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mercoledì 28 febbraio 2018

Scoperta una necropoli egizia dell’epoca di Cleopatra intatta, con decine di mummie


Nonostante si trovasse a soli pochi chilometri da una delle più note necropoli egizie, quella di Khum Tuna el-Gebel, un cimitero contenente decine di mummie è rimasto insepolto per circa 2.000 anni.
 Neppure tombaroli di provata esperienza sono mai arrivati a metterci le mani. E per questo la scoperta di un gruppo di archeologi egiziani risulta di particolare importanza. 

La necropoli, che si trova a sud del Cairo nel Governatorato di Minya, risale al tardo periodo faraonico, in particolare alla dinastia tolemaica, dal nome del capostipite Tolomeo Sotere, che governò l’Egitto ellenistico dal 305 a.C. al 30 a.C., cioè fino alla conquista romana e alla morte dell’ultima regina tolemaica, Cleopatra. 

 Stando al Ministro delle Antichità Kaled el-Enany la necropoli contiene otto tombe, con all’interno 40 mummie, ma ne potrebbe nascondere altre non ancora portate alla luce.
 Secondo il Ministro risulta particolarmente interessante una tomba che dai primi rilievi sembra appartenere a un sommo sacerdote di Thoth, l’antico Dio Egizio della Luna, della sapienza, della scrittura, della magia della misura del tempo, della matematica e della geometria. E’ rappresentato con una testa di Ibis, uccello che vola sulle rive del Nilo.
 Il sacerdote, identificato dai geroglifici sui vasi canopi come Djehuty-Irdy-Es, ricevette il titolo di “Uno dei Grandi Cinque”, che veniva riservato al più anziano dei sacerdoti del dio.


Quattro dei vasi canopi, scolpiti in alabastro e rivestiti con le teste dei quattro figli del dio Horus, sono stati portati in superficie ancora in buone condizioni, con all’interno gli organi conservati del sacerdote mummificato. 
 Il gruppo di archeologi ha portato alla luce anche un migliaio di “ushabti”, (in egizio significava “quelli che rispondono”), piccole figure di terracotta smaltata che costituivano un elemento integrante del corredo funebre, in quanto rappresentavano forze costruttive positive che aiutavano il defunto nel passaggio verso l’aldilà.


Di solito le ushabti rappresentano servi o seguaci che venivano collocati nelle tombe egizie per accompagnare il defunto nell’aldilà. 

Non c’è dubbio che Djehuty-Irdy-Es apparteneva all’alto rango della società, in quanto era ornato con un collare di bronzo raffigurante la dea Nut che apre le ali per proteggere il defunto nel suo viaggio. 
Sulla mummia vi erano anche perline blu e rosse di pietre preziose, due occhi di bronzo decorati con avorio e cristallo e quattro amuleti di pietre semipreziose.

 In un’altra tomba è venuto alla luce quel che sembra un gruppo familiare, ma è ancora presto per capire i rapporti esistenti tra le varie mummie. 
Duranti gli scavi sono stati rinvenute anche delle ossa di persone che non erano state mummificate. 

Lo scavo è iniziato alla fine dell’anno scorso ed è guidato da Mostafa Waziri, Segretario generale del Supremo Consiglio delle Antichità. “Quanto è venuto alla luce finora – ha detto Kaled el-Enany – richiederà almeno 5 o 6 anni di studi per arrivare ad avere un quadro della situazione, ma la ricerca potrebbe portare altre sorprese e tempi di studio molto più lunghi”. 

 Fonte: businessinsider.com

martedì 27 febbraio 2018

Eccezionale scoperta in Inghilterra: rinvenuti rari guantoni d’epoca romana


Un ritrovamento certamente inusuale è venuto alla luce durante la campagna di scavo a Vindolanda, sito archeologico a meridione dell’ Hadrian’s Wall (Vallum Hadriani) che tracciava l’antico confine della provincia romana della Britannia con la Caledonia, restituendoci le uniche fasce di cuoio tipiche dei combattimenti romani permaste integre sino ai nostri tempi.

Esistevano antichi scritti sul pugilato, sport abbastanza documentato in particolar modo nelle fonti greche tra le quali il filosofo Platone.
 In ambito romano l’esercito praticava il pugilato per stimolare la forma fisica e le competenze combattive, svolgendo anche gare davanti agli spettatori.
 I caestūs ed il loro uso sportivo ci erano stati sinora testimoniati figurativamente soltanto tramite pitture murali, mosaici e statue del periodo, come la scultura bronzea del Pugile in riposo attribuita a Lisippo (IV sec. a.C.); pertanto la scoperta di esemplari reali rappresenta un’assoluta novità.


