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giovedì 28 novembre 2019

La foresta che in Messico diventa arancione grazie alle farfalle


Ogni anno in autunno, in Messico, succede qualcosa di straordinario: questa foresta, situata tra il Michoacan e L’Estado de Mexico si colora di arancione grazie alla presenza delle farfalle monarca. 

  Ogni novembre, la foresta situata tra lo stato del Michoacan e l' Estado de Mexico viene letteralmente invasa da queste meravigliose svolazzanti creature arancioni nere e bianche che attraversano il sito come tappa del loro ciclo migratorio.


Queste splendide farfalle volano a circa 3800 miglia dal Canada e dagli Stati Uniti per raggiungere il Messico e trascorrere qui i mesi più freddi dell’anno. 

 Il lungo viaggio della farfalla monarca inizia ad agosto, per terminare i primi giorni di novembre sugli alti alberi del Messico, che diventano la loro casa fino a marzo.


Ogni anno, circa 200 milioni di farfalle arrivano nella foresta messicana con la forza del loro battito d’ali e tutto si trasforma, come per magia. 

 Le farfalle trovano riparo tra gli alberi di pino, quercia e abete. Quando le temperature sono anche basse, questi insetti tendono a dormire e stare molto vicini tra loro, così tanto da far sembrare gli alberi arancioni.


La foresta è diventata area protetta.
 La riserva della biosfera delle farfalle monarca è stata nominata nel 2008 Patrimonio dell’Umanità dell’UNESCO. 



 Tratto da : siviaggia.it

Le meravigliose sfumature del lago australiano che cambia colore con le stagioni


Dal fucsia al rosa, dal bianco al blu. 
A meno di due ore di strada da Adelaide si trova il lago Bumbunga, i cui colori richiamano migliaia di turisti e fotografi da tutto il mondo. 

 Siamo fra le città di Lochiel e Bumbunga. E questo lago circondato dalle saline non è famoso solo per il suo colore rosa, come tanti altri del South Australia, dove la natura dà spettacolo. 
La sua superficie è a specchio, e il cielo si riflette sull'acqua creando mille scintillanti sfumature.
 Poi, in base alle stagioni e alla salinità, cambia drasticamente colore.


Con l'aumentare delle temperature, il sale si concentra e il rosa diventa più acceso. 
Dove l'acqua inizia a evaporare, il lago lascia spazio a delle saline rosa chiaro.
 Mentre nelle stagione delle piogge il lago passa prima da bianco poi a blu, ma mai come un lago qualsiasi.

 A creare il rosa è una reazione chimica creata da sale, bicarbonato di sodio, alghe e microrganismi che vivono nell'acqua di questo meraviglioso lago conosciuto come salina nel 1868.

 Fonte: lastampa.it

martedì 26 novembre 2019

In India i ponti ‘viventi’ di radici che diventano più resistenti man mano che gli alberi crescono


Non sono i ponti più alti o più lunghi del mondo, ma una serie di umili attraversamenti fluviali formati dalle radici degli alberi.

 Si tratta di veri e propri ponti viventi che si innalzano sopra fiumi e burroni di Meghalaya, nell’India nord-orientale, collegando i villaggi e permettendo agli agricoltori di raggiungere le terre coltivate.

 Queste strutture, ancora poco studiate, sono formate dalle radici aeree del Ficus elastica, o l’albero della gomma, che possono estendersi fino a 50 metri e sopravvivere per centinaia di anni. Sono radici incredibilmente robuste e la loro forza aumenta nel tempo poiché man mano che gli alberi crescono si ancorano sempre più alla terra.


I ponti viventi rappresentano una meraviglia ingegneristica naturale, che potrebbero aiutare le nostre città ad adattarsi alle temperature in aumento associate alla crisi climatica. 

 Alcuni ricercatori hanno mappato 74 ponti viventi nella zona, chiarendo il meccanismo con cui si formano e il modo in cui si mantengono nel tempo; per farlo, hanno sfruttato le conoscenze dei residenti, scattato migliaia di fotografie e realizzato numerosi modelli tridimensionali. 

 A differenza dei ponti realizzati in legno o bambù, i ponti viventi non sono facilmente spazzati via da pioggia e venti e non marciscono, aspetto molto importante in una regione molto umida. I ponti viventi durano anche molto più a lungo delle strutture costruite in acciaio, che arrugginiscono e si rovinano in fretta a causa del clima umido.


Le caratteristiche dei ponti radicali viventi sono date da un processo di “architettura rigenerativa” fatto dell’alternanza di crescita, decadimento e ricrescita continui.
 Non si tratta di un processo naturale: i ponti sono realizzati e mantenuti da individui, famiglie e comunità degli indigeni Khasi e Jaintia.

 Il processo di costruzione è simile tra le varie comunità, anche se differisce leggermente in base alle tradizioni locali e al tipo di ponte che si vuole realizzare. 

Si inizia piantando una piccola pianta su ogni sponda del fiume o lungo i bordi di un burrone. 
Quando spuntano le radici aeree, queste vengono avvolte attorno a una struttura di bambù o a steli di palma e vengono dirette verso la riva opposta. 
Quando raggiungono l’altro lato, vengono impiantati nel terreno. Dopodiché la pianta emette ulteriori radici aeree, che possono anche fondersi tra loro, e la struttura diventa sempre più complessa e solida, stabile e resistente al carico.




