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giovedì 30 aprile 2015

Déjà vu: una sbirciatina negli universi paralleli?


Chi di noi non ha mai sperimentato, almeno una volta, il curioso fenomeno del déja vu, quella strana sensazione di aver già vissuto una certa esperienza, senza ricordare il luogo e il tempo?
 Può capitare di trovarsi in un posto assolutamente nuovo e avere l’impressione di esserci già stati prima.
 Cosa genera questa particolare condizione della nostra percezione? 
In passato, questa curiosa sensazione è stata attribuita a tutto, dai fenomeni paranormali ai disturbi neurologici. 
 Negli ultimi anni, è cresciuto l’interesse degli scienziati per questo singolare fenomeno, facendo emergere una serie di teorie sull’origine del déjà vu e stabilendo che non si tratta semplicemente di un problema tecnico nel sistema mnemonico del nostro cervello, ma di qualcosa di più profondo.
 Gli psicologi hanno suggerito che il déjà vu potrebbe verificarsi quando gli aspetti emotivi e cognitivi di una certa situazione, sono simili a quelli di episodi già vissuti in precedenza. Tutte le informazioni accumulate nel corso della nostra esistenza, potrebbero generare quella particolare sensazione di familiarità tipica del déjà vu.
 C’è anche chi si è spinto in spiegazioni alternative molto più esotiche, come associare il déjà vu a certe capacità profetiche, oppure al ricordo di una vita precedente o alla chiaroveggenza. 

Qualunque sia la spiegazione, il déjà vu è certamente un fenomeno universale che riguarda la condizione umana e, nonostante le numerose teorie, la causa della sua origine è ancora un mistero. 
 Ma c’è un fisico teorico, il dott. Michio Kaku, conosciuto dalla maggior parte delle persone per la sua attività di divulgatore scientifico e per le sue teorie che certamente travalicano i confini delle fisica tradizionale, che ha proposto un’interessante connessione tra il fenomeno del déjà vu e l’esistenza degli universi paralleli.


Il dott. Kaku è impegnato da anni nello studio della Teoria delle Stringhe, secondo la quale il tessuto fondamentale dell’Universo è costituito da oggetti ad una dimensione, simili a stringhe o membrane, in vibrazione: in base alla tensione e alla frequenza di vibrazione verrebbero prodotte e sostenute le particelle elementari. 

Una delle conseguenze matematiche dalla Teoria delle Stringhe è che il mondo che conosciamo non è completo. Oltre le 4 dimensioni con cui abbiamo familiarità (il tempo e lo spazio tridimensionale), esisterebbero altre sei dimensioni spaziali extra, presenti in forme geometriche invisibili in ogni singolo punto nell’universo.
 Queste dimensioni extra potrebbero avere migliaia di forme possibili diverse, ognuna teoricamente corrispondente ad un universo con le proprie leggi fisiche: questi vengono definiti Universi paralleli.

 Secondo il dott. Kaku, la fisica quantistica afferma che c’è la possibilità che il déjà vu sia causato dalla nostra capacità di saltare da un universo all’altro! 
 Per fondare meglio la sua teoria, Kaku cita il lavoro del prof. Steve Weinberg, il famoso fisico teorico, vincitore del premio Nobel, che sostiene l’idea del Multiuniverso.
 Secondo Weinberg, esiste un numero infinito di realtà parallele che convivono con noi “nella stessa stanza”.
 E’ un po' come le centinaia di onde radio differenti che sono trasmesse intorno a noi, ogni giorno, da stazioni lontane.
 In ogni istante, il nostro ufficio, la nostra casa o le nostre auto sono avvolte da questo flusso ininterrotto di onde radio.
 Se abbiamo lo strumento giusto, una semplice radiolina, abbiamo la possibilità di ascoltare una sola frequenza alla volta, questo perché tutte le frequenze non sono in fase tra loro.


Ogni stazione trasmette il proprio segnale a una frequenza diversa, con un’energia diversa.
 Il risultato è che la radiolina può captare una sola frequenza alla volta. 
Allo stesso modo, nel nostro universo noi siamo sintonizzati sulla frequenza che corrisponde alla realtà fisica. Ma ci sono un numero infinito di realtà parallele che esistono attorno a noi, “trasmesse” ad una frequenza differente dalla nostra e con le quali noi non possiamo sintonizzarci. 
 Mentre la radiolina è sintonizzata per catturare una certa frequenza e quindi una sola stazione radio alla volta, il nostro universo è composto di “stringhe” che vibrano ad una frequenza unica che i nostri sensi riescono a percepire.
 Gli universi paralleli non sono “in fase”, cioè non vibrano alla stessa frequenza. Ma quando sono “in fase” è teoricamente possibile “saltare da un universo a un altro”. 
 Quindi, anche se incerto, potrebbe essere possibile che quando si verifica un déjà vu, o un universo parallelo è entrato in fase per una frazione di tempo, permettendoci di dare una sbirciatina, oppure il “nostro ricevitore”, per una ragione impossibile da determinare, si è sintonizzato alla giusta frequenza permettendoci di gettare uno sguardo in una realtà parallela.
 Dunque, le nostre esperienza di déjà vu potrebbero essere una finestra aperta su un universo parallelo!

 Fonte: ilnavigatorecurioso.it

Scoperto mercurio liquido sotto una piramide messicana: potrebbe portare alla tomba del re


Il ricercatore messicano Sergio Gómez ha annunciato di aver scoperto “grandi quantità” di mercurio liquido in una camera sotto la Piramide del Serpente Piumato, la terza più grande piramide di Teotihuacan, la città in rovina, nel centro del Messico .
 Gómez ha passato sei anni a scavare lentamente nel tunnel, che è stato aperto nel 2003 dopo 1800 anni. 

Lo scorso novembre, Gómez e un team di archeologi hanno annunciato di aver trovato tre camere a 90 metri dalla fine del tunnel, quasi circa 20 metri sotto il tempio.
 Vicino all’ingresso delle camere, è stato ritrovato un tesoro costituito da strani reperti: statue di giada, i resti di un giaguaro, una scatola piena di conchiglie intagliate e palle di gomma.


