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mercoledì 21 febbraio 2018

L'alveare a spirale della Tetragonula carbonaria


Api, animali davvero incredibili.
 Lo sapevamo già ma la Tetragonula carbonaria è ancora più speciale. 
Un vero e proprio architetto visto che è in grado di costruire alveari a spirale.

 Nota anche come "sugarbag", la tetragonula carbonaria è un'ape senza pungiglione, endemica della costa nord-orientale dell'Australia. 
L'ape è nota per impollinare specie di orchidee come Dendrobium lichenastrum, D. toressae e D. Speciosum. 
Rispetto alle altre sue simili, è leggermente più piccola e ha una struttura sociale altamente sviluppata paragonabile alle api mellifere.
 Ma la vera particolarità della Tetragonula carbonaria è il modo in cui realizza il suo nido. 
Si tratta di alveari a spirale a singolo strato completamente diversi da quelli piatti. 
Hanno un solo ingresso e sono rivestiti da uno strato appiccicoso che aiuta a intrappolare gli agenti patogeni per impedire loro di entrare. 
Un sistema di difesa ingegnoso visto che queste api non pungono ma mordono e iniettano un acido formico irritante. 

 Questi suggestivi alveari hanno una forma allungata in senso verticale e con un orientamento regolare in senso orario. Sono costruiti con cera marrone e ospitano uova e larve.
 Si tratta di costruzioni piatte che salgono gradualmente.
 In questi alveari complessi, le singole celle devono essere costruite a diverse altezze per mantenere in movimento la struttura.


L'entomologo ed ex ricercatore del CSIRO, Tim Heard, ha osservato per 30 anni queste api scoprendo che "sono insetti altamente sociali, con una regina e migliaia di lavoratori che vivono insieme in un luogo protetto, che, in natura, è di solito in un albero cavo".


Una volta pronto l'alveare, la regina depositerà le uova nelle celle, cinque minuti dopo le api operaie torneranno a sigillarle. 

 Francesca Mancuso

All'origine delle aurore pulsanti


I bagliori che illuminano le notti alle latitudini boreali e australi più elevate sono chiamati genericamente aurore.
 Ma le aurore non sono tutte uguali.
 Quelle più spettacolari che si vedono spesso sui desktop dei computer, per esempio, sono chiamate aurore discrete. 
Quelle che invece variano in modo quasi periodico nell’arco di alcuni secondi o decine di secondi sono chiamate aurore pulsanti. 

Uno studio pubblicato su “Nature” da Satoshi Kasahara dell’Università di Tokyo e colleghi conferma ora per via sperimentale la teoria più accreditata per spiegare le aurore pulsanti.


Mentre il processo che genera le aurore discrete ha inizio a migliaia di chilometri al di sopra della superficie terrestre, quello che riguarda le aurore pulsanti comincia a decine di migliaia di chilometri di altitudine, nella regione equatoriale della magnetosfera, ovvero nella zona dello spazio dominata dal campo magnetico della Terra.

 Alcuni decenni fa, era stato ipotizzato che le aurore pulsanti fossero figlie dell’interazione tra gli elettroni della magnetosfera e il cosiddetto “coro”, un insieme di fluttuazioni elettromagnetiche, così chiamato perché oscilla con frequenze che possono essere facilmente convertite in un suono che possiamo sentire.
 Per effetto di questa interazione, gli elettroni sono proiettati verso la Terra lungo le linee del campo geomagnetico. 
 Detto in altri termini, molti elettroni presenti nello spazio si muovono intorno alla Terra e tendono a seguire le linee del campo geomagnetico. Quando incontrano il coro, possono essere indirizzati in una regione della porzione superiore dell’atmosfera chiamata ionosfera, compresa tra circa 60 chilometri e circa 450 chilometri di quota; ed è intorno a circa 100 chilometri di altitudine che spesso generano la luce aurorale.


Il processo che si produce nella ionosfera è paragonabile alla produzione di immagini sui vecchi schermi e televisori a tubo catodico, in cui un fascio di elettroni, incidendo su un sottile strato di fosforo ne causa la luminescenza.
 Nel caso della ionosfera, gli elettroni possono urtare contro atomi e molecole dei gas che compongono l'atmosfera, portandoli in uno stato eccitato.
 Nel tornare allo stato non eccitato, quegli stessi atomi e molecole emettono la radiazione luminosa delle aurore.
 La quasi periodicità di questa luce riflette le fluttuazioni nella popolazione di elettroni che deriva dalle oscillazioni delle onde del coro.


Nel 2016, il lancio del satellite Arase da parte dell’Agenzia spaziale giapponese (JAXA) ha permesso di osservare direttamente queste interazioni. 
In particolare, Arase ha registrato dati durante un'aurora verificatasi il 27 marzo 2017. 
L’analisi dei dati effettuata da Kasahara e colleghi ha rilevato elettroni provenienti dalla magnetosfera e dotati di energia elevata, fino a decine di chiloelettronvolt (migliaia di elettronvolt, unità di misura dell’energia per le particelle) mentre erano diffusi dalle onde del coro, determinando una pioggia di elettroni nell’atmosfera superiore. 

 Il risultato dimostra l’enorme potenziale della tecnica nel verificare e perfezionare gli attuali modelli del campo magnetico terrestre, grazie al confronto con rilevazioni nello spazio e con il campo magnetico di altri pianeti come Giove e Saturno. 
Anche su questi ultimi, infatti, gli strumenti hanno rilevato la presenza di onde di coro. 


Fonte: lescienze.it
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