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lunedì 31 gennaio 2022

Dall’epoca romana ad oggi un solo acquedotto non ha mai cessato di rifornire l’Urbe: l’Acquedotto Vergine.


 Voluto da Marco Vipsanio Agrippa, genero dell’imperatore Augusto, venne inaugurato il 9 Giugno del 19 a.C. e doveva rifornire le sue terme nel Campo Marzio: fu il sesto acquedotto della città in ordine di realizzazione. 

L’acquedotto era alimentato da alcune sorgenti che si trovavano nell’Agro Lucullano, a poca distanza dal corso dell’Aniene e presso l’odierna località di Salone, all’VIII miglio della Via Collatina.

 La portata giornaliera era di 2.504 quinarie (pari a 1.202 litri al secondo), delle quali, secondo Frontino, 200 venivano erogate nel Suburbio, mentre le 2.304 che giungevano in città erano distribuite attraverso 18 castella secondari in modo che 1.457 andassero per le opere pubbliche, 509 alla casa imperiale e le restanti 338 alle concessioni private.


Il percorso dell’acquedotto Vergine era lungo circa 20.471 Km, tutto sotterraneo ed entrava in città da nord, seguendo la via Collatina fino alla località di Portonaccio; qui attraversava la via Tiburtina, oltrepassava su arcate il Fosso della Marranella alla confluenza con l’Aniene, dirigendosi poi verso la Nomentana e la Salaria e quindi, piegando verso sud, attraversava le zone di Villa Ada e dei Parioli, passando sotto il ninfeo di Villa Giulia, entrava infine in città in prossimità del Muro Torto. 

Gli ultimi 2 Km circa correvano invece in parte su sostruzioni ed in parte, relativamente all’ultimo tratto attraverso il Campo Marzio, su arcuazioni continue fino ai Saepta, il grande edificio pubblico situato in prossimità del Pantheon e delle adiacenti Terme di Agrippa.

 Una piscina limaria (serbatoio di decantazione) era posta presso le pendici del Pincio, dove il condotto antico è accessibile tramite una scenografica scala a chiocciola costruita nel Rinascimento, proprio accanto alla Trinità dei Monti.


Resti imponenti sono visibili invece all’interno della “Rinascente” in via del Tritone e presso via del Nazareno, dove si conservano, parzialmente interrate, tre arcate in blocchi bugnati di travertino poste ai lati di un fornice più grande.




La leggenda vuole che una fanciulla avesse indicato ai soldati di Agrippa le sorgenti fino ad allora cercate invano e perciò da quel momento denominate della Vergine, ma in realtà sembra che “virgo” possa piuttosto riferirsi alla purezza e alla leggerezza delle sue acque, determinate dall’assenza di calcare.

 Seppur danneggiato nell’attacco di Roma dei Goti di Vitige, fu ben presto ripristinato e continuamente restaurato durante il corso dei secoli in modo da poter servire di acqua fresca e pura la città. Ancora oggi infatti molte delle fontane del centro cittadino, sono servite dall’acquedotto Vergine, come per esempio la straordinaria Fontana di Trevi



Trova una moneta d’oro medievale col metal detector e la vende all’asta per quasi 650mila euro


 Erano dieci anni che Michael Leigh-Mallory non si dedicava più alla sua passione, ovvero quella di cercare tesori antichi

Aveva “appeso al chiodo” il suo metal detector per dedicarsi ai suoi figli, ma sono stati proprio loro, fattisi grandi, a spingerlo a riprendere la sua attività e a portarli con lui, alla scoperta di entusiasmanti reperti.

Lo scorso 26 settembre, dopo aver sempre riportato alla luce sempre cosucce di poco conto (pezzi di ferro, anellini, rifiuti metallici) la vita di Michael è cambiata grazie ad un ritrovamento incredibile: una moneta d’oro risalente al 1257 (regno di Enrico III).

 L’uomo, 52 anni, non si era mai imbattuto in un oggetto tanto prezioso (ritrovato per caso in un campo vicino a Hemyock, nel Regno Unito) e deve ringraziare solo i suoi figli che lo hanno spinto a riprendere in mano il metal detector.

La preziosissima moneta è stata battuta all’asta dall’agenzia Spink&Son ed è stata venduta per la cifra record di 540.000 sterline (647562,60 euro). 

L’acquirente, che è rimasto anonimo, vivrebbe comunque nel Regno Unito e ha manifestato l’intenzione di cedere il reperto ad un museo, affinché possa essere studiato e osservato dagli appassionati.