Lentamente si sono aperti la strada nel largo, scuro e profondo corridoio sotto la piramide, combattendo l’umidità e ora saranno anche costretti a indossare indumenti protettivi contro i pericoli di avvelenamento da mercurio, infatti Gómez e il suo team stanno meticolosamente esplorando le tre camere. 
 Il mercurio è tossico e in grado di devastare il corpo umano attraverso l’esposizione prolungata; il metallo liquido non aveva alcuno scopo pratico apparente per gli antichi Mesoamericani, ma è stato scoperto anche in altri siti. 
Rosemary Joyce, un professore di antropologia presso l’Università Berkeley della California, ha detto che gli archeologi hanno trovato il mercurio in altri tre siti, due Maya e uno Olmeco, nel territorio dell’America Centrale.
 Gómez ha rivelato alla Reuters che il mercurio potrebbe essere un segno che la sua squadra è vicina a scoprire la prima tomba reale mai trovata a Teotihuacan dopo decenni di scavo e secoli di mistero che circondano la città, criptica, ma ben conservata.
 Il mercurio potrebbe anche simboleggiare un fiume sotterraneo o un lago, ha dichiarato Gómez, un’idea che assonava con quanto affermato da Annabeth Headreck, professore presso l’Università di Denver e autore di opere in Teotihuacan e l’arte mesoamericana. 
 Le qualità riflettenti e luccicanti del mercurio liquido possono assomigliare ad “un fiume sotterraneo, non molto diverso dal fiume Stige,” ha dichiarato Headrick, “se solo si pensi al simbolismo dell’ingresso al mondo soprannaturale e l’ingresso agli inferi”. 
Gli specchi sono stati considerati un modo di guardare al mondo soprannaturale, erano un modo per indovinare ciò che sarebbe potuto accadere in futuro”. Joyce ha detto che gli archeologi sanno che le pietre scintillanti hanno da sempre affascinato gli antichi popoli in generale, e che il mercurio liquido potrebbero essere stato considerato “un po‘magico … e non per scopi rituali o scopi simbolici.” 
Headrick ha detto che il mercurio non era l’unico oggetto di fascino: “un sacco di oggetti rituali riflettenti sono stati fabbricati con la mica”, un minerale probabilmente importato nella regione. 

Nel 2013 gli archeologi con un robot avevano trovato delle sfere metalliche che avevano soprannominato “palle da discoteca” in una porzione non-scavata del tunnel, nei pressi di alcuni specchi di pirite. 

«Vorrei poter capire l’utilizzo di tutte le cose che questi ragazzi stanno trovando laggiù,” ha dichiarato Headrick, “ma sono oggetti unici e per questo è difficile.” 
L’acqua era anche preziosa per molte delle persone della Mesoamerica, che erano a conoscenza di sistemi idrici sotterranei e laghi che potrebbero essere accessibili attraverso grotte.
 Joyce ha detto che gli antichi Mesoamericani avrebbero potuto produrre mercurio liquido dal riscaldamento del minerale di mercurio, noto come cinabro, che usavano anche per il pigmento rosso sangue.
 I Maya usavano il cinabro per decorare gli oggetti di giada e colorare i corpi dei loro regali; gli abitanti di Teotihuacan, per i quali gli archeologi non hanno concordato su un nome preciso, non hanno lasciato alcuna reale evidenza per poter confermare gli studi.
 

La scoperta di una tomba potrebbe contribuire a risolvere l’enigma di come Teotihuacan sia stata governata, e Joyce ha detto che la concentrazione di manufatti al di fuori delle camere nel tunnel potrebbe essere associata ad una tomba, o ad un insieme di camere rituali.
 Una tomba reale potrebbe dare credito alla teoria che la città, che fiorì tra il 100-700 AD, era governato da dinastie alla maniera dei Maya, ma con un tocco molto meno evidente per l’auto-glorificazione. 
 Per ora, gli archeologi e gli antropologi continuano a scavare e dedurre.
 Gomez dice che spera che lo scavo delle camere possa essere completato entro ottobre, e Headrick ha detto che gli archeologi stanno guardando la città da nuove angolazioni. 
Alcuni stanno cercando di decifrare le pitture e i geroglifici intorno alla città, altri cercando di analizzare quello che potrebbe essere un sistema di scrittura, senza verbi o di sintassi. 
Poi ci sono le migliaia di reperti, alcuni inediti e bizzarri, che Gomez e i suoi compagni stanno dissotterrando da sotto la piramide. 

 Da: blueplanetheart.it

mercoledì 29 aprile 2015

Virgilio il Mago


Il discorso sull'esoterismo a Napoli si fa molto interessante nel Medioevo normanno e angioino, quando si sviluppò, e vi trovò enorme credito, la teoria di Virgilio il Mago.

 I rapporti del grande poeta latino con Neapolis sono moltissimi; la città che ancora ne onora la tomba nel parco di Fuorigrotta che porta il suo nome, presenta due diverse direttrici "d'amore": quella colta che riguarda la sua prestigiosa opera letteraria, e quella popolare che lo venera quale Mago- Salvatore della città stessa; il "Liberatore" da varie iatture come, ad esempio, invasione di insetti o serpenti, con l'ausilio di particolari "incantesimi". 

La testimonianza più affascinante di questa "credenza" resta il nome di "Castel dell'Ovo" alla turrita struttura dell'isolotto di S. Salvatore, la greca Megaride, unita in seguito alla costa (artificialmente) dal Borgo Marinaro.


In effetti l'origine del nome resta alquanto misteriosa se non si analizza bene il "nome" stesso. 
 Per prima cosa gli studiosi di alchimia sanno che il termine uovo o meglio uovo filosofico è il nome "esoterico" dell' Athanor, il piccolo forno chiuso, il matraccio di metallo o di un particolare vetro nel quale avveniva la lenta trasmutazione degli elementi primari - zolfo e mercurio - in metallo "prezioso", L'oro alchemico. Operazione iniziatica che definiva, in effetti, una profonda mutazione dello spirito e dell'intelligenza dell'operatore.