Perché un ponte sia completato possono volerci decenni: la maggior parte dei ponti raggiungono i 20 metri e sono così stabili da poter essere percorsi da 2000 persone al giorno, mentre altri possono arrivare a lunghezze maggiori diventando difficili da percorrere e spaventosi.

 Le tecniche utilizzate per costruire i ponti radicali viventi potrebbero essere impiegate nelle città, ad esempio per creare pensiline che non creino ostacoli a livello del suolo e che contemporaneamente rendano più verdi e ombreggiate le aree urbane, strategie necessarie per far fronte all’aumento delle temperature. 


 Fonte: greenme.it

lunedì 25 novembre 2019

La storia della Piramide Cestia. Il fascino del gusto orientale a Roma


A Roma, vicino a Porta San Paolo, c’è una piramide.

 La curiosa storia della Piramide Cestia è ovviamente molto antica. Tutto ebbe inizio nel I secolo a.C. quando Caio Cestio, un importante uomo politico dell’antica Roma, decise che come proprio monumento funerario la piramide sarebbe stata la scelta ideale.

 La preferenza va ricercata nel contesto storico di quel periodo: siamo negli anni della conquista dell’Egitto e i ricchi e colti romani restarono subito affascinati dal gusto orientale. 

Caio Cestio decise così di farsi costruire la propria tomba a forma di piramide al di fuori della città – come era usanza – lungo una strada consolare, la via Ostiense, l’antico collegamento tra l’Urbe ed il suo porto, la città di Ostia Antica. 

 Sappiamo con certezza, grazie al testamento dello stesso Caio Cestio, che la piramide fu costruita in soli 330 giorni, venendo innalzata tra il 18 e il 12 a.C., anche se ciò che impressiona maggiormente è la sua portentosa struttura: è alta quasi 37 metri e ha una base quadrata di circa 30 metri per lato.


Ma chi era questo ricco uomo politico? 
E’ lui stesso a presentarsi nelle iscrizioni sulle facciate della piramide come un importante membro del collegio sacerdotale degli Epuloni, i quali avevano il compito di organizzare in città i sacri banchetti annuali in onore delle più importanti divinità.
 E per la sua costruzione, non si badò a spese.
 Il figlio di Caio Cestio vendette i pregiati arazzi detti “attalica” e con il ricavato fece realizzare due statue in bronzo dorato da posizionare proprio all’ingresso del monumento. 


 La tomba non era certo isolata, ma anzi, era circondata da un recinto costruito con blocchi di tufo (oggi ancora in parte visibili) e con quattro colonne innalzate proprio in corrispondenza dei quattro angoli della Piramide. 
Di queste colonne oggi ne restano visibili solo due, riportate alla luce nel 1656 e subito riposizionate nella loro collocazione originaria, per volere di papa Alessandro VII Chigi.


Ma le sorprese più grandi della Piramide si celano al suo interno, dove si trova la camera sepolcrale: un piccolo vano rispetto alla mole imponente della Piramide, ma con pareti interamente e delicatamente affrescate con figure femminili alternate a vasi lustrali e gioiose Vittorie alate sulla volta. 

Ciò che resta ancora oggi completamente avvolto nel mistero è se Caio Cestio decise di farsi cremare o inumare: non sono stati infatti rinvenuti né sarcofagi né urne cinerarie.




Ciò che è certo è che all’interno della stanza non vi doveva essere alcun bene prezioso perché Augusto aveva appena vietato, con una apposita legge, l’ostentazione del lusso nelle tombe.

 Un vero smacco per i numerosi tombaroli che nel corso dei secoli hanno più volte cercato di intrufolarsi all’interno della piramide cercando i tesori.


E’ giunta così ben conservata fino ai nostri giorni perché fu inglobata nelle Mura Aureliane nel IV secolo d.C. e in questo modo ne fu risparmiata la sua distruzione, trovandosi esattamente lungo il tracciato delle nuove mura. 
Ma è un monumento particolarmente fortunato perché scampò anche ad un’altra distruzione, quella dei bombardamenti durante la II Guerra Mondiale, che invece buttarono giù per sempre un tratto adiacente delle Mura Aureliane.


 Caio Cestio non fu l’unico però a costruire una piramide a Roma. Sappiamo infatti che in città ve ne erano almeno altre tre: due nell’area dove oggi sorgono le chiese gemelle di piazza del Popolo ed una lungo via della Conciliazione, all’altezza della Chiesa di Santa Maria in Traspontina.
 Quest’ultima fu distrutta nel 1499 da papa Alessandro VI Borgia per ampliare la viabilità della strada vicina a San Pietro, in occasione dell’imminente giubileo. 


 La fama però della Piramide Cestia fu grande già in passato, quando di fatto divenne una delle tappe obbligate di visita per i giovani rampolli delle famiglie europee che compievano il Grand Tour, l’importante viaggio di formazione e studio tra XVII e XIX secolo: vedere una Piramide a Roma sorprendeva davvero tutti! 