Risalenti al 118-120 d.C., simili guantoni furono realizzati con materiale ammortizzante atto a proteggere dall’impatto l’area delle nocche, alle quali è capace di adattarsi e di cui tuttora conserva l’impronta del suo remoto indossatore.
 Tali guanti da battaglia risultano perfettamente adattabili ancor oggi ad una mano moderna. 
Sebbene aventi uno stile e una funzione analoghi agli attuali guantoni da pugilato, somigliano più a delle fasce imbottite di pelle. 
Probabilmente venivano adoperati per esercitarsi, in quanto aventi un bordo più morbido rispetto ai letali inserti metallici tipici dell’antico pugilato professionale.


Benché caratterizzati da uno stile similare, non costituiscono una coppia corrispondente.
 Patricia Birley, l’esperta che li ha esaminati, ha individuato nel più grande dei guanti un segno di riparazione con una toppa circolare, indice della volontà del suo possessore di recuperarlo e conservarlo. 

Il loro rinvenimento avvenne fortuitamente lo scorso anno al di sotto del forte del quarto secolo di Vindolanda, una caserma della cavalleria romana vicino la città di Hexham, durante gli scavi diretti dallo studioso Andrew Birley.

 I guanti vennero scovati accanto ad alcune tavolette per scrivere, spade, zoccoli e scarpe da bagno.
 Gli archeologi coinvolti sono rimasti notevolmente sorpresi dai meravigliosi beni militari e quotidiani appartenuti a uomini di duemila anni fa e alle loro famiglie: tra questi vanno indubbiamente menzionate delle spade integre, anch’esse rare nelle province nord-occidentali dell’impero romano.

 I resti risultano in un pressoché perfetto stato di conservazione, a causa del loro nascondimento al di sotto del pavimento di cemento compiuto dai Romani una trentina di anni dopo l’abbandono della caserma a causa di una ribellione britannica: l’assenza di ossigeno ha dunque ostacolato la decomposizione di materie quali legno e cuoio, consentendo il mantenimento di inediti reperti finalmente ammirabili presso il Museo di Vindolanda. 
Pertanto non ci resta che osservarli direttamente, in attesa degli esiti dei futuri scavi previsti nel mese di aprile.

 Fonte: mediterraneoantico.it

L'antica leggenda buddista sui gatti


I gatti sono esseri meravigliosi e fin dall'antichità vengono trattati con profondo rispetto perché per molte civiltà, sono i guardiani che proteggono le nostre anime. 
Secondo una leggenda buddista sono simbolo di spiritualità, pace ed unione.

 E’ innegabile, i gatti sono tra gli animali più affascinanti e da sempre sono al centro delle civiltà più antiche.
 In Cina ad esempio, si credeva che il loro sguardo potesse scacciare gli spiriti maligni o ancora nell’antico Egitto esisteva la convinzione che durante la notte, i raggi del sole si nascondessero negli occhi dei gatti per rimanere al sicuro.
 I gatti sono poi presenti in diverse tradizioni popolari, ricordiamo ad esempio che la Dea Bastet viene rappresentata come un bellissimo gatto nero o una donna con una testa di gatto.


Questa divinità era un simbolo positivo di armonia e felicità, protettrice della casa, custode delle donne incinte e capace di tenere lontani gli spiriti maligni.


Per il buddismo i gatti sono simbolo di spiritualità, animali che riescono a trasmettere armonia e calma ed è per questo che l’essere umano, per poter amare incondizionatamente questo felino, deve prima entrare in connessione con se stesso.

 Molto spesso capita poi di vedere dei gatti che dormono su statue di marmo buddiste o anche di imperatori romani. 
Perché lo fanno?
 E' probabile che questo comportamento derivi dal fatto che le grandi statue di pietra o di metallo si riscaldano durante il giorno e trattengono il calore, mentre altre superfici tendono a freddarsi. E i gatti, si sa, amano crogiolarsi in luoghi ben caldi.

 Più suggestiva è la leggenda che esiste da secoli in Thailandia, vediamo qual è. 

 Anche Buddha viene rappresentato qualche volta con un gatto accovacciato ai suoi piedi, ciò perché porta pace e unione nei templi dei paesi asiatici. 
La leggenda affonda le sue radici nel buddismo theravada che letteralmente significa “la scuola degli anziani“, che dà origine al ‘Libro delle poesie e dei gatti’ chiamato anche Tamra Maew che attualmente è conservato nella biblioteca nazionale di Bangkok. Proprio in uno dei papiri che compongono questo libro, si narra la leggenda buddista sui gatti che parla di morte e spiritualità, ma anche di reincarnazione dell’anima.


