web

lunedì 1 dicembre 2014

La spettacolare lucertola Del Collo Di Frilled


Il clamidosauro (Chlamydosaurus kingii Gray, 1827) è un rettile insettivoro della famiglia Agamidae, diffuso nell'Australia settentrionale e in Nuova Guinea.
 È l'unica specie nota del genere Chlamydosaurus.
 La sua particolare denominazione deriva dal collare di circa 25 cm di diametro, chiamato "clamide", del quale si serve per apparire più minaccioso di fronte ai pericoli.
 Questo collare si caratterizza per un colorito molto vivo, vicino al rosso a causa dei numerosi vasi sanguigni che lo attraversano, i quali hanno una funzione di agevolare l'immagazzinamento di calore. 
Il colorito tuttavia può essere diverso, specialmente negli esemplari maschi, virando al giallo arancio, rosso o marrone.


Ha una livrea che varia dal nero al verdastro; raggiunge un peso non superiore ai 600 grammi, e una lunghezza che varia dai 55 ai 95 cm, anche se i maschi sono in genere più grandi delle femmine (dimorfismo sessuale): soprattutto varia l'ampiezza del clamide. 
A differenza di molti rettili, i clamidosauri non hanno la prerogativa di perdere la coda (autotomia). 
 Sono per lo più animali diurni, in quanto sfruttano le ore più calde per l'accumulo di calore.
 Sono prevalentemente insettivori, ma a volte si nutrono di piccoli vertebrati.


Per difendersi dai predatori usa diverse tecniche, tra le quali il dispiegamento del clamide e il conseguente spalancamento della bocca, al fine di spaventare l'avversario; in caso di estremo pericolo non esita ad attaccare, rimanendo spesso in posizione eretta (poggiandosi sulle zampe posteriori) ed emettendo suoni simili a sibili in segno di minaccia. 
In caso venga attaccato o attacchi solitamente entra in contatto con l'avversario utilizzando come armi le zampe e sbattendo la coda.




Predilige un habitat caratterizzato dalla presenza di molta vegetazione; vivere in questo ambiente gli ha permesso di diventare molto agile e veloce: grazie alla sua struttura anatomica molto sinuosa e alle sue zampe posteriori molto lunghe riesce infatti a districarsi tra la vegetazione e a saltare agilmente tra i rami.


E' un animale oviparo, in grado di deporre fino a un massimo di 15-20 uova, che hanno un periodo di incubazione di circa due mesi.

Si potrebbero far vivere i pinguini al Polo Nord?


In teoria si potrebbe, e qualcuno ci ha provato all’inizio del ’900, introducendo una piccola popolazione di pinguini reali alle isole Lofoten (Norvegia). 
Un altro tentativo fu fatto in Russia.
 Entrambi falliti: i pinguini scomparvero e alcuni furono uccisi dalle popolazioni locali.
 Da allora nessuno più si è azzardato a popolare il Polo Nord con animali che non sono originari di quell’habitat. 

 Ma perché, se questi uccelli atteri (incapaci cioè di volare) vivono in Antartide in condizioni di freddo estremo, non se ne trovano invece intorno al Circolo polare artico, dove la situazione climatica è simile?

 Le ragioni sono molteplici.
 Innanzitutto, non è vero che non esistano pinguini al Polo Nord. O meglio, lo è solo da 169 anni: nel 1844, infatti, l’alca impenne (Pinguinus impennis) si estinse per la caccia intensiva a cui era sottoposta dalle popolazioni locali.
 Unica rappresentante del genere Pinguinus, l’alca era però, come si è scoperto poi, imparentata più con le gazze che con i moderni pinguini, anche se morfologicamente simile agli attuali pinguini.


Se non si trovano pinguini al Polo Nord è solo per ragioni evolutive: gli antenati dei pinguini sono nati nell’emisfero australe e, per quanto alcune specie di pinguino siano in grado di percorrere grandi distanze, non sono in genere animali migratori. 
La strada da un emisfero all’altro è troppo lunga perché questi uccelli possano coprire a nuoto quella distanza. E anche se ne fossero in grado, si scontrerebbero con le correnti calde equatoriali: lo spesso strato di grasso che ne ricopre il corpo diventerebbe un disagio insormontabile in acque più tiepide, perché farebbe salire troppo la loro temperatura corporea. 