La moneta si trovava nascosta sotto uno strato di terreno molto sottile – appena 10 centimetri di terra la separavano dalla luce del sole. Di dimensioni contenute (larga poco meno di un pollice, ovvero circa due centimetri e mezzo) è costituita da oro allo stato puro: sul fronte raffigura il re Enrico III seduto sul trono, mentre sul retro è possibile vedere una croce latina con le rose.

Secondo gli archeologi, si tratta di un ritrovamento particolarmente prezioso poiché è la prima volta, in oltre 260 anni di storia, che una moneta tanto antica viene riportata alla luce. 

Attualmente sono otto le monete di questa fattura ritrovate – tutte esposte in musei e collezioni. 

SABRINA DEL FICO

sabato 29 gennaio 2022

Snow roller: i rotoli di neve creati dalla natura


 Quello degli snow roller è un rarissimo fenomeno meteorologico che ha come oggetto il manto nevoso: si tratta di una particolare specie di rotoli di neve, arrotolati su sé stesse proprio da madre natura.

Non è possibile individuare il punto  o il paese in cui si formeranno perché si devono verificare una serie di particolari condizioni, ma potenzialmente tutte le zone interessate da grandi nevicate possono essere la location ideale in cui osservare questo affascinante gioco della natura.

Appaiono come soffici cuscini di nuvola o come giganteschi marshmallow, ma gli snow roller sono le palle di neve che vengono create direttamente da madre natura.
Questo fenomeno si verifica sul manto nevoso quando agglomerati di neve si accumulano e rotolano lungo pendii più o meno dolci.

Questi “rulli di neve” si presentano con una forma cilindrica e con una spirale visibile al loro interno, appaiono talvolta semivuoti all’interno, questo nel momento in cui gli strati più interni iniziano ad essere più sottili e si disintegrano sotto il peso degli strati più esterni.

Per formarsi hanno bisogno di condizioni ottimali, in particolare: lo strato superficiale dev’essere di neve bagnata con una temperatura vicino al punto di fusione; il manto nevoso deve trovarsi su una superficie ghiacciata o su neve polverosa che non si attacchi con lo strato soprastante; dev’essere poi presente un’inclinazione del terreno; infine, il vento deve essere abbastanza forte da riuscire a spingere i rotoli di neve, ma non troppo veloce perché in tal caso non consentirebbe la loro formazione.


Infatti, il vento quando inizia a soffiare spinge la neve a muoversi rotolando sul terreno, qui questo primo agglomerato comincia a raccogliere materiale lungo il cammino, mano a mano che il rotolo si fa più grande gli strati si compattano e si possono ammirare snow roller che hanno le dimensioni di una pallina da tennis ma anche cumuli che arrivano persino a raggiungere qualche metro di diametro.

In passato gli snow roller sono stati scambiati per le palle di neve delle fate, perché apparivano come il frutto di giochi tra bambini, analoghi alle palle iniziali con cui si formano i pupazzi di neve, ma misteriosamente senza che vi fosse presenza di impronte sulla neve intorno agli stessi.
Questo fenomeno appare in zone che sono interessate da nevicate frequenti, come ad esempio il Nord Europa e il Nord America, qui il fenomeno meteorologico è stato osservato in Ohio, diverse volte a Cincinnati; in Pennsylvania, a Venus; nelle Rocky Mountains del Colorado, nella località di Krkonoše, dove i turisti delle Parco Nazionale delle Montagne Rocciose si sono soffermati ad ammirarli.

Negli anni passati, sul nostro continente sono stati individuati nel Somerset, in Gran Bretagna, ma anche fotografate in Repubblica Ceca, dove hanno raggiunto grandi dimensioni.
Non è possibile dire dove e quando si verificheranno, quindi per andare a caccia di snow roller non resta che recarsi nella natura e aspettare che le condizioni siano favorevoli per consentire di osservare questo fenomeno e tutta la sua evocativa magia.

Fonte: meteoweb





lunedì 24 gennaio 2022

Il fiume più bello del mondo è un arcobaleno liquido di colori

 

Esistono luoghi nel mondo dove tutte le cose che pensavamo appartenessero solo al nostro immaginario, o a qualche film di fantascienza, prendono vita. E lo fanno grazie alla straordinaria arte che appartiene a Madre Natura e che rende il mondo che abitiamo un luogo meraviglioso. Come quel fiume che sembra un dipinto e che è realizzato con i colori dell’arcobaleno sciolti nell’acqua. E invece è reale ed è straordinario.