 A Napoli, nel periodo medioevale, fiorisce una grande scuola ermetica che si occupa di alchimia. 
I processi di "liquefazione", "soluzione" e "calcinazione" sono favoriti da una particolare terra vulcanica offerta dal Vesuvio mentre la distillazione dell'acqua marina era ritenuta l'unico surrogato alla rugiada raccolta nella notte - l'acqua degli alchimisti - che doveva possedere un grado altissimo di "purezza cosmica". 

Megaride divenne presto, già nell'età classica, rifugio di eremiti che occuparono le piccole grotte naturali ed i ruderi delle costruzioni romane della grande domus luculliana che dalle pendici di Pizzofalcone giungeva all'isolotto di Megaride.


I monaci Basiliani riutilizzarono poi le possenti colonne romane per ornare la sala del loro "cenobio", come ancora si può notare visitando Castel dell'Ovo. 

E' noto che molte ricerche alchemiche avvenivano celate ai più proprio nel segreto di alcuni monasteri medievali ed è confermata la presenza sull'isolotto di monaci alchimisti. 
In un antico documento, si legge di un antico amanuense che aveva speso tutta la sua esistenza "... nello studio e nella trascrizione di Virgilio...". E le continue e appassionate ricerche operate da studiosi hanno testimoniato più volte la profonda "cultura virgiliana" della classe colta e religiosa napoletana tra il Medioevo angioino e il Rinascimento aragonese.
 Infatti si è già accennato a quell'amore particolare dei napoletani per il poeta mantovano.

 Virgilio, narrano molte cronache medioevali napoletane, entrò nel castello di Megaride e vi pose un uovo chiuso in una gabbietta che fece murare in una nicchia delle fondamenta, avvisando che alla rottura dell'uovo tutta la città sarebbe crollata.
 Altre versioni parlano di un uovo sigillato in una "caraffa" di cristallo sempre murata in un luogo segreto del castello con la stessa raccomandazione.


Così nasce il nome di "Castel dell'Ovo" che l'isolotto ha sempre conservato, e lo si evince sia dagli scritti antichi che da una radicata tradizione orale.

 L'ipotesi che ne deriva è questa: Virgilio apprende il metodo di "distillazione" da un seguace dei misteri orfici ancora operante nella campagna napoletana e si procura un recipiente adatto per distillare ed operare nel segreto di "laboratori" ospitati in ville patrizie di nobili che, ottemperando al volere di Mecenate Ottaviano, renderanno al Mantovano del tutto sereno il soggiorno napoletano. 
 Virgilio, che ha studiato proprio a Napoli alla scuola del epicureo Sirone ed ha nel cuore Esiodo e Lucrezio, si addentra sempre di più nella conoscenza segreta della natura iniziandosi ai culti di Cerere e Proserpina allora vivissimi a Neapolis.

 Ma allora Virgilio è veramente un "mago" prealchimista? 
 Perché Dante Alighieri, il più "iniziato" dei nostri poeti, affiliato per sua stessa ammissione alla setta dei Fedeli d'Amore a Firenze, iscritto alla corporazione de' medici e speziali che ha lasciato il più eccelso ed inquietante libro "esoterico" nella immortale Commedia, ha voluto come "guida" proprio Virgilio? 

 Di certo Napoli l'amò moltissimo, e lo ritenne prima di S. Gennaro protettore a tutto tondo tant'è che, anche se morto a Brindisi nel 19 a.C., onora da sempre la "tomba" napoletana.


Fonte: tanogabo.it

Il drago di Komodo


Nel XIX secolo i marinai e i pescatori delle isole di Flores e Sumbawa narravano spesso storie fantastiche di uomini e animali assaliti e sbranati da grandi draghi che vivevano nella piccola isola di Komodo, un lembo di terra caratterizzato da una superficie di appena 600 chilometri quadrati e situato nell'Arcipelago della Sonda.
 D'altra parte, molti dei nativi delle due isole indonesiane erano così sicuri dell'esistenza dei giganteschi draghi – o "Boeja darat", cioè coccodrilli di terra – che non avevano nemmeno il coraggio di approdare sulle coste di Komodo. 

 Evidentemente un fondamento di verità esisteva nelle "leggende" raccontate dagli abitanti di Flores e Sumbawa, e ciò indusse Peter A. Ouwens, direttore del Giardino botanico di Buitenzorg (Giava), a organizzare nel 1912 una spedizione nell'isola stessa, con l'intento primario di osservare e catturare qualche esemplare del mitico rettile che tanto timore incuteva alle popolazioni locali.
 Ouwens riuscì nell'impresa: le sue minuziose ricerche, condotte in varie località di Komodo, gli fruttarono infatti quattro individui del supposto drago. 
Questo era in realtà un varano di dimensioni imponenti e apparteneva a una specie nuova per la scienza, cui fu assegnato appunto il nome di Varanus komodoensis.
 Il clamore suscitato negli ambienti scientifici dalla notizia relativa alla scoperta del drago di Komodo fu grande, e nel 1926 anche lo staff del Museo di Storia Naturale di New York decise di organizzare una spedizione a Komodo, al fine di studiare la biologia del grande varano e di catturare alcuni esemplari della specie medesima.
 La spedizione - a cui parteciparono Dunn, uno dei più noti erpetologi degli Stati Uniti, il cacciatore indocinese Defosse, il quale aveva il compito di prendere i varani utilizzando delle trappole particolari, e la fotografa Burden - fu autorizzata e appoggiata dal governo olandese, che in quegli anni reggeva amministrativamente le isole dell'Arcipelago della Sonda, e permise di compiere tutta una serie di osservazioni originali sull'ecologia e sull'etologia della specie.
 Grazie alla cattura di dodici esemplari morti e due vivi, fu inoltre possibile intraprendere studi approfonditi sull'anatomia e sulle caratteristiche morfologiche e cromatiche del gigantesco sauro della piccola isola indonesiana.