Fonte: focus.it

Obsolescenza programmata : quando la tecnologia ha una data di scadenza


L’errore più grande è affezionarsi troppo. 
Non importa quanto sia bello, intelligente, prestante. Il momento di dirsi addio arriverà. 
 Arriverà troppo presto, in modo traumatico e inatteso, senza il tempo di salutare come si deve.
 Non ci sarà niente da fare per recuperare il rapporto. E la scelta sarà obbligata: sostituirlo con un altro.

 È la storia, ricorrente, di ogni amore tecnologico.
 Quello con uno smartphone, un tablet, un televisore, una lavatrice, una stampante e via dicendo.
 Idilli spezzati da qualcosa che si rompe. Di solito, un connettore, un filtro, la batteria, il display.
 Colpa del normale ciclo di vita dei dispositivi elettronici? 
 Secondo qualcuno no: c’è qualcosa di più. 
C’è a monte la volontà dei produttori di farli durare poco: è la teoria della cosiddetta obsolescenza programmata.


Sul tema si discute ormai da tempo, con in prima linea il “guru” della decrescita felice, Serge Latouche . 
Diciamolo subito: la pistola fumante non è mai stata trovata. 
Non ci sono prove che i produttori facciano oggetti destinati a lasciarci in fretta. 
 Dall’altro lato c’è l’esperienza di tutti noi, che racconta di aggeggi che passano indenni il periodo di garanzia e molto spesso vivono una sorta di crisi del terzo anno: proprio appena è finita la copertura del produttore – e magari mentre esce una nuova versione – le prestazioni calano, la batteria crolla, inizia a verificarsi qualche guasto. 

 «Negli anni ’30 e con le prime lampadine a incandescenza, ci fu davvero un cartello tra produttori, per limitare la durata a 100 ore. Ma da allora l’obsolescenza programmata non è stata più provata», dice Andrea Bondi, ingegnere e manager dell’area energia di Trento RISE.
 «Certo, è plausibile che i produttori scelgano materiali e tecnologie non eterne. Per loro è un equilibrio delicato: da una parte la necessità di fare prodotti affidabili, dall’altra il bisogno di stimolare all’acquisto delle nuove versioni».

 Il problema esiste e sul tema inizia a muoversi anche la politica. In Italia, a ottobre 2013, fu il parlamentare di Sinistra Ecologia Libertà Luigi Lacquaniti a presentare la prima proposta di legge “per contrastare il fenomeno dell’obsolescenza programmata”.
 In Francia tre deputati ecologisti – Eric Alauzet, Denis Baupin e Cécile Duflot – hanno proposto di punire con pene fino a due anni di reclusione chi metta sul mercato prodotti fatti per durare poco. Ma il guaio resta quello di partenza: almeno per il momento, è impossibile dimostrare che ci sia un intento e un disegno pro-obsolescenza nella progettazione dei nuovi prodotti.


Una delle chiavi del problema, forse la principale, è in profondità dentro smartphone, tablet e affini. È nei semiconduttori usati per produrne i circuiti e nell’architettura fisica di questi dispositivi. Continua Bondi: «Viviamo in un mondo in cui la legge di Moore è ancora validissima e ogni 18 mesi la complessità e la potenza dei microcircuiti raddoppia. L’architettura hardware dei microprocessori attuali è ormai su grandezze di micrometri, millesimi di millimetri. E arriveremo presto ai nanometri, milionesimi di millimetri. 
Su queste dimensioni e con queste prestazioni, c’è poco da fare: la tecnologia consente e sopporta un certo numero di passaggi di corrente tra i circuiti, che con il tempo diventano soggetti a guasti. Insomma, la tecnologia è spinta a livelli tali che è difficile trovare l’equilibrio tra potenza ed estetica da un lato e durata ed affidabilità dall’altro. Se usassimo le valvole di un tempo, beh avremmo bisogno di un intero quartiere per fare quello che oggi consente uno smartphone». 