È considerato il fiume più bello del mondo e in effetti Caño Cristales lo è davvero.

 Conosciuto anche con il nome di arcobaleno dai cinque colori o liquid rainbow questo corso d’acqua incanta con la sua meraviglia cittadini e viaggiatori provenienti  tutto il mondo.

Situato in Colombia, il fiume rio della Sierra de la Macarena, si presenta agli occhi delle persone con una particolarità che sembra davvero frutto di un incantesimo. E invece, come la scienza spiega, questo fenomeno è caratterizzato dalla presenza del fiume di una particolare alga dal nome Macarenia Clavigera che vive proprio nella zona e che durante alcuni periodi dell’anno trasforma il corso d’acqua in un arcobaleno liquido che incanta gli occhi e riscalda il cuore.



Le cromie che si estendono per quasi 100 chilometri luccicano al sole che, con i suoi raggi, esalta la bellezza dei colori che spaziano dal blu al verde, passando per l’arancione e il rosso. Le nuance si fondono e si confondono, si adagiano sulle rocce e si intrecciano sulla costa rendendo il panorama così unico e straordinario da lasciare col fiato sospeso.

Il Caño Cristales si trova all’interno del Parque Nacional Natural Sierra de la Macarena e una visita in questo angolo incantato del mondo è quasi d’obbligo. La sua bellezza risplende tutti i giorni dell’anno ma è nel mese di luglio, e fino a quello di novembre, che la natura mette in scena il suo spettacolo più bello tingendo le acque che scorrono. 

Ed è magia.


Arrivare a Caño Cristales è un’esperienza da fare almeno una volta nella vita. Uno dei modi più suggestivi per raggiungere questo corso d’acqua è quello che parte da San Josè del Guaviare  e conduce a La Macarena in barca, navigando sul Rio Guayabero.

Il fiume scorre sullo straordinario complesso montuoso della Serrania de la Macarena ed è proprio qui, tra i colori dell’arcobaleno liquido, che è possibile osservare altre meraviglie della natura.

Ci sono le rocce di quarzite che risalgono a miliardi di anni fa, e osservando attentamente il fiume arcobaleno è possibile ammirare dei pozzi circolari profondi dove l’acqua cade vertiginosamente creando a a sua volta nuove e straordinarie visioni.

Il fiume ospita inoltre una grande varietà di flora acquatica. Oltre alla Macarenia clavígera, artefice della magia che si verifica durante il periodo delle piogge, tra luglio e novembre, e che cresce nel fiume, ci sono le altre specie tipiche della foresta pluviale idrofitica. 

Qui vivono anche tantissimi esemplari di animali, tra cui uccelli (oltre 420 specie), anfibi, rettili e primati.

Fonte: siviaggia.it

domenica 23 gennaio 2022

Polinesia: scoperta grande barriera corallina incontaminata al largo di Tahiti


 Coralli giganti a forma di rosa che si estendono a perdita d'occhio: è lo spettacolo che si sono trovati davanti agli occhi gli scienziati dell’UNESCO che hanno appena scoperto una delle barriere coralline più grandi al mondo al largo della costa di Tahiti, isola della Polinesia francese.

Ad aumentare lo stupore e la gioia degli scienziati, il fatto che la nuova barriera si presenti del tutto incontaminata. Le conseguenze del riscaldamento dell'oceano sembrano averla risparmiata.

 I coralli si estendono per 3 chilometri, tra i 30 e i 70 metri di profondità, in una zona dove arriva poca luce solare.




"Crediamo che sia per questo che si sono conservati così bene, non subiscono lo stress della luce e della temperatura" fanno sapere gli esperti. Quasi un miracolo se si pensa che la maggior parte delle barriere coralline conosciute, sta soffrendo gli effetti del surriscaldamento del pianeta. Quella australiana, per esempio, ha l'80 percento dei coralli che hanno subito un grave sbiancamento.

"Questa scoperta però non deve farci pensare che allora va tutto bene, che non dobbiamo più preoccuparci delle barriere coralline. Perché la vita e la biodiversità in una barriera che si trova in profondità sono diverse da quelle che stanno più in superficie", afferma una biologa del Politecnico di Zurigo che da anni lavora per sviluppare barriere artificiali che permettano ai coralli di sopravvivere.