Il Varano di Komodo o Drago di Komodo è il più grande sauro vivente e può raggiungere lunghezze superiori ai due metri. Morfologicamente assimilabile a una lucertola di grandi dimensioni, ha la lingua biforcuta, la pelle squamosa tendente all'azzurrognolo, è carnivoro e molto aggressivo. 
 Questa specie, come suggerisce il nome, vive principalmente sull'isola di Komodo, in Indonesia, e in altri arcipelaghi vicini. Questo enorme rettile è il più grande quadrupede squamato e misura mediamente 2,5-3 m di lunghezza e arriva a pesare anche 100-135 kg.
 L'esemplare più grande conosciuto misurava 3,13 m di lunghezza e pesava quasi 166 kg.
 Questo animale carnivoro si nutre anche di uova, che spesso razzia dai nidi di altri rettili, come i coccodrilli. Può vivere fino a 30 anni. Per attaccare e divorare le loro prede, e cioè i cervo rusa e i suini selvatici, i draghi di Komodo si servono delle fortissime unghie ricurve e dei robusti denti con margine posteriore seghettato. 
La tattica tipica di caccia consiste nel mordere la preda ed attendere che questa muoia nel giro di poche ore.
 Le modalità con cui avviene la consumazione del pasto sono estremamente interessanti: dopo aver ucciso un grande mammifero, il gigantesco rettile comincia a divorarlo a partire dalla regione anale, affondando ripetutamente i denti aguzzi nel corpo della vittima e strappando con forza grandi brani di carne; in un secondo tempo il varano apre la gabbia toracica del mammifero e ne divora completamente il contenuto. 
Terminato il banchetto, al quale spesso partecipano diversi individui, ciò che rimane della preda è soltanto una carcassa interamente svuotata..


Il Varano di Komodo ha costantemente una lingua di color rosso-sangue, colorazione dovuta alla naturale lacerazione dei tessuti gengivali durante la masticazione. 
Ciò crea una coltura ideale per germi patogeni, pericolosi in caso di infezioni conseguenti ai morsi, morsi particolarmente penetranti in virtù del fatto che sono tesi a sbranare le prede anziché ingoiarle intere come la maggior parte dei rettili.
 Questa, almeno, la ricostruzione tipica del comportamento dei Draghi di Komodo sino ad oggi, quando alcuni ricercatori dell’Università di Melbourne si sono presi la briga di analizzare il veleno che secernono le loro ghiandole. 
 La scoperta è sensazionale: ad uccidere le prede dei Draghi non sono solo le ferite cagionate da artigli e denti aguzzi, ma anche un veleno dalla tossicità sinora sconosciuta.
 Utilizzando alcune strumentazioni medicali per la diagnosi per immagini, un gruppo di ricercatori guidato da Bryan Fry (University of Melbourne) ha scoperto che il Varanus komodoensis, ha il più complesso apparato ghiandolare per la produzione del veleno finora riscontrato nei rettili, un sistema molto simile a quello adottato da uno dei suoi discendenti più prossimi: il Megalania prisca, l’animale velenoso più grande mai vissuto estintosi circa 40mila anni fa.
 Combinando le due caratteristiche, il Varano di Komodo riesce infatti a ridurre al minimo il numero di contatti con la propria preda, una condizione fondamentale per poter cacciare anche animali con una stazza fino a 10 volte superiore alla sua. 
 Il varano affonda rapidamente i propri denti nella carne della preda e contemporaneamente rilascia il veleno, che contribuisce a peggiorare le condizioni della ferita e a immobilizzare il malcapitato animale.
 Le tossine che lo compongono sono in grado di far abbassare la pressione delle prede causando una dilatazione dei loro vasi sanguigni e portandole così al collasso. 
Tale caratteristica sembra confermare le numerose osservazioni finora compiute sulle battute di caccia del Varano di Komodo.
 Una volta ferite, le prede del varano generalmente non si dimenano e diventano insolitamente calme. Tale comportamento è compatibile con un collasso dovuto a un crollo della pressione sanguigna. 
Gli animali feriti dal varano tendono inoltre a perdere molto rapidamente il loro sangue, un’altra caratteristica compatibile con la composizione del veleno di questo spietato rettile, che contiene alcune tossine anticoagulanti e dunque utili per fluidificare il sangue impedendo la cicatrizzazione dei tessuti feriti nelle prede.

 A causa della caccia intensa cui sono stati sottoposti dall'uomo, molti dei mammiferi predati dal drago di Komodo sono oggi rappresentati, in tutte le isole abitate dal rettile in questione (Komodo, Rinca, Padar, Gili Mota, Owadi Sami e Flores), da popolazioni di modeste dimensioni. 
Ovviamente, la rarefazione delle prede ha inciso in maniera estremamente negativa sulla consistenza numerica delle popolazioni di questo varano, tanto che attualmente si pensa che nelle isole indonesiane precedentemente citate non siano presenti più di 6000 esemplari della specie.
 La situazione è particolarmente grave a Padar e nella parte occidentale di Flores: in queste isole, infatti, gli incendi provocati dall'uomo per distruggere vaste aree di savana e la massiccia presenza di cani randagi, unitamente alla scomparsa dei grandi mammiferi, hanno causato in anni recenti il rapido ed allarmante declino delle locali popolazioni di drago di Komodo. 

 Essendo in pericolo di estinzione, la specie - inclusa nella Appendice I della Convenzione di Washington (CITES) e, dal 1975, nel Red Data Book compilato dall'IUCN - è oggi rigidamente protetta in tutti i territori insulari ricordati in precedenza, grazie anche all'Ordinance on the Protection of Wild Animals del governo indonesiano.
 Due delle sei isole abitate da tale entità (Rintja e Padar) sono state inoltre dichiarate riserve naturali, e quindi dovrebbero essere, per il futuro, integralmente "esenti" da scompensi faunistici provocati dall'uomo.


L'accoppiamento avviene tra maggio e agosto, le uova sono deposte a settembre.
 La femmina depone le uova nel terreno o in buchi negli alberi.
 Il nido contiene normalmente 20 uova che hanno un periodo di incubazione di 7 mesi ed è sorvegliato dalla madre. Tuttavia dopo la nascita il cucciolo è senza difese per cui la mortalità infantile è molto alta.
 Generalmente i primi anni di vita del Drago di Komodo li passa tra gli alberi (2 anni circa) dove ha più possibilità di sopravvivere.
 Il drago di Komodo raggiunge la maturità sessuale dopo cinque anni. 
Recentemente è stata dimostrata la partenogenesi facoltativa del drago di Komodo.
 In Inghilterra infatti una femmina di varano tenuta in cattività in uno zoo inglese si è riprodotta in questo modo, cioè senza l'ausilio del seme maschile.