Secondo il buddismo quando una persona moriva, accanto al corpo veniva posto un gatto, ovviamente la cripta possedeva una fessura per permettere al felino di uscire liberamente. 
Se il gatto lo faceva, si era sicuri che l’anima del defunto si fosse reincarnata nel corpo dell’animale. 
Solo in questo modo, si poteva raggiungere la libertà verso l’ascensione.

 Per l’ordine buddista Fo Guang Shan, invece, i gatti sono dei piccoli monaci, ovvero come persone che hanno già raggiunto l’illuminazione.

 Dominella Trunfio

lunedì 26 febbraio 2018

Wave Rock: l’incredibile roccia a forma di onda in Australia


La Wave Rock è una formazione rocciosa naturale che si trova nell’Australia occidentale, 340 km a sud-est della città di Perth.
 La particolarità di questa roccia è la sua incredibile forma, che ricorda molto un’onda, di quelle tanto amate dai surfisti. 

 La spettacolare onda di pietra è alta circa 15 metri e lunga 110 metri e forma il lato nord di una collina di granito, nota come Hyden Rock. 
Wave Rock e Hyden Rock fanno parte di Hyden Wildlife Park, una riserva naturale di 160 ettari, considerato tra i luoghi dell’Australia più belli da visitare.

 La Wave Rock si è formata dall’erosione di agenti atmosferici come vento e pioggia, che hanno creato, nei millenni, delle strisce verticali grigie, ocra e rosse sul granito, conferendogli la particolare forma di onda che sta per infrangersi. 
I colori di questa roccia, causati dai minerali di cui è composta, sono incredibili e creano delle composizioni di luce ogni volta diverse, a seconda dell’ora del giorno e della stagione.

 Gli studiosi fanno risalire questa meraviglia a circa 2,7 miliardi di anni fa e pare che originariamente fosse sepolta dal suolo.
 In seguito all’erosione, la parte di granito è emersa con tutta la sua imponenza e la sua affascinante bellezza. 

 Ogni anno, circa 100.000 turisti affollano la zona, attirati dalla spettacolarità della roccia.




Inoltre, nel parco circostante, è possibile incontrare molte specie animali: dai canguri bianchi ai koala, dai cammelli ai cigni, agli uccelli esotici, molto apprezzati soprattutto dagli appassionati di birdwatching.
 In primavera, fioriscono tante varietà di fiori selvatici e anche delle orchidee dalle forme più strane e rare. 

 Tutta la regione di Wave Rock è stata per anni evitata dagli aborigeni, forse per qualche leggenda o, semplicemente, perché situata in una zona molto arida. 


Fonte: siviaggia.it

venerdì 23 febbraio 2018

Perché i Collagua del Perù avevano il cranio allungato?


Oggi a nessuno viene in mente di allungare volontariamente il cranio dei neonati, ma in passato la dolicocefalia, come si chiama in gergo tecnico, era una pratica diffusa a diverse latitudini, Europa compresa. 

 Un team di studiosi ha analizzato i crani di alcune donne dei Collagua, una popolazione stanziale della valle del Colca (Perù) tra il 1100 e il 1450, e ha ipotizzato che questa pratica potesse avere un'importante funzione sociale, come spiegato nell'articolo pubblicato sulla rivista Current Anthropology.


I ricercatori hanno condotto un'analisi chimica sulle ossa dei crani deformati. 
Hanno potuto così constatare che rispetto alla media della popolazione, le donne dolicocefaliche avevano una dieta più varia - appartenevano quindi probabilmente a un ceto sociale più elevato. Inoltre, mostrano meno segni di violenza fisica.

 Secondo Matthew Velasco, della Cornell University, autore dello studio, la conformazione del cranio era l'equivalente di una bandiera: ad averlo allungato erano le elite dominanti, che lo esibivano con orgoglio.
 Gli studi suggeriscono che chi "indossava" questo simbolo si occupava anche di scambi agro pastorali con le popolazioni vicine, con le quali prendeva decisioni comuni, cosa che potrebbe aver favorito una gestione più pacifica dei conflitti.
 In quegli anni le occasioni di conflitto infatti non mancavano: le popolazioni locali se la dovettero vedere con l'ascesa dell'impero Inca, che a partire dal XIII secolo si impose sui vicini, in alcuni casi assimilandoli e in altri conquistandoli.