"Si tratta di una delle barriere coralline profonde più grandi mai scoperte ma è di soli tre chilometri non basta a compensare la vastità delle barriere che si trovano in superficie. 

Gli scienziati, dunque, non si fanno troppe illusioni sulla salute delle barriere coralline che si trovano in superficie.  


mercoledì 19 gennaio 2022

Huacachina e la sua Oasi nel deserto

 

Proprio come in un film, all’improvviso, nel bel mezzo del deserto, spunta lei: l’Oasi di Huacachina, una pittoresca Laguna avvolta da Dune di Sabbia.

 Huacachina è un Villaggio nella regione di Ica , nel Sud-Ovest del Perù, costruito intorno a un piccolo lago naturale nel Deserto. Chiamata anche “Oasi d’America”, viene usata come Resort per famiglie locali della vicina Città di Ica, ma ogni giorno che passa diventa sempre più meta per Turisti che amano sport come il Sandboarding e le corse sulle buggy, infatti nei dintorni dell’Oasi vi sono dune di sabbia alte anche 30 metri, ed proprio nella regione di Ica che si trova la Gran Duna, la duna più Alta del Mondo.


Il Lago Naturale di Huacachina si è formato a causa di correnti sotterranee. Queste falde, abbondanti di minerali, hanno dato vita a una intensa vegetazione, costituita da palme, eucalipti e tipici Huarangos. 

La flora e la fauna dell’Oasi rendono questo territorio uno dei più belli e caratteristici del Perù, ma sicuramente la peculiarità del luogo, è stato il potere di guarigione delle sue acque, una volta ricche di sostanze solforose e saline, tanto che negli anni 40, l’Oasi di Huacachina, divenne uno dei più importanti ed esclusivi Centri Termali Peruviani, questo ha fatto si che si venissero a costruire attorno alla Laguna strutture ricettive come Hotels, Ristoranti ed altro.


La Leggenda racconta che una Bellissima Principessa del posto, facendo il bagno in una pozza d’acqua, fu scoperta da un giovane cacciatore che passava. 

Vedendo l’uomo, la Principessa fuggì via, e il suo mantello, strisciando sulla sabbia, formò le famose dune circostanti, mentre la pozza nella quale aveva fatto il bagno divenne la Laguna dell’attuale Oasi di Huacachina.

 Si racconta che la Principessa viva ancora nell’Oasi con l’aspetto di una Sirena.


Molti proprietari terrieri vicino all’oasi hanno cominciato a installare pozzi per poter meglio accedere alle falde acquifere sottostanti, provocando un consistente abbassamento del livello dell’acqua.

 Per compensare a tale mancanza, la Città ha iniziato nel 2008 un processo artificiale per reintegrare l’acqua, pompandola.

 Questo ha fatto si che il luogo perdesse il suo fascino in termini di Turismo, pur restando comunque un luogo surreale e suggestivo, qualcosa assolutamente da vedere.

Fonte: viaggiandonelmondo

domenica 16 gennaio 2022

Luna piena del lupo: le leggende celtiche e dei nativi americani sul primo plenilunio dell’anno

 

Nella notte tra il 17 e il 18 gennaio è Luna piena del lupo, il primo plenilunio dell’anno che non potrà non incantarci. Occhi al cielo per vedere il nostro splendido satellite luminoso al suo massimo in cielo.

La luna piena di gennaio prende questo nome non solo nella tradizione dei nativi americani, dati i profondi e antichi legami tra i lupi e questo plenilunio.

 Ad esempio, la parola gaelica per gennaio, Faoilleach, deriva dal termine usato per i lupi, faol-chù, anche se i lupi non esistono in Scozia da secoli.

La parola sassone per gennaio è inoltre Wulf-monath, o Wolf Month (“mese del lupo”). E in Giappone in questo mese si tiene la festa del dio lupo, Ooguchi Magami, mentre la tribù Seneca lega il lupo alla luna così fortemente da credere che un lupo abbia dato alla luce la luna “cantandola” nel cielo.

Ma perché i lupi sono sempre associati alla Luna piena di gennaio?

La risposta più ovvia è perché i lupi sono molto più rumorosi e più presenti a gennaio quando inizia la stagione riproduttiva I lupi iniziano a ululare più frequentemente e in modo aggressivo per stabilire il loro territorio, ammonendo vicini e nemici di stare lontano dai loro terreni di riproduzione.