 Fonte: artslife.com

venerdì 22 novembre 2019

Hong Kong: alle origini della protesta



Una volta la regione era famosa per il suo "porto profumato", da cui prenderebbe anche il nome (in cinese Xianggang), merito delle tante fabbriche di incenso. 
Oggi Hong Kong è più conosciuta per lo skyline, la piazza finanziaria e il terziario avanzato, pur trovandosi nella Cina comunista. 
Ed è proprio questo il punto: gli abitanti di Hong Kong si sentono cinesi "occidentalizzati", un sentimento che mal si sposa con l'autoritarismo di Pechino, come dimostrano le proteste ininterrotte.

Per capire questa vicenda è necessario andare indietro di qualche secolo, fino al Settecento, quando la Compagnia britannica delle Indie Orientali stabilì la sua sede a Canton (Cina del Sud), avviandovi le prime attività commerciali. 
Di lì a poco gli inglesi diventarono il maggior fornitore di oppio della Cina, e fecero affari d'oro fino al 1839, anno in cui le autorità cinesi promulgarono il divieto di importare la droga. 
Fu la scintilla della Prima guerra dell'oppio tra Cina e Regno Unito: gli inglesi occuparono l'isola di Hong Kong (riconosciuta colonia nel 1842, con il Trattato di Nanchino) e vi rimasero per oltre 150 anni.
 Dopo la Seconda guerra dell'oppio, nel 1860, fu occupata anche la penisola di Caolun, oggi parte del territorio urbano di Hong Kong.

Nel 1997, in base agli accordi siglati tra i due Paesi nel 1984, la sovranità della città-Stato è passata dal Regno Unito alla Cina, rimanendo però una regione a statuto autonomo (fino al 2047, quando diventerà Cina a tutti gli effetti).

 Per questo si parla di "un Paese, due sistemi", con una moneta tutta sua, il dollaro di Hong Kong, un sistema di leggi ancora basate sulla Common Law inglese e un sistema scolastico di stampo britannico. 

Il governatore è formalmente eletto da una ristretta cerchia di persone, un comitato elettorale composto da circa un migliaio di membri, ma nella pratica è espressione del governo centrale di Pechino. 
 Gli accordi anglo-cinesi avevano pianificato anche il futuro dell'ex colonia, a partire dall'introduzione del suffragio universale per eleggere sia il governatore (Chief Executive), sia consiglio legislativo (LegCo). 
In teoria, la modifica costituzionale che permetterebbe di arrivare al suffragio universale avrebbe dovuto essere messa all'ordine del giorno già nel 2017: ancora oggi, però, è tutto come prima e l'attuale governatore si è dichiarato non disponibile ad avviarne l'attuazione.

 Oltre che politica (il suffragio universale, la legge sull'estradizione, ...) ed economica (Pechino vorrebbe inglobare Hong Kong nell'immenso sistema della Nuova Via della Seta), la questione è anche culturale. 

Dal 1997 Hong Kong ha visto l'invasione dei "fratelli" continentali e il progressivo cambiamento dei programmi scolastici: le prime proteste risalgono al 2012, quando il governo cinese tentò di introdurre l'educazione patriottica nella scuola. 

Quello che insomma gli scontenti di Hong Kong temono di più è la "cinesizzazione", la scomparsa della loro particolare identità. 

 Fonte: focus.it

giovedì 21 novembre 2019

Linee di Nazca: scoperti grazie al satellite 143 nuovi disegni in Perù


Con l’aiuto dei satelliti e dell’intelligenza artificiale, un gruppo di ricercatori ha individuato una serie di nuovi “geoglifi” che raffigurano animali, persone e oggetti.

 Circa 2000 anni fa, gli antichi popoli del Perù meridionale crearono centinaia di enormi disegni nel terreno (appunto i geoglifi) che oggi sono noti come Linee di Nazca. 
 Ora alcuni scienziati, usando tecniche avanzate, sono riusciti a scovarne altri 143. 

A fare la scoperta è stato un team di ricerca guidato da Masato Sakai, antropologo culturale presso l’Università di Yamagata in Giappone, che ha trascorso anni a caccia di geoglifi durante alcune spedizioni in loco a seguito delle immagini ad alta risoluzione delle Linee di Nazca ricavate dallo spazio.
 Questi sforzi, alla fine, hanno portato al rilevamento di nuove figure che hanno lunghezze che partono da 5 e arrivano fino a 100 metri. 

I nuovi geoglifi scoperti dal team di Sakai raffigurano una vasta gamma di cose e oggetti viventi, tra cui persone, uccelli, scimmie, pesci, rettili ma anche disegni astratti.

 Questi furono realizzati dall’antica cultura peruviana rimuovendo il terriccio nero roccioso sotto il quale vi era la sabbia chiara.






Sakai e i suoi colleghi hanno notato che i geoglifi più grandi, etichettati come di tipo A, tendevano a rappresentare animali. Questi si estendono per almeno 50 metri e in genere sono più tardivi nella linea temporale della civiltà di Nazca, ossia risalgono al 100-300 d.C.