 Prima che gli Inca avessero la meglio ci fu un periodo di transizione: fu soprattutto in questa fase, secondo gli studiosi, che le elite dominanti, per riconoscersi e fare fronte comune contro il nemico, praticarono la dolicocefalia, intervenendo con fasciature e "stampi" sulle ossa ancora elastiche dei neonati.

 La pratica fu bandita dagli invasori spagnoli, i conquistadores, nel XVI secolo. 

 Fonte: focus.it

giovedì 22 febbraio 2018

È morto l’uccello più solo del mondo, innamorato di una compagna di cemento


Se siete amanti degli animali questa storia non potrà lasciarvi indifferenti. 
 E neppure se siete dei romantici e credete che l’amore non conosca nessun tipo di barriera. 

 Questa è la storia di Nigel, esemplare di sula australiana (Morus serrator) conosciuto da tutti come l’uccello più solo del mondo. Fidatevi, purtroppo per Nigel, è proprio così. 

 Nigel viveva sull’isola di Mana, in nuova Zelanda, e ci viveva da solo. 
A fargli compagnia solo tanti esemplari finti di sula in cemento. Ora vi spieghiamo meglio.

 40 anni fa le sule decisero di abbandonare l’isola, al tempo invasa da ratti e topi, così dopo un piano di eradicazione dei toponi, vent’anni fa il Department of conservation – Te Papa Atewbai (ente che si occupa di conservazione ambientale) ideò un metodo per tentare di ripopolare l’isola: piazzare ottanta statue di sula.
 Delle repliche esatte di Nigel finemente dipinte. Tanto perfette da ingannare un uccello vero.
 Le statue di cemento insieme a versi lanciati da altoparlanti avrebbero dovuto attirare sull’isola di Mana numerosi esemplari di uccello marino in modo da ripristinare la fauna locale.
 Purtroppo però il piano non ha funzionato. 
 L’unico che è stato attirato sull’isola è stato proprio Nigel che arrivò nel 2013. 
 La storia triste? È stato l’unico. 
E non solo. Si è innamorato di una sula di cemento. 
Per cinque anni l’ha corteggiata senza tregua, le puliva le finte penne con le becco e oltre a dedicarle versi amorosi e le aveva persino costruito un nido che teneva sempre pulito. 
Se non è fedeltà questa. E anche dedizione. 
Questo è un vero esempio di Amore con la A maiuscola. 
Peccato che la pennuta di cemento non abbia mai potuto godere di tutto questo.






Solo nel Natale 2017 sono arrivati sull’isola altri esemplari reali di sula ma purtroppo non hanno legato con Nigel che ai compagni in carne e piume ha sempre preferito la sua innamorata di cemento. 

Nigel è morto qualche giorno fa e il suo corpo è stato ritrovato di fianco alla sua compagna-statua che ha amato per tanti anni. 
Ha scelto di addormentarsi proprio di fianco a lei. 

 Chris Bell, la ranger che ha trovato il corpo di Nigel ha dichiarato: «Che fosse o meno solo, certamente non ha mai avuto niente in cambio, e questa deve essere stata un’esperienza davvero strana. Penso che tutti abbiamo molta empatia per lui, perché ha vissuto questa situazione abbastanza disperata». 

 Povero Nigel. Così solo ma anche così innamorato.

 Fonte: 105.net

mercoledì 21 febbraio 2018

L'alveare a spirale della Tetragonula carbonaria


Api, animali davvero incredibili.
 Lo sapevamo già ma la Tetragonula carbonaria è ancora più speciale. 
Un vero e proprio architetto visto che è in grado di costruire alveari a spirale.

 Nota anche come "sugarbag", la tetragonula carbonaria è un'ape senza pungiglione, endemica della costa nord-orientale dell'Australia. 
L'ape è nota per impollinare specie di orchidee come Dendrobium lichenastrum, D. toressae e D. Speciosum. 
Rispetto alle altre sue simili, è leggermente più piccola e ha una struttura sociale altamente sviluppata paragonabile alle api mellifere.
 Ma la vera particolarità della Tetragonula carbonaria è il modo in cui realizza il suo nido. 
Si tratta di alveari a spirale a singolo strato completamente diversi da quelli piatti. 
Hanno un solo ingresso e sono rivestiti da uno strato appiccicoso che aiuta a intrappolare gli agenti patogeni per impedire loro di entrare. 
Un sistema di difesa ingegnoso visto che queste api non pungono ma mordono e iniettano un acido formico irritante. 