 

Un piccolo branco di lupi può persino provare a sembrare un branco più grande ululando insieme. Mentre un lupo solitario può sostenere un ululato per la durata di un singolo respiro, un intero branco può ululare all’unisono per più di due minuti durante la stagione riproduttiva

E in effetti, i lupi sono così famosi per le loro comunità così affiatate che la tribù dei Sioux ha chiamato la Luna piena di gennaio “la luna in cui i lupi corrono insieme”. E secondo la mitologia celtica, il lupo è infuso di potere lunare, in quanto in grado di fiutare intuizioni o conoscenze nascoste e di scovare fonti di pericolo inaspettate. In alcune leggende, il lupo addirittura ingoia il sole per poter così godere del potere della luna.


La luna sarà piena per l’esattezza il giorno 18 gennaio 2022 alle 00.47 ora italiana, ma tutta la notte, a partire dal tramonto, sarà possibile ammirare (tempo permettendo) lo splendore del nostro satellite al 100% di luminosità (nella mappa il cielo del 17 gennaio alle 21.00 circa). Basterà alzare gli occhi al cielo e volgerli sull’orizzonte a Est.

ROBERTA DE CAROLIS

Kliluk: il lago a pois del Canada


 Il Canada è uno dei luoghi del pianeta che maggiormente rimanda ad atmosfere fantastiche e curiosità naturali come il lago di Kliluk, uno specchio d’acqua che ha l’aspetto di un lago a pois.

Allo spettacolo della natura minerale del luogo, autrice dell’aspetto alieno del luogo, si aggiungono le leggende dei nativi americani del luogo che ammantano di sacralità questo lago dalle proprietà terapeutiche.

Nei pressi di Osoyoos, in Canada, si trova il lago di Kliluk, un lago dall’aspetto magico che grazie ai numerosi minerali disciolti nelle sue acque, quali: solfato sodio, calcio, solfato di magnesio e altri elementi come il titanio e l’argento, riesce a creare forme geometriche straordinarie dai molteplici colori come il giallo, il bianco ma anche il verde e il blu a seconda delle temperature e delle stagioni.

L’estate è certamente il momento in cui il lago si presenta in tutta la sua peculiarità, poiché l’acqua evaporando fa emergere la trama della struttura di minerali con il magnesio che cristallizzandosi si indurisce, creando delle passerelle naturali intorno alle macchie colorate.
Ogni anno sono numerosissimi i turisti che si recano nell’Okanogan Valley, nella regione della British Columbia, per apprezzare questo spettacolo e fotografare questo suggestivo fenomeno naturale.

Oggi il lago viene chiamato Spotted Lake, ma la sua storia è stata lunga e travagliata: durante la Prima Guerra Mondiale era stato trasformato in una cava mineraria. Alla fine degli anni ’70, invece, c’è anche stato il tentativo da parte della famiglia proprietaria di trasformarlo in un centro benessere.


Molti si spostano sul lago Kliluk per ricercare le miracolose proprietà di queste acque che secondo la leggenda tramandata dai nativi americani del luogo sono addirittura sacre.
Queste acque, infatti, sarebbero dotate di proprietà terapeutiche, tanto da essere capaci di guarire malattie e distorsioni, ma anche ferite e lesioni cutanee nonché dolori muscolari di varia origine.

Il lago di Kliluk che oggi viene chiamato anche Spotted Lake, è oggetto quindi di una leggenda delle tribù native della zona.
Secondo i racconti nel corso di una battaglia tra tribù rivali, tutti i combattenti si fermarono e dichiararono una tregua per dare il tempo ai feriti di entrambe le fazioni di immergersi nel lago per guarire le loro ferite.


L’aura di sacralità che si è creata intorno a questo magnifico lago a pois ha fatto sì che gli indigeni tentassero in ogni modo di acquisirlo per preservarlo e dopo oltre vent’anni sono riusciti nell’impresa nel 2001, comprando i 22 ettari del terreno circostante per 720 mila dollari.

Fonte: meteoweb

giovedì 13 gennaio 2022

Roma, dove tutto ebbe inizio: il Velabro

 

C’è un’area a Roma in grado di raccontare la storia della città fin dal principio: il Velabro.

Leggenda vuole infatti che l’Urbe sia stata fondata da Romolo precisamente sul colle Palatino.

