante la deposizione delle uova.


Se fin qui la civetta vi ha sorpreso, resterete basiti di fronte alle sue capacità vocali e di imitazione del suono che emette lo Rattle Snake ovvero il crotalo. 
Infatti, i piccoli di civetta delle tane – che rimangono nel nido per diverse settimane – riescono ad imitare perfettamente il rumore dei sonagli presenti sulla coda del rettile e tale stratagemma si rivela molto efficace per spaventare i potenziali predatori (i mustelidi, ad esempio) che di fronte al tunnel scappano impauriti pensando si tratti della tana del serpente a sonagli.
 Una sapiente strategia che diventa fondamentale per chi nidifica sul terreno. 

Le civette si sono dimostrate intelligenti, previdenti e furbe ma nulla possono contro l’espansione dell’uomo e le relative minacce all’ambiente che stanno portando al declino in nord America di questa specie. 

 Fonte rivistanatura.com

lunedì 19 settembre 2016

Ritrovata la Terror, la seconda nave della spedizione Franklin


A due anni dal ritrovamento della HMS Erebus, è stato finalmente localizzato anche il secondo dei due velieri della spedizione di John Franklin, esploratore e ufficiale della Royal Navy, partiti nel 1845 alla ricerca del Passaggio a Nord-ovest – la rotta che collega gli oceani Atlantico e Pacifico passando per il Mar Glaciale Artico – e mai più tornati. 
E il percorso, che rappresentava l’El Dorado dei marinai, ha dovuto poi aspettare il 1906 e Roald Amundsen per essere tracciato. 

Senza notizie dopo due anni dalla partenza della spedizione, la moglie di Franklin chiese all’Ammiragliato britannico che venissero inviate delle squadre di ricerca.
 Squadre che, effettivamente, partirono alla fine del terzo anno, quando si pensava che fossero ormai esaurite le scorte di cibo per l’equipaggio.
 Furono le prime di una lunga serie: le ricerche della spedizione Franklin continuarono per tutto il XIX secolo, ma furono ritrovati solo i resti di alcuni dei membri dell’equipaggio.
 Le navi e i dispersi, 129 uomini incluso Franklin, sono entrati nel mito, ad alimentare la curiosità di scienziati e ricercatori che hanno tentato di risolvere l’enigma della loro scomparsa.
 I velieri, due bombarde, rimasero incagliati nel ghiaccio dello stretto di Vittoria tra il 1846 e il 1848, e l’equipaggio, dopo aver passato due inverni sull’isola di Re William, li abbandonò definitivamente per cercare di raggiungere il Sud via terra. 
Resta però il fatto che di quegli uomini si è persa ogni traccia, e i pochi resti trovati hanno fatto nascere diverse ipotesi: presentavano segni di cannibalismo e altissimi livelli di piombo nelle ossa, tanto che alcuni studiosi hanno ipotizzato che i marinai possano aver subito un avvelenamento da cibo inscatolato (per il piombo utilizzato nelle lattine delle scorte alimentari) che, insieme al freddo e alla fame, ne abbia accelerato la morte.
 Anche delle navi si sono a lungo perse le tracce.
 Ci sono voluti 170 anni per individuarne la posizione: nel 2014 è stata localizzata, e poi esplorata, la HMS Erebus e il 3 settembre scorso è stata individuata la Terror, nella piccola e inesplorata insenatura di Terror Bay, caso di profetica omonimia, sull’isola di Re William, a cinquanta chilometri dalla gemella. 

 La Terror avrebbe forse potuto restare nelle profondità artiche per sempre se non fosse stato per un incontro, e una conversazione casuale, fra Adrian Schimnovski, dell’Arctic Research Foundation, a capo delle operazioni di ricerca, e Sammy Kogvik, un inuit dell’unico insediamento dell’isola di Re William.
 L’Associated Press riferisce che Kogvik ha raccontato al ricercatore di essersi imbattuto in un lungo palo che sporgeva dall’acqua nel corso di un’escursione in motoslitta sulle coste dell’isola: “Sembrava proprio l’albero di una nave”- ha riferito l’inuit, che, sul posto, avrebbe fatto anche degli scatti fotografici poi andati perduti. 
Sarebbe stato proprio questo racconto del nativo a indirizzare i ricercatori, che la mattina del 3 settembre hanno visto apparire sull’ecoscandaglio l’immagine di una sagoma sgranata. “A quel punto eravamo tutti in fibrillazione”, racconta Daniel McIsaac, membro dell’equipaggio e timoniere della Bergmann, la nave da ricerca impiegata dalla Arctic Research Foundation.


I giorni successivi sono stati dedicati alla raccolta di immagini e video ad alta definizione del relitto, da confrontare con i piani originari di costruzione. 
Tutti gli elementi chiave sembrano corrispondere, sebbene la Terror sia stata trovata 96 chilometri più a sud di quanto si credeva potesse trovarsi. 
Il relitto sembra in condizioni perfette, nonostante la lunga deriva e gli anni passati sul fondo del mare: le lamiere che rinforzavano lo scafo sono ben visibili tra le alghe ondeggianti.
 Nel video rilasciato dalla Arctic Research Foundation si può vedere chiaramente la campana di bordo ; un cavo è ancora avvolto attorno all’argano, come se la nave fosse pronta per ormeggiare.