 Questi suggestivi alveari hanno una forma allungata in senso verticale e con un orientamento regolare in senso orario. Sono costruiti con cera marrone e ospitano uova e larve.
 Si tratta di costruzioni piatte che salgono gradualmente.
 In questi alveari complessi, le singole celle devono essere costruite a diverse altezze per mantenere in movimento la struttura.


L'entomologo ed ex ricercatore del CSIRO, Tim Heard, ha osservato per 30 anni queste api scoprendo che "sono insetti altamente sociali, con una regina e migliaia di lavoratori che vivono insieme in un luogo protetto, che, in natura, è di solito in un albero cavo".


Una volta pronto l'alveare, la regina depositerà le uova nelle celle, cinque minuti dopo le api operaie torneranno a sigillarle. 

 Francesca Mancuso

All'origine delle aurore pulsanti


I bagliori che illuminano le notti alle latitudini boreali e australi più elevate sono chiamati genericamente aurore.
 Ma le aurore non sono tutte uguali.
 Quelle più spettacolari che si vedono spesso sui desktop dei computer, per esempio, sono chiamate aurore discrete. 
Quelle che invece variano in modo quasi periodico nell’arco di alcuni secondi o decine di secondi sono chiamate aurore pulsanti. 

Uno studio pubblicato su “Nature” da Satoshi Kasahara dell’Università di Tokyo e colleghi conferma ora per via sperimentale la teoria più accreditata per spiegare le aurore pulsanti.


Mentre il processo che genera le aurore discrete ha inizio a migliaia di chilometri al di sopra della superficie terrestre, quello che riguarda le aurore pulsanti comincia a decine di migliaia di chilometri di altitudine, nella regione equatoriale della magnetosfera, ovvero nella zona dello spazio dominata dal campo magnetico della Terra.

 Alcuni decenni fa, era stato ipotizzato che le aurore pulsanti fossero figlie dell’interazione tra gli elettroni della magnetosfera e il cosiddetto “coro”, un insieme di fluttuazioni elettromagnetiche, così chiamato perché oscilla con frequenze che possono essere facilmente convertite in un suono che possiamo sentire.
 Per effetto di questa interazione, gli elettroni sono proiettati verso la Terra lungo le linee del campo geomagnetico. 
 Detto in altri termini, molti elettroni presenti nello spazio si muovono intorno alla Terra e tendono a seguire le linee del campo geomagnetico. Quando incontrano il coro, possono essere indirizzati in una regione della porzione superiore dell’atmosfera chiamata ionosfera, compresa tra circa 60 chilometri e circa 450 chilometri di quota; ed è intorno a circa 100 chilometri di altitudine che spesso generano la luce aurorale.


Il processo che si produce nella ionosfera è paragonabile alla produzione di immagini sui vecchi schermi e televisori a tubo catodico, in cui un fascio di elettroni, incidendo su un sottile strato di fosforo ne causa la luminescenza.
 Nel caso della ionosfera, gli elettroni possono urtare contro atomi e molecole dei gas che compongono l'atmosfera, portandoli in uno stato eccitato.
 Nel tornare allo stato non eccitato, quegli stessi atomi e molecole emettono la radiazione luminosa delle aurore.
 La quasi periodicità di questa luce riflette le fluttuazioni nella popolazione di elettroni che deriva dalle oscillazioni delle onde del coro.


Nel 2016, il lancio del satellite Arase da parte dell’Agenzia spaziale giapponese (JAXA) ha permesso di osservare direttamente queste interazioni. 
In particolare, Arase ha registrato dati durante un'aurora verificatasi il 27 marzo 2017. 
L’analisi dei dati effettuata da Kasahara e colleghi ha rilevato elettroni provenienti dalla magnetosfera e dotati di energia elevata, fino a decine di chiloelettronvolt (migliaia di elettronvolt, unità di misura dell’energia per le particelle) mentre erano diffusi dalle onde del coro, determinando una pioggia di elettroni nell’atmosfera superiore. 

 Il risultato dimostra l’enorme potenziale della tecnica nel verificare e perfezionare gli attuali modelli del campo magnetico terrestre, grazie al confronto con rilevazioni nello spazio e con il campo magnetico di altri pianeti come Giove e Saturno. 
Anche su questi ultimi, infatti, gli strumenti hanno rilevato la presenza di onde di coro. 