 La città poi iniziò a svilupparsi nella vallata compresa tra questo colle e il Campidoglio, raggiungendo anche – sul lato opposto – il Tevere. E il fiume è certamente un altro importante protagonista della leggenda di fondazione di Roma: è infatti nell’area del Velabro – tra Palatino e Tevere – che la cesta in cui furono posti i due piccoli gemelli (Romolo e Remo) si arenò, in una zona inizialmente paludosa e spesso alluvionata (velus appunto).

In seguito alla bonifica dell’area ottenuta grazie alla Cloaca Massima – una delle più antiche condotte fognarie cittadine – si costituì qui il Foro Boario, importante mercato di bestiame, all’interno del quale furono poi costruiti anche importanti templi. 

Tra questi, quelli ancora oggi visibili, sono il Tempio di Ercole, a forma circolare, con accanto il Tempio di Portuno, rettangolare e dedicato al dio protettore dei porti. Nei pressi infatti, e precisamente davanti all’Isola Tiberina, i romani costruirono il primo porto cittadino, detto appunto Porto Tiberino, munito ovviamente di magazzini in cui stipare le merci, oggi posti al di sotto del Palazzo dell’Anagrafe in via Petroselli.



Di fronte al tempio rotondo, vi era invece l’Ara Massima di Ercole, un antico santuario i cui resti sono oggi visibili al di sotto della Basilica di Santa Maria in Cosmedin

L’area quindi mostrava una particolare devozione nei confronti dell’eroe greco. Secondo la tradizione, infatti, fu qui che Ercole, di ritorno dalla Spagna insieme ai buoi di Gerione, fece una sosta.

 La zona però all’epoca era infestata dal mostruoso gigante Caco, che subito gli rubò la mandria. Ercole riuscì a recuperare i suoi buoi, uccidendo il gigante e liberando così la zona dal terribile mostro. 

Gli abitanti del luogo, particolarmente grati, iniziarono a venerare quindi Ercole come un vero e proprio dio, erigendo in suo onore alcuni edifici di culto.

Ma nella zona si possono ammirare anche molti altri interessanti monumenti.

Nelle immediate vicinanze della Chiesa di San Giorgio al Velabro, si notano infatti due importanti archi: l’Arco di Giano, il cui nome si riferisce al dio bifronte protettore di porte e passaggi, anche se in realtà il monumento è da identificare con l’arco costruito nel IV secolo d.C. all’epoca dell’imperatore Costantino; poco più avanti l’Arco degli Argentari, eretto nel 204 d.C. dai banchieri e commercianti del Foro Boario, nel punto in cui l’antica strada urbana del vicus Jugarius raggiungeva la piazza del mercato.

 All’interno dell’arco si riconoscono inoltre, a rilievo, i ritratti della famiglia imperiale dei Severi: da un lato Settimio Severo e la moglie Giulia Domna, dall’altro i due figli della coppia, Caracalla e Geta, il cui volto fu però cancellato dal fratello dopo l’uccisione per la salita al potere, disponendo per lui la damnatio memoriae (condanna della memoria).




L’arco è oggi addossato alla Chiesa di San Giorgio al Velabro, edificata già nel VI secolo d.C. 

Il luogo è tristemente noto alle cronache cittadine perché nell’estate del 1993 fu oggetto di un attentato. Un’esplosione dovuta ad un’autobomba parcheggiata nei pressi, causò drammatiche distruzioni alla chiesa, che fu però interamente ricostruita, riportandola al suo antico splendore.

 Una piccola e circoscritta area di Roma certo, ma che da sola è in grado di rivelare l’intera storia della città!

 L’Asino d’Oro Associazione Culturale

sabato 8 gennaio 2022

Mastro Titta, er boja de Roma


 “Quella der boia é ‘na missione. Perché ammazzá un omo ner nome de la giustizia nun é come scannà uno dentro a un’osteria quanno se sta’ bevuti, è ‘na cosa diversa. Perché tu ammazzi un’omo che nun t’ha fatto gnente. Quindi lo fai senza odio, senza rancore anzi con una certa educazione, un certo garbo: Permette? Prego! Zac! Je stacchi la testa e buonanotte.”

Così sentenziava Aldo Fabrizi nella commedia musicale Rugantino del 1962 nei panni del famigerato Mastro Titta, all’anagrafe Giovanni Battista Bugatti, boia del Papa-Re.