La scoperta chiude anni di ricerche finanziate dal governo canadese, che dal 2008 ha investito milioni di dollari per ritrovare le navi della spedizione Franklin.
 Al momento, non è previsto il recupero dei relitti, che resteranno quindi sui fondali dell’Artico canadese. 
Il presidente della Royal Canadian Geographical Society, John Geiger, definisce il ritrovamento “il pezzo mancante di un puzzle storico”, un enigma risolto, e sottolinea l’importanza della scoperta: la HMS Terror è stata testimone di una tra le più temerarie e avventurose spedizioni del XIX secolo. 

 Fonte: www.nationalgeographic.it

Israele: scoperta una bomba a mano di 700 anni fa


Un oggetto in argilla di dimensioni non superiori al palmo della mano con una forma simile ad una grossa ghianda ed un foro sull’estremità. 
E’ l’antichissima bomba a mano scoperta in Israele. 
Una reliquia preziosissima per comprendere le dinamiche dei combattimenti nel Medioevo in un’area in cui i crociati hanno combattuto per secoli.
 Ed è proprio nelle Crociate che la bomba a mano sarebbe stata utilizzata insieme ad altre armi terrificanti come le balestre, le mazze chiodate e le grandi spade.

 L’antica bomba a mano è stata ritrovata in mare alcuni anni fa ed ora è stata consegnata al museo insieme ad altri oggetti, di epoche diverse, ritrovati sul fondale. 
 Un funzionamento molto semplice caratterizza l’antico ordigno. Un liquido infiammabile veniva versato nell’interno della bomba con un fusibile all’estremità.
 L’accensione della “miccia” avveniva prima del lancio.
 Insomma una dinamica del tutto simile alle bombe Molotov inventate secoli dopo dal generale russo.
 E’ facile immaginare come il lancio degli ordigni avvenisse nelle battaglie navali per incendiare il fasciame dei vascelli nemici. 

 Fonte: http://scienzenotizie.it/

venerdì 16 settembre 2016

L'Abbazia di San Liberatore


L'Abbazia di San Liberatore è uno dei più antichi monasteri benedettini abruzzesi e si trova a Serramonacesca, che deriva dal toponimo "serra dei monaci", luogo che evoca un ambiente onirico e sacro immerso nella selva.
 Qui infatti erano coltivati alcuni orti (serre) dai monaci e dagli abitanti del borgo.

 Immersa all'interno del Parco Nazionale della Majella, sembra un piccolo scrigno che conserva innumerevoli tesori.
Il nome del parco deriverebbe secondo alcuni dalla Dea Maia, la dea madre, secondo altri dal "majo" rimasto fino ad oggi perché tramandato con un rituale che, come tanti caratteristici del nostro paese, sconfinano tra il pagano e il cristiano.
 "Majo", letteralmente significherebbe "omaggio", un rito in onore di Sant'Antonio da Padova e di Cristo Liberatore eseguito nella prima e nella terza domenica di settembre.
 Un rituale antico tanto quanto la bellissima abbazia, fondata su una precedente ancora più antica che verrebbe fatta risalire all'opera di Carlo Magno. 
Abbiamo di lui un affresco molto particolare; secondo Fabio Ponzo, Carlo Magno verrebbe raffigurato con i piedi posizionati "a squadra"; simbolo che in qualche modo ricorda la Massoneria.


Un'abbazia molto antica purtroppo devastata da un terribile terremoto che colpì la zona nel 900 lasciandola in rovina. 
Venne ricostruita successivamente secondo diversi documenti, dal monaco Teobaldo nell'XI secolo il quale ricorderebbe le pessime condizioni su cui versava la chiesa, definendola "piccola e oscura" (il monaco è rappresentato in un affresco all'interno mentre tiene in mano la chiesa con torre campanaria e portico).


E' ben visibile un campanile a base quadrata esteso su tre piani suddivisi a scalare da monofore, bifore e trifore, soluzione architettonica con l'obiettivo sia di snellire il peso della struttura sia a creare lo slancio per via dell'apertura delle finestre mano a mano che si raggiunge il cielo.


La facciata in pietra bianca locale è in stile romanico e conserva alcuni bassorilievi interessanti. 
Sull'architrave del portale laterale due felini si affrontano, invece sull'archivolto si presentano due ghiere decorate a palmette in stile orientale. 
Sulla porta d’ingresso sono presenti alcuni fiori in altorilievo.


L'interno è a tre navate culminanti in tre absidi, è presente un bellissimo pavimento a mosaico eseguito da alcune maestranze cosmatesche del 1200. 
Interessante l'ambone ricco di bassorilievi di animali e vegetali. 
E' ben visibile un grifo dalla cui bocca esce uno stelo culminante in due rose e accanto due uccelli che beccano un frutto.
 Nella fascia sottostante figure zoomorfe reali o immaginarie tipiche del bestiario medievale.








Accanto all'abbazia fanno misteriosa presenza alcune tombe rupestri dal fascino antico e enigmatico.
 Completamente immerse nella vegetazione e caratterizzate da alcuni tratti di sorgenti, risalirebbero al VIII-IX secolo, ma tutt'oggi ancora adagiate nel silenzio interrotto solo dal rumore dell'acqua e degli animali del bosco.
 Quattro piccole nicchie aprono le pareti rocciose, una cappella aveva lo scopo di rendere questo luogo ancora più sacro. Avrebbero ospitato i corpi dei monaci seppelliti qui, in un luogo incontaminato, dove avrebbero pregato per l'eternità.

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