 I geoglifi più piccoli, di Tipo B, sono in genere i più antichi e risalgono al periodo che va dal 100 a.C. al 100 d.C. Le figure di tipo B si trovano spesso su pendii e percorsi, quindi i ricercatori ritengono che potrebbero essere stati progettati come punti di riferimento per le persone. 
Le figure di tipo A, invece, sono spesso disseminate di frammenti di ceramica, suggerendo che fossero siti di cerimonie rituali che comportavano la rottura di oggetti. 

 Una delle figure di tipo B sembra rappresentare una figura umanoide ed è stata scoperta con l’aiuto di IBM Watson Machine Learning Community Edition, un modello di intelligenza artificiale. Il team di Sakai ha lavorato con l’IBM Thomas J. Watson Research Center negli Stati Uniti per addestrare l’intelligenza artificiale a scansionare le immagini satellitari della regione e contrassegnare così i siti promettenti per trovare nuovi geoglifi.

 

 I ricercatori hanno in programma di continuare a utilizzare le nuove tecnologie per trovare, mappare e classificare nuove figure eventualmente presenti. 
 Questo sforzo è importante non solo per comprendere la vasta estensione e complessità delle Linee di Nazca ma anche per aiutare a preservarle (ricordiamo che sono Patrimonio dell’Umanità Unesco). 


 Francesca Biagioli

martedì 19 novembre 2019

Il Putridarium delle Clarisse: lo scolatoio dove le monache purificavano il corpo delle defunte


Il Castello Aragonese è un edificio di straordinaria bellezza, che si trova sopra un’isolotto adiacente all’Isola di Ischia, di fronte all’isola di Procida. 

Situato nello splendido panorama del Golfo di Napoli, offrì rifugio e accoglienza agli Ischitani durante i turbolenti secoli delle incursioni dei pirati, quando dal mare arrivavano orde di assalitori in grado di razziare città e villaggi. 

 Nel 1575 il Castello, una vera e propria città con 13 chiese, un convento di monaci, una casamatta per la guarnigione e anche un vescovo e una cattedrale, si arricchì della presenza delle Clarisse, che giunsero al seguito di Beatrice Quadra, vedova di Muzio d’Avalos, che si insediò con quaranta suore provenienti dal convento di San Nicola. 

 Le suore erano destinate alla vita di clausura sin da giovanissima età, una misura adottata dalla famiglie nobili dell’epoca per evitare di dividere l’eredità in troppe parti, e in particolar modo per preservarla per i figli maschi.

 La storia del convento durò all’incirca 250 anni, e terminò nel 1810, quando il generale francese Gioacchino Murat soppresse tutti gli ordini religiosi per impossessarsi delle loro ricchezze.


 In questo lungo lasso di tempo le monache vissero e morirono in un territorio di straordinaria bellezza, adottando un particolare stratagemma per ricordare a se stesse la caducità della vita. Adiacente al cimitero monastico si trovava infatti il Putridarium, una piccola sala dove i corpi in putrefazione delle suore decedute venivano posizionati seduti in attesa che i batteri li disfacessero del tutto.


La sala era frequentata quotidianamente dalle monache (vive) che pregavano per le defunte e osservavano i cambiamenti del loro corpo.
 I cadaveri infatti “scolavano” i propri liquidi all’interno del foro posto sotto la seduta, purificando l’anima dalla carne, aspetto corruttibile dell’esistenza umana.

 Il Putridarium, o Scolatoio, era quindi una specie di purgatorio per le defunte, dove il corpo si liberava definitivamente delle proprie impurità per rimanere soltanto nella sua essenza, le ossa, che venivano in seguito sepolte nel cimitero adiacente. 

 Le monache che pregavano nella stanza avevano evidente la locuzione latina: 

 “Memento, homo, quia pulvis es, et in pulverem reverteris – 
Ricorda, uomo, che polvere sei e in polvere ritornerai”Che rischiava di tradursi in un presagio di morte rapidissimo. 

L’ambiente della stanza, piccola e senza finestre, era insalubre e contaminato dai batteri dei corpi in disfacimento, e spesso le monache si ammalavano a causa delle ore in preghiera spese al suo interno.


Conservatosi nel corso del tempo, oggi il Putridarium è visitabile all’interno del Castello Aragonese. 



Fonte: vanillamagazine

Ecco come si formano le “Uova di ghiaccio”, lo strano fenomeno fotografato su una spiaggia finlandese


Su una spiaggia dell’isola finlandese di Hailuoto sono comparse migliaia di stranissime “uova di ghiaccio”. 
Non si tratta di mostruosi chicchi di grandine precipitati dal cielo, come talvolta può accadere, bensì di affascinanti formazioni modellate dal moto ondoso e dal tocco delicato del vento. Affinché si formino queste “sculture” naturali, sono indispensabili specifiche condizioni meteorologiche.
 Il primo ingrediente per dar vita alle uova di ghiaccio è naturalmente una temperatura molto bassa, necessaria a far congelare l’acqua.
 Il secondo è un “nucleo” – come un pezzetto di ghiaccio o sabbia raggrumata – attorno al quale si raccolgono ulteriori strati di ghiaccio a causa del gelo.
 Il movimento ondeggiante del mare e il flusso del vento, che non deve essere troppo forte, né troppo lento, modellano e levigano la superficie esterna delle strutture ghiacciate in formazione, che alla fine vengono depositate sulla riva nella loro forma spettacolare.