Il nostro uomo era nato a Senigallia il 6 marzo 1779 e cominciò la sua carriera di “carnefice giudiziario” assai precocemente, all’età di appena diciassette anni, nell’anno del Signore 1796.

La sua prima vittima si chiamava Nicola Gentilucci, un ragazzo di Foligno, che fu dal Bugatti impiccato e squartato perché “Tratto dalla gelosia, aveva ucciso prima il prete di Cannaiola di Trevi e il suo cocchiere, poi, costretto a buttarsi alla macchia, grassato [rapinato in italiano desueto] due frati”. 

Il testo citato è un estratto di una finta autobiografia dello stesso Mastro Titta scritta da un autore anonimo sul finire del XIX secolo prendendo spunto da una serie di appunti lasciati su un taccuino dallo stesso carnefice. 

Il testo fu redatto quando ormai il Bugatti era già da anni passato a miglior vita, molto probabilmente allo scopo di screditare lo stesso regime papalino, di cui Mastro Titta viene descritto come lo spietato e implacabile braccio della morte. 

Al di là delle demonizzazioni, un’altra testimonianza della ferocia del boia più famoso dello Stato Pontificio arriva direttamente dall’archivio del comune di Valentano, in provincia di Viterbo. Qui, come ebbe a scrivere lo stesso Bugatti “Il 28 marzo 1797, mazzolai e squartai Marco Rossi, che aveva ucciso suo zio e suo cugino per vendicarsi della non equa ripartizione fatta di una comune eredità”.


Va tuttavia precisato come Mastro Titta svolgesse il suo lavoro di carnefice come mansione “part-time”,  tanto è vero che tra un’esecuzione e l’altra il Bugatti svolgeva la professione di ombrellaio presso la propria casa, situata nel Rione di Borgo, in Vicolo del Campanile al civico 2. 

Ovviamente, date le sue funzioni di carnefice Mastro Titta era alquanto malvisto dai propri concittadini e dunque, anche per salvaguardare la propria incolumità, gli era fatto divieto di recarsi nei rioni centrali dell’Urbe, oltre il fiume Tevere.

Solamente quando era in programma un’esecuzione allora mastro Titta, chiusa bottega e indossato il suo tristemente celebre mantello scarlatto (oggi visibile al Museo criminologico di Roma assieme agli altri suoi “ferri del mestiere”), attraversava Ponte Sant’Angelo per recarsi sul suo macabro “luogo di lavoro”. 


Nella Roma papalina le sentenze di morte erano tradizionalmente eseguite a Piazza del Velabro (dove Monicelli ha ambientato l’esecuzione del prete-brigante don Bastiano nel film Il marchese del Grillo) oppure a Campo de Fiori o a Piazza del Popolo ed erano seguite da folle imponenti tanto da assumere l’aspetto di veri e propri spettacoli pubblici, come accadde il 23 novembre 1825 in occasione della decapitazione dei carbonari Angelo Targhini e Leonida Montanari.

Dall’abitudine di Mastro Titta di attraversare il Tevere soltanto in occasione di un’esecuzione derivò il detto romanesco “Boia nun passa ponte” che significa “ciascuno se ne stia nel suo ambiente”. Sempre da questo fatto ebbe origine un altro modo di dire romano, “Mastro Titta passa ponte“. 

Quando questa frase cominciava a rimbalzare di bocca in bocca per i quartieri della Città Eterna significava che quel giorno qualcuno ci avrebbe rimesso la testa. Mentre il boia raggiungeva il luogo dov’era stato montato il patibolo, i ragazzini che lo incontravano canticchiavano strada facendo una sinistra filastrocca “Sega, sega, Mastro Titta / ‘na pagnotta e ‘na sarciccia / un´a me, un´a te / un´a mammeta che so´tre”.

Mastro Titta esercitò il mestiere di carnefice per ben sessantotto anni, dal 1796 sino al 1864, interrompendosi solamente durante i sei mesi della Repubblica Romana (febbraio-luglio 1849) durante la quale la pena capitale venne abolita. 

Il Bugatti pertanto servì ben sei Papi a cominciare da Pio VI, passando per Pio VII, Leone XII, Pio VIII, Gregorio XVI e terminando la propria carriera sotto il pontificato di Pio IX, il quale lo collocò a riposo assegnandogli una pensione di trenta ducati al mese.