 Fonte: http://criptosito.altervista.org/

martedì 28 aprile 2015

Come i lupi divennero cani


La storia che ci lega al migliore amico dell'uomo è ancora ricca di misteri da sciogliere. 
Quando si parla di domesticazione dei cani, la comunità scientifica si divide su dove questo processo possa essere avvenuto per la prima volta, e quando sia iniziato. 
Su un punto, però, si sta ora facendo chiarezza: ossia su come l'uomo e il cane divennero amici.
 Un articolo pubblicato sul sito di Science riassume le ultime scoperte in materia. 
Per molti decenni si credette che i primi cani entrarono nella storia dell'uomo quando i nostri antenati decisero di portare cuccioli di lupo nei loro accampamenti, nutrendoli e allevandoli. 
 L'ipotesi, formulata nel 1907 dallo scienziato britannico Francis Galton, non teneva tuttavia conto del fatto che la domesticazione è un processo che richiede centinaia, se non migliaia di anni. Nonostante le cure, quei cuccioli di lupo crescendo si sarebbero inevitabilmente riaffermati nella loro natura.

 Come nacque allora il legame speciale tra uomo e cane?
 Gli esperti sembrano oggi prevalere per l'ipotesi dell'auto-domesticazione. 
I primi uomini lasciavano pile di carcasse di ossa animali al limitare dei loro insediamenti: un bottino che doveva certo far gola ai lupi più audaci, capaci di avvicinarsi all'uomo senza timore. Questi esemplari, ben nutriti, vissero più a lungo e generarono più cuccioli.


Di generazione in generazione, il coraggio divenne un tratto evolutivo di successo, che spinse alcuni lupi ad arrivare a mangiare dalla mano dell'uomo. 
Fu a quel punto che iniziammo una fase più attiva della domesticazione: i lupi più conosciuti vennero integrati negli insediamenti umani e usati come guardiani, compagni di caccia, pastori. 
 Uno studio dell'Università di Aberdeen (Scozia) condotto in collaborazione con musei, università e collezioni private di tutto il mondo ha permesso di comparare centinaia di antichi scheletri di lupi e cani, rivelando nelle ossa canine alcuni indizi della avvenuta domesticazione.
 Per esempio, l'appiattimento delle punte delle vertebre dorsali dei cani, che suggerisce che gli animali portassero carichi sul loro dorso. O ancora, la mancanza di coppie di molari nella mascella inferiore, forse legata all'uso di briglie con cani-lupo con compiti di traino.
 Questa forma di aiuto risultò cruciale per la sopravvivenza dei nostri antenati. E il legame con i cani non fece che rafforzarsi ulteriormente. 
Uno studio giapponese pubblicato proprio in questi giorni su Science rivela l'arma definitiva che i cani utilizzarono per fare breccia nei cuori umani: l'ossitocina.


Eterna amicizia: scheletri umano e canino ritrovati in una casa di 12 mila anni fa, in Israele.

 Secondo Takefumi Kikusui, etologo dell'Università di Azabu a Sagamihara, Giappone, i cani sarebbero riusciti a fare proprio un meccanismo tipico del legame tra madri e figli: quello per cui, fissandosi negli occhi, si stimola la reciproca produzione di ossitocina, un ormone che rafforza la reciproca fiducia ed empatia e aiuta a capirsi anche in assenza di una comunicazione verbale. Questa capacità avrebbe aiutato i cani a legare con gli esseri umani, e sarebbe uno dei motivi che ci spinge a definirli ancora oggi parte integrante della famiglia. 
 E la storia della domesticazione dei cani, concludono gli scienziati, rivela molto più della semplice origine di questi animali: narra il quadro più complesso dell'origine della civiltà umana e dell'intelligenza sociale. 

 Fonte: focus.it

Buddha gigante di Leshan: un bellissimo esempio della millenaria storia della Cina


Buddha gigante di Leshan (乐山大佛, Lèshān Dàfó) , alto ben 71 metri e con le spalle larghe 28 metri, è il più grande del mondo. 

Venne scolpito sul lato di una scogliera a picco sulla confluenza dei fiumi Minjiang, Dadu e Qingyi durante la dinastia Tang e sin dal 1996 è protetto dall’Unesco come patrimonio mondiale dell’umanità. 

La costruzione del Buddha gigante iniziò nel 713 d.C, frutto dell’idea di un monaco cinese di nome Hai Tong, che sperava che la statua avrebbe fatto calmare le turbolente acque che tormentavano le navi da trasporto che viaggiavano lungo i fiumi.
 Si narra che quando il governo ridusse i finanziamenti del progetto, il monaco si cavò gli occhi per mostrare la sua sincerità… ma la costruzione dell’opera fu continuata dai suoi discepoli e completata dal governatore locale nell’803.






Pare che la massa rocciosa rimossa per la costruzione del Buddha e depositatasi nel letto dei fiumi, abbia effettivamente alterato il corso delle acque, rendendo la navigazione più sicura. 

Conosciuta anche come Dafo, la statua raffigura un Buddha Maitreya, predicatore del dharma, seduto con le mani appoggiate sulle ginocchia, mentre sorveglia i fiumi. 
Tanto per rendere l’idea delle sue dimensioni: le orecchie misurano 7 metri di lunghezza, i capelli sono un insieme di un migliaio di panini ed ogni piede è lungo 11 metri.
 Di fronte all’imponente statua si ha la sensazione di avere davanti a sé uno dei pezzi fondamentali che compongono l’immenso puzzle che è la millenaria storia della Cina. 
Raggiungerla è impervio: il percorso che porta al monumento costeggia la montagna e può essere fatto solo con autobus. Tuttavia, i turisti meno avventurosi, potranno ammirare il Buddha dal fiume visto che di certo, data la sua mole, è visibile a notevole distanza. 
Immersa in un’atmosfera rilassante, a tratti mistica, la statua è assolutamente imperdibile! 