Fonte: lescienze.it

lunedì 19 febbraio 2018

Royal Delft, la ceramica olandese compie 365 anni


Dire Olanda non significa parlare solamente di tulipani, coffee shop e mulini a vento. 
Il 2018 è sicuramente l’anno giusto per scoprire la ricchezza di questo Paese inserendolo nella propria wishlist delle mete vacanziere.
 Ebbene sì, ogni città è pronta a stupire con piacevoli sorprese. Qualche esempio? Nijmegen è stata nominata Capitale Europea Green mentre Leeuwarden è la nuova Capitale Europea della Cultura. 

Che dire invece di Delft? 
In molti la chiamano la “Piccola Amsterdam” ma lei, cittadina dell’Olanda Meridionale, brilla di luce propria.
 E’ un vero contenitore di magia che, tra antico e moderno, sa come emozionare.


La ceramica di Royal Delft 
La sua fama è legata principalmente al celebre pittore Johannes Vermeer, alla Casa Reale, alla sua Università e ovviamente alla Royal Delft, fabbrica di ceramica fondata nel 1653 che, proprio quest’anno, compirà 365 anni e non mancherà occasione per commemorare l’anniversario.
 Parliamo dell’unica realtà ancora attiva delle 32 fondate in città nel 17 ° secolo, epoca in cui i ceramisti locali iniziarono a imitare la ceramica cinese proponendo una rivisitazione a buon mercato.


Ebbene sì, la porcellana era un materiale sconosciuto nei Paesi Bassi e così gli addetti ai lavori tentarono di imitare i prodotti orientali come potevano, ovvero avvalendosi dell’argilla locale rivestendola poi, dopo essere stata cotta, con uno smalto stannifero. Nonostante ciò, tra il 1600 e il 1800 divenne molto popolare, soprattutto tra le famiglie benestanti
.







Per ripercorrere il glorioso passato della ceramica, conoscendone tanto la storia quanto il processo di produzione, non resta che fare tappa al museo della Royal Delft e, una volta placata la sete di cultura e curiosato nello showroom, vale la pena spostarsi nella fabbrica per vedere gli artigiani che, oggi come ieri, dipingono a mano bellissimi manufatti. 
Finito il tour, ci si può rilassare nella splendida terrazza della brasserie, sita nel giardino del cortile, una vera perla nascosta dove degustare delizie come il Delft Blue High Tea. 

 Fonte: lastampa.it

giovedì 15 febbraio 2018

La Grotta del Cavallone, la più alta d’Europa


Solo raggiungere la grotta è un’esperienza che vale il viaggio.
 Dalla Val di Taranta Peligna, nel Parco nazionale della Majella, in Abruzzo, parte una particolare funivia che chiamarla con questo nome è riduttivo.
 Si tratta in realtà di una cestovia, come ce ne sono poche ormai, un vero e proprio cesto di metallo che può alloggiare al massimo due persone e che attraversa la valle passando da 750 metri di altitudine a 1300 in pochi minuti.
 Minuti che non passano mai se ci si guarda attorno per ammirare lo spettacolo che la natura abruzzese regala.

 La funivia è parte fondamentale del viaggio alla scoperta della Grotta del Cavallone e che permette di giungere, con riverente lentezza, ai piedi della salita alla grotta, scavata nella roccia nel 1894. 
In realtà, la prima traccia di una esplorazione fatta risale al 1666, una data facilmente individuabile per via di un’incisione su una roccia.


Scesi dalla cestovia, col naso all’insù, non si farà fatica a immaginare l’ingresso dell’immensa cavità come un occhio di cavallo incastonato nella parete la cui forma ricorda proprio un muso equino. 
È esattamente da questo richiamo che sembra derivi il nome ‘Cavallone’. 

 La Grotta del Cavallone non è una grotta qualunque: è la grotta naturale visitabile più alta d’Europa e si trova a 1.475 metri.

 È una grotta di grande interesse speleologico. Per accedere al suggestivo atrio ci sono circa 300 scalini, scavati nella roccia da abili scalpellini. 
Prima del 1894 vi si accedeva tramite delle corde tese dall’alto ed era un’impresa riservata solo a pochi temerari.
 Oggi possono visitarla tutti.


Il percorso all’interno si snoda per circa due chilometri, si divide in una galleria principale e in tre diramazioni secondarie.
 Attraversa sale di grande interesse, con innumerevoli stalattiti e stalagmiti. 
Vale la pena di ricordarne alcune, come la Foresta incantata, la Sala degli Elefanti, il Pantheon o la Sala delle Statue. È talmente grande che durante la Seconda guerra mondiale veniva usata dagli abitanti del luogo come rifugio.