A scoprire e immortalare le uova di ghiaccio sulla spiaggia Marjaniemi dell’isola nordica, sita tra Finlandia e Svezia, è stato l’appassionato di fotografia Risto Mattila, che stava facendo una passeggiata in compagnia della moglie. 

Come indicato alla BBC dall’uomo, “era una giornata soleggiata e ventosa, con una temperatura di – 1 gradi centigradi”. All’improvviso gli si è parato innanzi lo spettacolo, una distesa di palle di ghiaccio – più o meno sferiche – che si estendeva per una trentina di metri. 
Alcune era piccole come le palline di gomma utilizzate dai bambini per giocare, altre raggiungevano le dimensioni di un pallone da basket. 


Mattila ha dichiarato alla BBC che vive nella zona da 25 anni e non aveva mai osservato prima uno spettacolo simile. 

Del resto, come indicato, sono necessarie condizioni particolari affinché la natura dia vita a queste sculture. 
Fortunatamente l’uomo aveva con sé la fotocamera e ha potuto immortalarle nel miglior modo possibile.

 Anche un altro residente di Hailuoto, Ritva Rundgren, ha divulgato un video con il particolare e affascinante fenomeno. 


Recentemente in Siberia sono apparse enormi sfere di ghiaccio originate col medesimo principio, mentre in Alaska ne sono emerse di molto simili, ma con un curioso sperone appuntito in cima, probabilmente modellato dal vento forte 


 Fonte: scienze.fanpage.it

venerdì 15 novembre 2019

Scoperta in Bosnia una spada medievale conficcata nella roccia di un fiume


Una spada medievale, un fiume, un castello in rovina e un lungo oblio durato circa 8 secoli.

 Non si tratta di un nuovo film hollywoodiano sull’epopea di Re Artù, ma di un’eccezionale scoperta avvenuta nel fiume Vrbas in Bosnia ed Ergzegovina, nei pressi del villaggio di Rekavice, nel nord del paese. 
Durante un’immersione del club subacqueo RK BUK è stata scoperta una spada avvolta dalla roccia, una reliquia medievale antichissima situata a una profondità di soli 10 metri.
 I subacquei hanno contattato le autorità locali e si è proceduto al recupero, estremamente difficoltoso per la quantità di roccia e concrezioni che avevano avvolto il ferro.
 Lo storico Janko Vracar ha comunicato che, in base alle analisi della lama, la spada risale a un periodo di tempo fra la fine del 1200 e la prima metà del 1400.


L’archeologa Ivana Pandzic, curatrice del Museo della Repubblica Serba di Bosnia ed Erzegovina, ha osservato: “Il reperto era bloccato in una solida roccia, quindi era necessario prestare particolare attenzione al momento dell’estrazione.
 Questa è la prima spada che si trova vicino al sito archeologico della città medievale di Zvecaj, e l’importanza della scoperta è doppia, sia in campo scientifico sia in termini storici“.


La scoperta di un’antica spada come questa è estremamente rara nella regione. 
La lama antica più recente trovata nei balcani risale a oltre 90 anni fa.

 Il fiume Vrbas scorre vicino alle rovine di un castello medievale nella città di Zvecaj, dove anticamente vivevano i bosniaci dominanti dell’epoca.
 L’Ente per il turismo di Banjaluka spiega che gli archeologi ritengono che la fortezza a guardia della città sia antecedente al 1404, quando il Granduca di Bosnia, Hrvoje Vukčić, progettò di far rimuovere il re bosniaco Stephen Ostoja dal suo trono per sostituirlo con Tvrtko II Kotromanić. 
 L’azzardo mise in moto una serie di guerre che culminarono con la riaffermazione a sovrano di Stephen Ostoja, che reclamò per sé il trono e in seguito sposò la vedova di Hrvoje Vukčić, Jelena Nelipić. Il castello cambiò di mano molte volte prima di essere distrutto nel 1777, e oggi rimangono solo poche mura, per lo più abbattute, e parte di una torre, oltre a una casa privata. 

 La spada potrebbe raccontare molto di quel periodo che va dalla fine del XIII all’inizio del XV secolo nella Bosnia medievale. 


 Fonte: vanillamagazine.it

giovedì 14 novembre 2019

Il lago Gerundo e il drago Tarantasio


Provate solo un istante a concentrarvi su Google Maps o su una vecchia carta geografica e focalizzatevi sulla grande città metropolitana di Milano. 
Ora scendete un poco verso sud-est e fermatevi in corrispondenza del grande bacino idrografico formato dagli affluenti alpini di destra del Po: Adda, Lambro, Serio e Oglio. 
Molto bene. Quello che potete vedere è un fitto reticolato di corsi d’acqua naturali come i sopracitati e una serie di canali, di cui alcuni artificiali, creati nel corso dei secoli dalla mano dell’uomo al fine di poter irrigare al meglio le infinite campagne padane.
 In poche parole una sovrabbondanza di oro azzurro: l’acqua.