 Fonte: meteoweb.eu

lunedì 27 aprile 2015

Lo champagne invecchiato 170 anni


Nel 2010, a 50 metri di profondità al largo delle isole Åland (Finlandia), fu individuato un relitto affondato nel Mar Baltico intorno al 1840: portava con sé un carico di decine di bottiglie champagne ritrovate intatte. 
A distanza di anni, un team di ricercatori ci rivela che anche il contenuto alcolico risulta ancora in ottimo stato, sebbene il gusto sia un po' diverso da quello che siamo abituati a stappare oggi nelle occasioni importanti.

 I risultati della singolare "degustazione" sono stati pubblicati su PNAS, permettendo anche di ricostruire alcune pratiche enologiche del passato.
 Il tesoretto scoperto sul fondo del mare includeva 168 bottiglie di tre storiche case produttrici di champagne, Veuve Clicquot Ponsardin (VCP), Heidsieck (oggi Piper-Heidsieck) e Juglar (quest'ultima assorbita da Jacquesson & Fils nel 1829). 

Oltre a questi i cimeli, i sommozzatori riportarono alla luce anche della birra, finita anch'essa sotto la lente di ingrandimento di una seconda equipe di ricercatori.






Uno stock di 11 vini fu anche messo all'asta nel 2012, raccogliendo offerte per più di 150mila dollari.
 Gli esperti sommelier descrissero il nettare biondo come "piccante", forse perché, nonostante i tappi fossero rimasti al loro posto, il riposo ultracentenario aveva causato la perdita di gran parte dell'anidride carbonica: al posto delle note bollicine si poteva quindi solo percepire un lieve formicolio sulla lingua.


Per condurre la propria ricerca gli scienziati (prevalentemente francesi) non si sono ovviamente affidati alle sole papille gustative, ma hanno puntato su una serie di tecniche di laboratorio che hanno consentito di confrontare lo "champagne baltico" con quello prodotto attualmente da Veuve Clicquot Ponsardin. 
Il responso è stato che lo spumante ottocentesco contiene elevate concentrazioni di ferro e rame, ha una minore gradazione alcolica rispetto alle versioni odierne (circa 9,5% invece che 12,3%) e ha un sapore molto dolce.
 Se le prime due caratteristiche dipendono da alcune differenze tecniche nella pratica di vinificazione (ad esempio la bassa gradazione deriva probabilmente dall'uso di lieviti meno selezionati rispetto a quelli moderni), per quanto riguarda l'alto contenuto zuccherino si tratterebbe invece di una scelta ben ponderata, che rispecchia i gusti dell'epoca.
 Nei campioni è stata registrata una concentrazione di zucchero di oltre 140 grammi per litro: per avere un metro di paragone, oggi negli spumanti dolci più comuni il valore si aggira sugli 80 grammi per litro. 

 Secondo le ricostruzioni storiche, il carico ultracentenario era destinato alle ricche famiglie della Germania, dove questo tipo di gusto era particolarmente apprezzato. 
 Lo stato di conservazione delle bottiglie è stato favorito dal buio e dalla temperatura costantemente fresca delle acque del Mar Baltico. 

Le condizioni ideali hanno incuriosito Veuve Clicquot Ponsardin, che lo scorso anno ha inviato alcuni dei suoi vini spumanti proprio in fondo al mare, vicino a dove è stato ritrovato il relitto.
 Con questo esperimento, l'azienda ha intenzione di verificare se il ritrovamento dello champagne ottocentesco non abbia involontariamente aperto le porte a un nuovo e inusuale metodo di invecchiamento. 

 Fonte: focus.it

Furore (Sa): ecco perché visitare il paese che non c'è almeno una volta nella vita


Nell'Italia del Sud, tra le perle della Costiera amalfitana, c'è un posto lontano dalla vista dei più. 
Furore, un borgo di neanche mille abitanti, si staglia verso il basso, giù in direzione del mare, e solo il viaggiatore più attento può scorgerne l'originalità, distante dalla classica strada panoramica. 

Non ci sono piazze principali, ma solo sentieri e scale che un tempo portavano al villaggio dei pescatori, mai visibile dalla costa, in modo che Furore è rimasta praticamente nascosta agli occhi del viandante di passaggio. 
Perché, allora, vale la pena visitare un "paese che non c'è"? Perché si possono fare escursioni a contatto con la natura, perché c'è un Ecomuseo che ne racconta la storia, perché c'è un Fiordo e altri valloni che vale la pena ammirare per tutte le caratteristiche messe insieme, perché si mangia bene e c'è un ottimo vino.


Il "Fiordo" o vallone di Furore è più che altro una netta e profonda spaccatura nella roccia, che si è formata dal lavoro di un torrente quasi sempre secco, lo Schiato, che scende a picco dal bordo dell'altopiano di Agerola. 
Qui le rocce a strapiombo e la vegetazione che vive lungo le pareti, le case ricavate nel suolo e i murales colorati che affrescano la case stesse e gli edifici pubblici, la fanno da padroni. E non è difficile rimanerne estasiati.


Nel fiordo si trovano poi lo Stenditoio, un tempo usato per asciugare i fogli di carta estratti dalle fibre di stoffa, e la Calcara, adibita alla lavorazione delle pietre per l'edilizia locale.
 In più, il fiordo è scavalcato dalla strada statale attraverso un ponte sospeso alto 30 metri, dal quale, ogni estate, si svolge una tappa del Campionato Mondiale di Tuffi dalle Grandi Altezze. 
Chi ha tanta energia e il gusto di stare a contatto con la natura, può approfittare di una delle tante escursioni che si possono fare tra canali, chiuse, grotte preistoriche e vigne.
 Chi, invece, ama conoscere il bello più comodamente, deve fare tappa all'Ecomuseo, con Mulini e Cartiere trasformate in musei, un erbario con l'esposizione delle essenze vegetali più preziose dell'area, un piccolo osservatorio astronomico e molto altro.






La visita a questo originale luogo della provincia di Salerno vale il tempo di una giornata. 
La durata giusta per portarselo nel cuore per parecchio tempo. 