La grotta è famosa nella letteratura teatrale per essere stata l’ambientazione della tragedia pastorale La figlia di Iorio scritta da Gabriele d’Annunzio. 
Nel testo la grotta ha valori simbolici e addirittura magici, perché vi si nascondono gli amanti Aligi e Mila.

 Aligi è un giovane di buona famiglia che deve sposare una donna a lui promessa, ma che s’innamora di Mila; quest’ultima è una giovane popolana che, a causa dei pregiudizi dei contadini, è creduta essere una strega malefica e per questo deve essere linciata, ma Aligi riesce a proteggerla nascondendola proprio dentro la grotta.

 Da queste parti infatti è conosciuta più come la grotta della Figlia di Iorio. 
Se chiedete indicazioni è bene ricordarlo. 

 Fonte: siviaggia.it

Arabia Saudita, scoperta una misteriosa carovana di dromedari scolpita nella pietra a grandezza naturale


Scolpita nella pietra rossa, a grandezza naturale.
 Un’insolita carovana di dromedari è stata scoperta nella provincia di Al Jawf, in Arabia Saudita. 

A individuare i bassorilievi, descritti sulla rivista Antiquity di Cambridge, è stato un gruppo di archeologi del Consiglio Nazionale delle Ricerche francese e della Commissione per il Turismo e il patrimonio nazionale saudita.

 L’arte dei cammelli esiste nella regione da millenni, ma nulla di simile è stato trovato prima d’ora. Stiamo parlando di una dozzina di sculture in pietra, eseguite su tre speroni rocciosi, databili intorno a duemila anni fa.


Il Camel Site, così è stato battezzato il luogo del ritrovamento, è situato nel nord-ovest dell’Arabia Saudita, vicino alla Giordania: una zona altamente inospitale, varcata solo dai nomadi. E oltre a gettare nuova luce sull’evoluzione dell’arte rupestre nella penisola arabica, questa scoperta ha lasciato perplessi gli archeologi. 

Perché è stato scelto un luogo così remoto e ostile per scolpire dei dromedari? Significavano qualcosa? Gli antichi bassorilievi non sono rari nel Vicino Oriente, dalla Turchia alla Mesopotamia. 
Sono invece rari in Arabia. E ad oggi non sono state rinvenute altre opere artistiche paragonabili.


Alcune sculture sono incomplete, altre sono state distrutte in parte dall’erosione. 
Tuttavia, i ricercatori sono stati in grado di identificare una decina di rilievi che rappresentano dromedari e asini, un animale, quest’ultimo, raramente rappresentato nell’arte rupestre. 

 La scarsità di esempi e altre testimonianze ha impedito la comprensione della funzione e del contesto socio-culturale di questa opera d’arte. 
A intricare ancor più la trama di questo mistero è l’assenza di altri indizi sull’origine. Non sono stati rinvenuti infatti martelli, picconi o qualsiasi altra prova di insediamenti umani nella zona. 

 La sua posizione nel deserto e la vicinanza alle rotte carovaniere suggeriscono che Camel Site possa essere un luogo di sosta o di culto.
 Potrebbe essere stato un luogo di venerazione, visto che il cammello era considerato «un dono del Cielo», un animale sacro. Ma si ipotizza che possa essere anche un «marker di confine» fra proprietà. 
Decisamente estroso, ma sicuramente ben visibile. 


 Fonte: lastampa.it

martedì 13 febbraio 2018

Una tigre dentro il pacco postale: l'orrore del traffico illecito di animali


Chiuso in un contenitore di plastica e spedito dentro un pacco postale come se fosse un oggetto qualsiasi. 

Parliamo di un tigrotto del Bengala salvato da una morte certa soltanto grazie al fiuto di un cane poliziotto. 

 Una scena incredibile e surreale quella che si sono trovati davanti gli ispettori doganali della polizia messicana di Jalisco che hanno trovato un tigrotto all’interno di un pacco postale. 
Poco più di due mesi, sedato, l’animale viaggiava in un contenitore di plastica che sarebbe dovuto arrivare a una cittadina dello stato centrale di Queretaro.


Ma fortunatamente il suo viaggio si è fermato alla dogana grazie al fiuto di un cane poliziotto che ha insospettito gli agenti a tal punto da aprire il pacco postale. 

Il tigrotto del Bengala, completamente disidratato, ma nel complesso in buone condizioni è stato affidato alle cure dei veterinari del centro di animali esotici della zona. 

 Il pacco era stato spedito il 7 febbraio e avrebbe dovuto affrontare 350 chilometri di tragitto, la tigre era avvolta in un sacchetto di plastica e non si riesce a capire come sia riuscita a non soffocare. 