 E proprio dall’acqua parte la nostra storia. In questa vasta area infatti si hanno notizie di un grande bacino lacustre chiamato in tempi antichi Lago Gerundo e attualmente scomparso.
 Un grande specchio d’acqua di oltre 200 km, 2 di superficie e di una profondità massima di 10 metri. 
Andando più nel dettaglio locale, il lago era il cuore blu pulsante delle odierne Province di Lodi, Cremona e Bergamo.
 Curiosamente la sua forma può somigliare al grande cranio di un essere preistorico o di un alligatore che pare tuffarsi a capofitto sul placido Po che scorre ai suoi piedi.
 E fra poco vedremo come la scelta dell’alligatore come paragone sia tutt’altro che casuale. 

Ma per il momento torniamo al nostro lago arcaico.

 I primi accenni al lago (o mare) Gerundo risalgono all’epoca romana (se ne fa riferimento, ad esempio, nelle opere di Plinio il Vecchio) ma le descrizioni più dettagliate si hanno nel periodo medievale, negli scritti dello storico del VII secolo d.C. Paolo Diacono e di altri cronisti dell’epoca. 
Originatosi con tutta probabilità in seguito al ritiro dei ghiacciai durante il Pleistocene, il Gerundo si formò al di sopra di un’ampia zona ghiaiosa grazie alle esondazioni dei fiumi Adda, Serio e Oglio.


Il lago, che già a partire dal XI secolo d.C. andò riducendosi di estensione, si prosciugò definitivamente nel corso del XII secolo d.C. 

Tra le cause più accreditate di questa “misteriosa” scomparsa vi sono le ingenti opere di bonifica intraprese dai monaci cistercensi, benedettini e cluniacensi prima e dal comune di Lodi poi.

 Più che un vero e proprio lago, è probabile che il Gerundo fosse un insieme di paludi e acquitrini collegati dalle frequenti esondazioni dei fiumi circostanti. 
Ma come detto, questo bacino compensava la scarsa profondità con un’estensione ragguardevole. 

Pur essendo difficile tracciare dei confini precisi, nel momento della sua massima ampiezza arrivò a spingersi a Nord fino a Brembate, in Provincia di Bergamo, e a Sud fino a Pizzighettone, vicino a Cremona, lambendo con le sue acque la città di Lodi a Ovest e Grumello Cremonese a Est. 

Al suo interno, il lago conteneva una lunga striscia di terreno, detta isola della Mosa o Fulcheria, sulla quale in un periodo compreso tra il IV e il VI secolo d.C. fu edificata Crema. 

Testimonianze storiche del lago Gerundo, un nome che forse deriva dal termine ghiaia, di cui la zona era particolarmente ricca, sono rintracciabili nella toponomastica di molti paesi della zona dell’Adda e del pavese o, in maniera ancora più esplicita, nei nomi di vie o piazze, come ad esempio a Zelo Buon Persico, dove si trova tutt’oggi una piazza Lago Gerundo.

 Sul nome, fra l’altro, negli anni si sono accavallate diverse teorie. Secondo alcuni storici locali il termine potrebbe derivare dal greco “gyrus” (spira, curva), con riferimento ai meandri fluviali che abbondano nell’area. 
Mentre un’ipotesi più fantasiosa farebbe derivare il termine Gerundo dal greco Ăchĕrōn, ossia Acheronte, un fiume infernale nella mitologia greca, poiché il lago sarebbe dovuto essere paludoso, e quindi inospitale e malsano.

 Ed è in questo contesto fatto di acquitrini nebbiosi e inquietanti che è nata la leggenda del drago Tarantasio, una specie di mostro antidiluviano dal corpo di serpente, la grande testa cornuta di sauro, la lunga coda e le zampe palmate, con le sue varianti e i suoi particolari, tali da far impallidire i miti di Nessie e Larry, il mostro di Loch Ness e il mostro di Colico .

Recandosi nei luoghi sopracitati si riesce ancora a capire da dove derivi il nome “Tarantasio” e trovare traccia dei suoi misfatti nella tradizione orale e scritta.
 Esiste infatti una località chiamata Taranta, una piccola frazione tra Fara D’Adda e Cassano D’Adda che reclama insistentemente i natali della creatura. 
Ma non solo. Andando a investigare nella toponomastica di frazioni e piccoli comuni di questa area geografica troviamo innumerevoli vie “della bissa”, vale a dire della biscia o del serpente. 

Pare infatti che Tarantasio fosse una “viverna” ovvero, nella classificazione operata dal naturalista cinquecentesco Ulisse Aldrovandi, un particolare tipo di drago a forma di serpente con due zampe e due piccole ali, ed è sicuro che, come tutti i draghi, egli considerava gli esseri umani ed in particolare i bambini, le proprie prede preferite, aspettando ogni occasione propizia per uscire dall’acqua e compiere le sue temute scorrerie catturandone qualcuno. 