 Germana Carillo

Il glicine, il fiore dell'amore


Una pianta di origini orientali che approdò in Inghilterra nel 1816 grazie al capitano Robert Welbank, che la portò attraverso il mondo su di un carico mercantile della flotta della compagnia delle indie orientali. 
Arrivò negli Stati Uniti dopo il 1830, dove era già stata catalogata dal Dott. Caspar Wistar (1761-1818), professore di anatomia all’Università di Pennsylvania [da qui il nome Wisteria].


Uno dei primi esemplari importati da Welbank è ancora vivo , si trova al Kew Gardens di Londra ed è anche uno dei glicini più grandi e spettacolari del mondo.
 Anche se il glicine che detiene il record mondiale per la sua straordinaria fioritura cresce a Sierra Madre, in California: al culmine della fioritura raggiunge il milione e mezzo di fiori con un peso totale di 250 tonnellate.
 Questa pianta straordinaria è una delle sette meraviglie vegetali e ogni anno, dal 1918, migliaia di persone si riuniscono per festeggiarla con il Festival del Glicine. 
Ha fiori profumatissimi che vanno dal violetto al viola acceso raggruppati in grappoli, la sua crescita è caratterizzata da un costante movimento a spirale in senso orario o antiorario, e questa sua caratteristica viene associata alla coscienza umana che da un fulcro vitale interiore si espande verso l’esterno per influenzare il mondo intorno a lui.


Ai grappoli fioriti che pendono verso il basso viene spesso attribuito il significato di umiltà, sincero rispetto, supplica garbata e riflessione religiosa ed esiste una leggenda italiana che ne narra l’origine.

 La tradizione piemontese vuole che Glicine, una fanciulla che si disperava per il suo aspetto, non bello come quello delle altre giovani del suo paesino, un giorno iniziò a piangere, da sola in mezzo ad un prato, quando ad un certo punto le sue lacrime diedero vita ad una meravigliosa pianta dalla fioritura stupenda e dall’inebriante profumo, il glicine.
 Il dolce profumo che la circondava fece sentire la ragazza orgogliosa e fiera di se stessa, per esser riuscita a creare quella pianta meravigliosa. 

Nella letteratura giapponese esiste una storia narrata per la prima volta nel 1826 attraverso un balletto classico intitolato ‘Fuji Musume’ (‘La Nubile Glicine’) del teatro Kabuki.


Nella città di Otsu, affacciata sul Lago Biwa, vicino a Kyoto, un passante si sofferma a osservare uno degli innumerevoli dipinti esposti chiamati ‘Otsu-e’ e venduti come souvenir.
 Su questo quadro è dipinta una ragazza, che rappresenta l’essenza del Glicine: è abbigliata alla moda, con uno stravagante kimono (‘Nagasode’) con le maniche lunghe e con la fascia (‘Obi’) che riprende l’immagine del fiore, secondo la tradizione diffusa da secoli in Giappone.
 La ragazza raffigurata diventa infatuata a tal punto dell’uomo che la guarda attentamente da prendere vita ed uscire fuori dalla tela. Scrive lettere d’amore, ma non ottiene risposta e, danzando sotto un glicine frondoso, con un ramo in mano, esprime i sentimenti profondi che prova per l’amore non corrisposto, accompagnata dalla musica ‘Nagauta’ (‘canto a lungo’). 
Triste e disperata, rientra affranta dentro al dipinto, sotto al glicine, alla fine del balletto. 
Il pianto della ragazza esprime il dolore che prova, così il glicine diventa il fiore dell’amore perduto, ma rappresenta anche la straordinaria resistenza come vitigno, in grado di vivere e di prosperare anche in condizioni difficili, così come il cuore ha la capacità di resistere nonostante sia spezzato da un sentimento a senso unico.


Ma non si può parlare di glicine ed arte senza menzionare i sette pannelli di vetro dipinto a mano realizzati su telaio di piombo dall’artista e designer statunitense Louis Comfort Tiffany (1848-1933). 
I pannelli erano appesi per schermare, con un fregio continuo, le finestre della sala da pranzo nella sua straordinaria tenuta di campagna a Laurleton Hall, nel villaggio di Laurel Hollow, vicino a Long Island, sulla Oyster Bay, a New York, nella quale decorò superbamente le 84 stanze, e che completò nel 1905. 

Fonte: eticamente.net

Newgrange: una profusione di simboli preistorici


Accanto al fiume Boyne, in Irlanda, nel punto in cui le acque compiono un'ampia curva, un cimitero preistorico accoglie più di venticinque tombe a corridoio. 
 Nota come 'Bend of the Boyne' (Ansa del Boyne), la necropoli dà l'impressione di essere stata costruita sulla collina in modo che le tre sepolture più belle - Newgrange, Knowth e Dowth - possano dominare la fertile vallata sottostante.
 La tomba a corridoio di Newgrange è il più interessante sito preistorico irlandese: è, infatti, decorata da rilievi rocciosi d’insigne fattura. Si pone però una domanda: Newgrange era solo un sepolcro o aveva qualche altra funzione?


La tomba, saccheggiata e in rovina, fu riscoperta nel 1699, e l'antiquario gallese Edward Lhuyd (1660-1708) fu uno dei primi ad entrarvi. 
Egli scrisse:
 ’In un primo momento fummo costretti ad avanzare carponi, ma via via che proseguivamo i pilastri ai due lati diventavano sempre più alti, ed accedendo alla sala sotterranea scoprimmo che era alta una ventina di piedi. Nella sala, a destra e a sinistra, vi erano due celle o camere, e una terza si estendeva in direzione dell'entrata'. 

 Il corridoio attraverso cui Lhuyd passò è lungo più di 18 m e termina in tre stanzette contenenti tre vasche in pietra massiccia.
 Le pietre (un centinaio) che compongono l'alto tetto a modiglioni sono perfettamente bilanciate e ben salde pur in assenza di malta. In 5000 anni solo due di esse si sono rotte. 
 Una simile perfezione progettuale ed esecutiva dimostra come i costruttori di Newgrange, vissuti verso il 3250 a.C., possedessero una straordinaria perizia.