L’agenzia di controllo sta adesso analizzando i documenti trovati accanto al cucciolo, così da poter risalire al fautore di questo gesto scellerato, per lui l’accusa sarà quella di maltrattamento di animali.


Le foto sono state pubblicate dall’account Twitter della Polizia federale del Messico, che sta ancora indagando sul caso, ma purtroppo come sappiamo il traffico illegale di animali non è una novità. 19 miliardi di euro l’anno è il giro d'affari che ruota attorno al commercio illegale di animali che continua a crescere nonostante gli sforzi congiunti da parte della comunità internazionale, dei governi e della società civile. 

 Dominella Trunfio

Il paradiso surrealista di Edward James


Fu il culmine di un sogno cominciato in Scozia e materializzatosi in Messico. 

Considerato uno dei capolavori del surrealismo, Las Pozas di Xilitla è un intreccio di 36 sculture ispirate alle orchidee e alle forme egizie (ponti, scale, porte) che si fondono con un bosco di piscine naturali (pozze) a nord di San Luis Potosí.

 Quest’area di quasi 40 ettari rimase abbandonata per anni, con il muschio e la pioggia che, nel frattempo, divoravano le figure esoteriche progettate dal poeta e scultore scozzese Edward James.
 Il suo nome è scolpito tra i grandi del surrealismo, movimento artistico nato tra le due guerre mondiali, assieme a quello di Salvador Dalí o del pittore belga René Magritte, a cui James fece da mecenate.


Dal 2007 il Fondo Xilitla è la fondazione che vigila sulla sua preservazione e diffusione, anche se raggiungere la foresta continua a essere un’impresa piuttosto avventurosa. Dalla capitale dello stato sono necessarie quattro ore di auto. Fu scoperto da James negli anni quaranta, grazie a Plutarco Gastélum, un giovane di origine yaqui che diventerà il suo braccio destro e di cui si nnamorò. O almeno secondo quanto afferma Irene Hernes nel suo libro “Edward James y Plutarco Gastélum en Xilitla. El regreso de Robinson” (Edward James e Plutarco Gastélum. Il ritorno di Robinson”. 

Doppiamente ereditiero e figlio di un re Edward James ereditò due delle più grandi fortune del Regno Unito, quella di suo padre William James e di suo nonno, il commerciante statunitense Daniel James. 
Sul suo conto si narrava anche la leggenda, da lui stesso alimentata, che il suo vero padre fosse in realtà il re Edoardo VII. 

 Dopo aver appoggiato il movimento surrealista, si recò a Los Angeles con l’idea di costruire un luogo che aveva sognato: Il Giardino dell’Eden.

 Bridget Bate Tichenor, sua cugina nonché pittrice, lo convinse a cercare il luogo ideale al di sotto dei confini della California, nella foresta vergine del Messico. 
Nel suo viaggio verso sud conobbe Gastélum, un incontro quasi predestinato che unirà i due fino alla morte.

 Dopo varie esplorazioni, nel 1947 i due uomini si trovarono immersi nella fitta vegetazione della Sierra Huasteca.
 Per dieci anni, James riempì il luogo scelto con orchidee e animali esotici e allo stesso tempo ricevette artisti in pellegrinaggio, a supporto della sua iniziativa. 
Visse tra il verde di Xilitla e l’Europa, tra poemi e viaggi astrali. 

All’inizio degli anni sessanta, una gelata uccise le orchidee e fu allora che decise di costruire il giardino, un progetto che lo tenne impegnato per quasi venti anni. 
Vi investì cinque milioni di dollari, denaro che ottenne vendendo una parte della sua collezione personale di dipinti surrealisti. 

“Ho costruito questo santuario affinché fosse abitato dalle mie idee e dalle mie chimere”, confessò.
















Nel giardino si trovano strutture di cemento, come scheletri preistorici, che uniscono le cascate ai laghetti. 
“La scala per il cielo”, “la casa su tre piani che potrebbero essere cinque” o “il cinematografo”, uno spazio dove il mecenate proiettava pellicole ai contadini della zona, sono solo alcune delle sue opere.


“Ho visto tanta bellezza, come forse nessun altro uomo. 
Sarò quindi grato di morire in questa piccola stanza, circondato dalla foresta, grande oscurità verde, solo dalla mia oscurità di alberi, e dal suono, il suono del verde “, scriverà il poeta nella piccola stanza da cui osservava la sua opera, il suo eden. 


Fonte: passenger6a.
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