 La questione ha però un altro versante, più sociale.
 La scadenza di uno smartphone, di un televisore, di una fotocamera non è solo fisica.
 È anche legata ai messaggi pubblicitari, alle nuove funzioni, ai modelli sempre più nuovi e desiderabili che escono.
 È quella che Latouche ha definito e criticato come obsolescenza psicologica. 
 «Ed è qualcosa che succede molto anche a livello software: è l’utente a cambiare via via il suo profilo d’uso di uno strumento tecnologico e ad alzare le aspettative che lo riguardano», spiega Antonia Bertolino, ricercatrice del Cnr all’Istituto di Scienza e Tecnologie dell’Informazione di Pisa.
 «Nel software – prosegue – l’obsolescenza è legata anche a un secondo fattore: il contesto tecnologico, che cambia sempre più in fretta. Un mondo fatto di protocolli di connettività, interfacce, reti tra strumenti diversi che devono dialogare tra loro. Per questo oggi si discute e si lavora molto sulle tecnologie “self-adaptive”, sistemi dinamici e aperti che siano in grado di adattarsi da soli ai cambiamenti del contesto, capaci di auto-aggiornarsi su più livelli». 

http://www.ilnavigatorecurioso.it/

L'incredibile mosaico scoperto in Grecia


Gli archeologi che lavorano nel nord della Grecia, hanno scoperto una nuova parte di un mosaico spettacolare alle terme romane di Plotinopolis, Didymoteicho. 
 Il pezzo, incredibilmente variopinto, comprende la rappresentazione di centauri , delfini, amorini e cavallucci marini. 
 La sezione di nuova scoperta del mosaico, che rappresenta 90 metri quadrati su un totale di 140 metri quadrati, è di vetro ed è circondato da viticci e foglie di edera, che era un segno di onore al dio Dioniso greco.


Il lato ovest della scena centrale raffigura una serie di creature marine, insieme ad un giovane Evros, figlio del re di Tracia Kassandros,che emerge dall'acqua. 
Un Cupido è rappresentato con un cavallo marino, mentre un altro sembra pensare. 
L'intero pezzo è incorniciato da pannelli decorati con uccelli,  rami degli alberi, e motivi geometrici.
Faceva parte di un triclinium - una sala da pranzo con tre letti - e un bagno romano pubblico (che probabilmente spiegherebbe il tema del mare).
 Plotinopolis era una città romana fondata dall'imperatore Traiano all'inizio del 2 ° secolo col nome di sua moglie, Plotina. 
In seguito divenne uno dei centri più importanti della Tracia.

Hay-on-Wye, la citta' dei libri


La città dei libri esiste e si chiama Hay-on-Wye. Situata sulle rive del fiume Wye in Galles, è una delle biblioteche all'aperto più grandi del mondo.
 Hay-on-Wye attira un gran numero di appassionati di libri in cerca di affari nelle sue oltre 40 librerie che vendono libri per la maggior parte di seconda mano.


La città è anche sede del Festival della Letteratura di Hay, che porta ogni anno circa 80.000 persone tra scrittori, editori e appassionati di letteratura da tutto il mondo.
 Istituito fin dal 1988, è stato descritto dall'ex presidente degli Stati Uniti Bill Clinton nel 2001 come "il Woodstock della mente". 
Ma tutto è iniziato ancor prima, nel 1961, cioè quando Richard Booth aprì il suo primo negozio di libri usati in una vecchia stazione dei pompieri.


Nel corso del tempo altre biblioteche sono nate e mensole e scaffali per vendere libri usati sono iniziati ad apparire in ogni angolo. 
Tra le numerose librerie di Hay, le più insolite e adorabili sono quelle chiamate "Honesty Bookshops". 
Qui le persone semplicemente selezionano i libri che vogliono comprare e lasciano il denaro in una piccola cassetta delle lettere.


In questa libreria all'aria aperta composta da ripiani in legno, accatastati contro le mura del castello e foderati di libri, i tascabili costano appena una sterlina.
 Il pagamento si effettua grazie a una piccola scatola con una fessura nella parte anteriore, accompagnata da un cartello bianco che dice, "Paga qui". Viva l'onestà, la fiducia... e la cultura!


Roberta Ragni

Related Posts Plugin for WordPress, Blogger...