Lo sguardo del visitatore attento è attratto a Newgrange da una profusione di belle incisioni nella roccia. L'entrata è sorvegliata da una pietra percorsa da spirali e nel corridoio più di una dozzina di massi eretti sono decorati. 
Anche molti lastroni e modiglioni del tetto presentano sculture, talvolta sul lato superiore nascosto. 
All'interno, nella parte bassa di uno dei montanti, scopriamo l'incisione più bella, una tripla spirale.


All'esterno, molte delle pietre di confine sono ornate, qualche volta sulle superfici interne nascoste alla vista.
 Oltre alle spirali, altri motivi molto comuni ricorrenti a Newgrange sono le losanghe, le linee a zigzag e i cerchi. Ma, stranamente, essi non coincidono con i simboli più usati in altre tombe a corridoio irlandesi. 
 Qual è allora il loro significato?
 I primi antiquari non si curarono troppo di queste decorazioni. Thomas Molyneux, un professore di fisica del XVIII secolo che insegnava al Trinity College di Dublino, le definì 'incisioni di tipo barbaro', e molti dopo di lui le credettero semplici ornamenti.

 Più di recente, sono stati compiuti seri sforzi per scoprire il significato che si cela dietro gli effetti decorativi.
 Un ricercatore di spicco nel settore è Martin Brennan, il cui libro La visione della valle del Boyne è un'analisi delle oltre 700 pietre scolpite del luogo. 
A conclusione del suo studio, l'autore afferma che la maggioranza dei disegni registrano osservazioni astronomiche e cosmologiche e che Newgrange fu, oltre il resto, il più grande e antico orologio solare del mondo. 
'Per la popolazione della valle del Boyne', scrive Brennan, 'lo studio dei movimenti del sole era importantissimo. Essi erano i più esperti lettori di meridiana del Neolitico'.




Spirali magnificamente incise ornano l'enorme masso, lungo 3,2 m e alto 1,6, situato davanti all'ingresso della tomba a corridoio.
 Le spirali rappresentano forse il viaggio labirintico dell'anima verso il regno dei morti.
 L'apertura praticata nel vano del tetto sovrastante l'entrata consente il passaggio della luce del sole solo nella mattina dei giorni vicini al solstizio d'inverno.
 La sete di sapere non era l'unica motivazione degli uomini che costruirono le strutture di Newgrange e Stonehenge, dove venivano pure compiute osservazioni astronomiche.
 Forse essi miravano anche ad apprendere nuove nozioni sull'universo e a stabilire collegamenti diretti e significativi fra esso e le loro vite.
 Newgrange non è soltanto un orologio solare o un osservatorio, ma sembra essere un simbolo della stessa forza vitale. 
 Nella sua forma originaria, il tumulo che copriva la tomba a corridoio era ovale, e in quest'uovo portatore di vita penetrava un lungo corridoio terminante in una camera a caverna, che simboleggiava forse il ventre materno.
 All'interno sorge un alto pilastro a forma di fallo, ed è possibile che le due palle di gesso ritrovate a Newgrange fossero simboli sessuali maschili. 

 Newgrange fu costruita per trarre beneficio dall'elemento dispensatore di vita per eccellenza: il sole.
 Sopra l'entrata, che in origine era sigillata da una lastra di pietra, si trova una piccola cavità il cui tetto reca incisioni a doppie spirali e losanghe. 
Il vano era provvisto di porte di pietra che potevano essere aperte e chiuse. 
 La struttura è orientata in modo che all'alba del solstizio d'inverno il sole, sorgendo, illumini la tomba attraverso questo vano che veniva, in quel giorno, appositamente aperto.
 Il raggio di sole penetra lungo il corridoio, fino a raggiungere il centro della camera.
 Michael O'Kelly, professore di archeologia presso la Cork University, ha compiuto di recente degli scavi a Newgrange e il 21 dicembre 1969 all'alba, si trovava nella tomba pronto ad assistere a quanto sarebbe successo.
 'Esattamente alle 9 e 54 dell'ora legale britannica', scrisse, 'il margine superiore della sfera solare apparve sull'orizzonte locale, e alle 9 e 58 il primo raggio di sole diretto brillò attraverso il vano del tetto e lungo il corridoio per giungere a sfiorare, toccando il pavimento della camera tombale, il bordo frontale della vasca di pietra dell'ultima stanza. Man mano che la sottile riga di luce si allargava, fino a diventare una fascia larga 17 cm. che spazzava il pavimento della camera, la tomba fu investita da un violento fiotto luminoso e la luce riflessa dal pavimento fece chiaramente risaltare vari particolari delle camere laterali, di quella terminale e del tetto a modiglioni. Alle 10 e 04 la fascia cominciò di nuovo a restringersi e alle 10 e 15 in punto il raggio diretto lasciò la tomba'.

Il solstizio d'inverno è il giorno più breve dell'anno, il momento in cui la forza vitale ricomincia a infondere vita alla terra addormentata.
 Forse, fra tutte le incisioni, è la tripla spirale della camera a rappresentare ciò che i costruttori di Newgrange si sforzavano di raggiungere con quella che impropriamente viene chiamata 'tomba': è possibile che la spirale entrante simboleggiasse il viaggio intrapreso dal defunto e l'uscente ne illustrasse la rinascita.
 Può darsi che, a Newgrange, avesse luogo la fecondazione simbolica dell'uovo cosmico capace di assicurare la continuazione del ciclo eterno della morte e della rinascita.
 Probabilmente i sacerdoti depositavano i resti cremati di alcuni antenati nelle vasche di pietra delle camere, dove essi potevano essere toccati dalla luce del sole a metà inverno, ottenendo così una conferma simbolica della prosecuzione della stirpe.




Newgrange è solo un elemento del complesso di Bend of the Boyne, anche se artisticamente è il più compiuto. 
Forse le tombe principali costituiscono nel loro insieme delle registrazioni scientifiche che solo ora, 5000 anni dopo, cominciano a essere decifrate.

 I reperti dimostrano un'altra volta che l'uomo preistorico non era né semplice né barbaro, bensì in possesso di conoscenze e capacità che superano notevolmente la nostra immaginazione.


Fonte: tanogabo.it
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