 Narra la leggenda che dopo la morte di Ambrogio, vescovo di Milano, un drago avrebbe insidiato la città meneghina, divorando gli incauti cittadini che osavano mettere il naso fuori dalle mura. Fu il nobile Uberto Visconti, armato di coraggio, il solo uomo ad affrontare il mostro e ad ucciderlo presso Calvenzano, dalle parti di Bergamo, con un colpo netto di sciabola.


 Da allora il biscione con un giovinetto in bocca compare nello stemma della città e della potente famiglia Visconti che vi regnò per lungo tempo. 


Vi sono poi diverse leggende, fra cui quella che ci narra le gesta di San Cristoforo, coinvolto su invocazione del vescovo di Lodi, nel prosciugamento del lago Gerundo per far sì che il drago fosse rinvenuto cadavere, come pure vi è quella che vede San Giorgio, spesso rappresentato come cacciatore di draghi nell’iconografia giudaico-cristiana, nel ruolo di colui che pose fine alle scorribande di Tarantasio. 
Ma la storia che più ci fa sentire vicini a quanto successe in quell’epoca remota sulle sponde del Gerundo è quella che ci narra del predicatore San Colombano, anch’egli famoso cacciatore di draghi, che arrivò in Italia proveniente dal Nord Europa.


Colombano, divenuto monaco quando ancora era un ragazzo, partì dall’Irlanda all’età di cinquant’anni. Insieme a dodici compagni iniziò a percorrere l’Europa diffondendo con la parola ed il proprio comportamento l’idea di una rinnovata ricerca di vera spiritualità. Giunto finalmente in Italia entrò in contatto con il re longobardo Agilulfo, dal quale ricevette l’incarico di occuparsi della “questione“ di Tarantasio.

 Una volta arrivato sulle sponde del lago il predicatore utilizzò le sue arti per attirare il mostro fuori dalle acque, che costituivano il suo naturale elemento, per affrontarlo ad armi pari. Trovatosi così all’asciutto il drago cercò subito di ghermire Colombano, ma non fu abbastanza veloce, tanto che il cacciatore ebbe modo di scansarsi per tempo e di colpirlo con il suo lungo bastone. 
Ferito gravemente, Tarantasio ricadde nel lago ed in breve scomparve tra i flutti facendo perdere le proprie tracce per un lungo periodo.


 Dopo parecchi mesi, in una località molto più a valle rispetto a quella dove si svolse il combattimento, fu rinvenuta un’enorme carcassa che venne subito attribuita al mostro scomparso.
 Oggi, nella zona, le città fanno a gara per accreditarsi come i custodi dei “veri” resti del drago. 
Alcuni sostengono che la tomba dell’essere mostruoso sia situata sull’isolotto Achilli, visibile attraversando il ponte sull’Adda a Lodi.
 Altri resti dello scheletro sarebbero stati conservati nella chiesa di Sant’Andrea a Lodi fino al 1700. 
Esistono numerose testimonianze scritte della presenza dello scheletro all’epoca. 

Inoltre, una costola faceva bella mostra di sé nella chiesa di San Cristoforo, sempre a Lodi, appesa alla volta fino all’inizio delle campagne napoleoniche in Italia nell’Ottocento.




Un medico di Lodi, tale Gemello Villa, riuscì ad esaminare la cosiddetta costola e nel suo referto scrisse che aveva “la lucidità delle ossa fresche”, sollevando così qualche dubbio sul fatto che fosse anche un semplice reperto fossile.

 Questa è l’ultima testimonianza dei resti del Tarantasio di Lodi perduti ormai per sempre assieme alle due lapidi marmoree che ricordavano gli eventi.
 Anche perché al tempo della campagna napoleonica il convento di San Cristoforo venne invece destinato a scopi militari e utilizzato come infermeria di fortuna: il campo di battaglia al Ponte di Lodi era vicinissimo al convento.
 Alla fine dell’Ottocento i locali del San Cristoforo vennero poi utilizzati come caserma militare e, dopo la Seconda Guerra Mondiale, adattati ad abitazioni civili.
 Altre “costole di Tarantasio” sono contenute in chiese e abbazie dei territori gerundi, anche se in realtà si tratta di reperti fossili di ossa di cetacei preistorici. 
La costola del drago lunga poco più di un metro e mezzo conservata nella sagrestia della Chiesa di San Bassiano a Pizzighettone in provincia di Cremona.
 Altra “costola” lunga più due metri e mezzo conservata nella Chiesa romanica di San Giorgio in Lemine nel comune di Almenno San Salvatore in provincia di Bergamo. 
Oppure una costola lunga quasi due metri conservata nel Santuario de “La Natività della Beata Vergine” a Sombreno nel comune di Paladina in provincia di Bergamo. 

Quest’ultima costola in particolare attirò l’attenzione del naturalista Enrico Caffi, che la identificò come appartenente ad un grosso esemplare di mammuth. 


Ma l’eredità del drago Tarantasio non si limita a suggestioni o leggende noir da raccontare ai bambini davanti al camino. 
Il suo lascito è molto più tangibile di quello che si possa credere.