Nel corso della sua quasi settantennale carriera giunse a collezionare ben 516 esecuzioni fra decapitazioni, impiccagioni e squartamenti. Morì novantenne nel 1869, poco più di un anno prima che fosse aperta la Breccia di Porta Pia, che pose fine a quel regime papalino di cui lui era stato uno dei più feroci e implacabili difensori. 

Mastro Titta non mostrò mai rimorso per il proprio operato. Anzi, si ritenne sempre un buon cristiano, giungendo a definirsi “Braccio esecutore della volontà di Dio, emanata dai suoi rappresentanti in Terra”. 

Fino alla fine fu un convinto assertore della pena capitale di cui giustificava “l’utilità” sociale con la seguente argomentazione: “Ho sempre creduto che chi pecca deve espiare; e mi è sempre sembrato conforme ai dettami della ragione ed ai criteri della giustizia, che chi uccide debba essere ucciso. Un delinquente è un membro guasto della società, la quale andrebbe corrompendosi man mano se non lo sopprimesse. Se abbiamo un piede od una mano piagata e che non si può guarire, per impedire che la cancrena si propaghi per tutto il corpo, non l’amputiamo?”.

Complice il lunghissimo periodo durante il quale restò in servizio, Mastro Titta entrò nella tradizione popolare romanesca al punto che la sua figura compare in diverse opere, letterarie cinematografiche e teatrali. 

Già nel corso dell’Ottocento venne nominato in un sonetto del poeta dialettale Giuseppe Gioacchino Belli datato 1830 e intitolato “Er ricordo”, nel quale l’autore fa tra l’altro menzione dell’usanza “pedagogica” dei padri di far assistere i figli all’esecuzione per poi assestare loro un ceffone affinché si ricordassero quale fosse la fine riservata ai delinquenti e rigassero dritto.

Dell’opera di Mastro Titta scrisse anche Lord Byron, il quale nel corso di un soggiorno nella Città Eterna assistette alla decapitazione di tre condannati avvenuta in Piazza del Popolo il 19 maggio 1817.  Si chiamavano Giovan Francesco Trani, Felice Rocchi e Felice De Simoni e vennero decapitati a Piazza del Popolo in quanto riconosciuti colpevoli da un tribunale pontificio di “omicidi e grassazioni” o, come si direbbe oggi, per rapina a mano armata. Byron rimase molto turbato da quanto aveva visto tanto che in una lettera indirizzata al suo editore John Murray scrisse: “La cerimonia, compresi i preti con la maschera, i carnefici mezzi nudi, i criminali bendati, il Cristo nero e il suo stendardo, il patibolo, le truppe, la lenta processione, il rapido rumore secco e il pesante cadere dell’ascia, lo schizzo del sangue e l’apparenza spettrale delle teste esposte – è nel suo insieme più impressionante del volgare rozzo e sudicio new drop e dell’agonia da cane inflitta alle vittime delle sentenze inglesi”.

Nel 1845 un altro scrittore britannico, Charles Dickens, assistette nella giornata dell’8 marzo, all’esecuzione di Giovanni Vagnarelli, ventiseienne eugubino condannato per avere rapinato e ucciso a bastonate una contessa tedesca diretta a Roma in pellegrinaggio. Dickens riportò questa esperienza nel suo libro Lettere dall’Italia. Nel suo racconto traspare tutto il disgusto per la scena della quale si trovò ad essere spettatore “ […] Non vi era alcuna manifestazione di disgusto, o di pietà, o di indignazione, o di mestizia. Fu uno spettacolo brutto, sporco, ributtante; il cui unico significato non era altro che un’opera di macelleria, al di là del momentaneo interesse, ai danni dell’unico sventurato protagonista […]”.


Nel Novecento “Er boja de Roma” è stato rappresentato anche dal cinema: accanto alla memorabile interpretazione di Mastro Titta da parte di Aldo Fabrizi, la figura del carnefice più famoso della Roma papalina fa la sua comparsa verso la fine del film “Nell’Anno del Signore”, pellicola risalente al 1969, nella quale si racconta, in maniera romanzata, la vicenda dei carbonari Targhini e Montanari. Nell’ultima scena, poco prima di finire decapitato come l’amico, Montanari apostrofa Mastro Titta come “l’omo più moderno de Roma” perché nel clima di repressione e passatismo della Restaurazione almeno lui si serve della ghigliottina, uno strumento “moderno” che, per usare le parole di Montanari “non puzza de vecchio e de decrepito”, proprio perché inventato durante la Rivoluzione francese.

Fonte:natiperlastoria
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