Immergendoci tra le vie della metropoli milanese con occhio attento possiamo scorgere ovunque la presenza ancestrale del drago. Tarantasio infatti nel corso dei secoli è stato rappresentato anche come un serpente, mostro alato, drago, leone di mare o un enorme cane. 

Lo stesso stemma dell’Inter è un biscione, ripreso da questa leggenda tutta milanese, e anche nel logo dell’Alfa Romeo e di Mediaset troviamo la stessa iconografia.

 Perfino tra le guglie del Duomo è possibile scorgere un drago, molto simile a quello descritto e rappresentato da Aldrovandi nelle sue tavole bestiarie. 

Il drago è visibile praticamente ovunque a Milano, basta fare un po’ di attenzione e lo si potrà trovare sulle insegne comunali, sulle fontanelle pubbliche, le cosiddette “vedovelle” nella pavimentazione ed è perfino il nome di una città vicino Milano. 

Ma non è finita qui, Tarantasio è noto a livello internazionale, anche se pochi lo sanno, perché ha ispirato Luigi Broggini, uno dei principali scultori italiani a cavallo della Seconda Guerra Mondiale, che prese a modello Tarantasio per ideare l’immagine del cane a sei zampe, marchio simbolo di Eni. La società petrolifera fondata da Enrico Mattei avrebbe preso spunto dal mostro lacustre per tratteggiare quello sarebbe diventato il suo simbolo famoso a livello internazionale perché il primo giacimento di metano venne scoperto nel 1944 a Caviaga, frazione di Cavenago d’Adda, nel Lodigiano, in piena zona Gerundo.


L’odore pestilenziale che usciva dal terreno che per secoli le leggende dicevano fosse l’alito del drago, erano in realtà le esalazioni di gas naturale dovute ai depositi alluvionali stratificati, costituiti da sedimento paludoso molle con residui fossili.

 E qui, nel 1952, Agip trovò dei grossissimi giacimenti di metano che vennero commercializzati nel mondo sotto il marchio del cane a sei zampe, ovvero del drago Tarantasio. 

 Fonte: storiedimenticate.it

mercoledì 13 novembre 2019

Avvistato dopo 30 anni il cervo-topo, creduto estinto dagli scienziati


Gli scienziati credevano fosse ormai estinto, invece una telecamera lo ha immortalato in una foresta vietnamita: si tratta del cervo topo, una specie di cui non si avevano notizie da quasi trent’anni. L’ultima registrazione scientifica nota dell’animale risale infatti al 1990, quando un cacciatore ne uccise uno e donò il campione agli scienziati.

 Il cervo topo (Tragulus versicolor) è un piccolo animale, delle dimensioni di un coniglio, con il manto di due colori.
 La testa e la parte anteriore del corpo sono infatti color ruggine, mentre la zona posteriore è grigio-argento. 
L’animale ha poi delle macchie biancastre, generalmente a livello del collo e due canini particolarmente sviluppati, simili a due piccole zanne.


Il cervo topo è preda di leopardi, cani selvatici e pitoni, ma gli scienziati ritenevano che a causare l’estinzione dell’animale fossero state le trappole poste dai cacciatori, che uccidevano questi piccoli esemplari.

 In seguito alle segnalazioni degli abitanti della zona e delle guardie forestali vietnamite, che sostenevano di aver avvistato alcuni esemplari di cervo topo, un team di scienziati ha posizionato tre trappole fotografiche in diverse zone della foresta.
 Per cinque mesi le trappole hanno catturato ben 275 foto dell’animale in 72 eventi separati. 
I ricercatori hanno quindi installato altre 29 telecamere nella stessa area e scattato altre 1.881 fotografie, registrando 208 avvistamenti indipendenti. 

 Non è chiaro quanti esemplari siano rappresentati nelle fotografie e quale sia il numero di animali presente nella foresta, ma di certo il cervo topo vive ancora in natura, contrariamente a quanto si credeva. 


 I risultati della ricerca sono stati pubblicati sulla rivista Nature Ecology and Evolution e i ricercatori sottolineano come la sorprendente scoperta sollevi la necessità di azioni urgenti per proteggere ciò che rimane della popolazione di cervo topo.
 Una delle priorità principali è quella di ridurre l’uso di trappole per catturare animali selvatici, una misura che proteggerà non solo il cervo topo ma anche il resto della fauna, tra cui numerosi mammiferi e uccelli che si trovano solo in questa zona e che sono minacciati di estinzione.

 Questo tipo di caccia illegale, guidata dalla domanda di carne di animali selvatici nell’Asia orientale,  ha portato alla scomparsa di numerose specie perché le trappole possono catturare e uccidere indiscriminatamente quasi tutto ciò che cammina sul suolo della foresta. 

 La riscoperta del cervo topo ha inoltre riacceso le speranze per altre specie che gli scienziati considerano ormai estinte ma che potrebbero essere ritrovate di nuovo in natura. 
 Per ritrovare le specie perdute occorre la collaborazione delle comunità locali, come è avvenuto per il cervo topo.
 Le segnalazioni e la conoscenza del territorio dei residenti sono fondamentali per il lavoro degli scienziati, che altrimenti non saprebbero da dove partire per ritrovare specie credute perse per sempre. 


 Tatiana Maselli
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