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martedì 30 gennaio 2018

Il trasferimento di Ramses II


Un’enorme statua raffigurante il faraone Ramses II è stata trasferita al «Grande museo egiziano» (Gem) in costruzione nei pressi delle piramidi di Giza, alla periferia ovest del Cairo. 
Lo riferisce l’agenzia Mena.

 La statua, alta 12 metri, sarà la prima che i visitatori incontreranno nel nuovo museo quando sarà parzialmente aperto al pubblico alla fine di quest’anno. 
 Questo simulacro, che pesa oltre 80 tonnellate e raffigura Ramses in piedi, ha 3.200 anni ed era stato scoperto nel 1820 dall’esploratore ed egittologo genovese Giovanni Battista Caviglia nel Gran tempio di Ptah, vicino a Menfi.


L’arrivo della statua è stato accompagnato da una fanfara militare alla presenza di varie personalità fra cui vari ministri egiziani. Come noto il nuovo museo «Gem» scavalcherà in grandezza quello delle antichità egizie nella centralissima piazza Tahrir e ospiterà parte del tesoro di Tutankhamon.


La sua prima apertura è stata definita un «importante avvio per il turismo» in Egitto da Rania el-Mashat, la nuova ministra del settore in crisi causa di rivoluzioni e terrorismo.

 L’apertura parziale prevede l’esposizione di circa 5.000 oggetti, ha previsto il ministro delle Antichità, Khaled el Anani. 
Assieme al questo colosso di Ramses II, all’entrata del museo saranno collocati altri 87 oggetti.

 La statua è stata al lungo esposta al centro del Cairo, nella piazza omonima, ed era stata trasferita sul luogo dove sta sorgendo il museo nel 2006.
 L’ulteriore spostamento, di circa 400 metri, è durato più o meno un’ora.

 Il simulacro non ha nulla a che fare con i pezzi di un altro colosso scoperto al Cairo l’anno scorso e considerato solo in un primo momento raffigurante Ramsete II (si tratterebbe invece di altro faraone meno antico, Psammetico I).



Fonte: lastampa.it

lunedì 29 gennaio 2018

Berlino, trovati 80 metri di Muro di cui nessuno sapeva nulla


Nel quartiere berlinese di Pankow è stato rinvenuto un tratto di Muro che si credeva abbattuto da tempo. 
Come riporta Berliner Zeitung, il merito della sensazionale scoperta va al ricercatore Christian Bormann che nella giornata di lunedì 22 gennaio 2018 ha reso noto il ritrovamento risalente al 1999 sul suo blog Pankower Chronik. 
Già nel 2017 Bormann aveva scoperto 80 pezzi di Muro in un terreno nei pressi di Grumbkowstraße. 

Il tratto di Muro di Berlino scoperto da Bormann è situato in un bosco nella località di Schönholz, distretto di Pankow. 
Si tratta di una delle prime sezioni di Muro di Berlino mai costruite:
 «Stando alle informazioni che ho trovato negli archivi si tratta dell’ultimo tratto di Muro originale esistente» ha dichiarato Bormann, che da sempre è alla ricerca di luoghi dimenticati nel suo quartiere.
 Sembra che la porzione di Muro in questione risalga al periodo antecedente la creazione della cosiddetta “striscia della morte” nell’area, ragion per cui Bormann ha soprannominato il suo ritrovamento “Muro 1”.

 La Repubblica Democratica Tedesca iniziò a costruire il Muro di Berlino il 13 agosto 1961.
 Realizzati frettolosamente, i primi tratti di Muro erano costituiti da semplice filo spinato e dispositivi di allarme.
 Così anche il tratto di Muro di Schönholz. 
Soltanto più tardi, dopo la messa a punto di torri di controllo, questa porzione di confine si trasformò in quella che i locali chiamavano “striscia della morte”.

 Dopo la costruzione del Muro la stazione S-Bahn di Schönholz, collocata nel quartiere occidentale di Reinickendorf, smise di essere accessibile per i cittadini della DDR. 
Parte dell’area finì per rientrare nella “zona vietata”: i residenti potevano ricevere visite soltanto previo consenso delle autorità. Molte proprietà private nell’area di confine vennero espropriate.




Nessuno si aspettava una tale scoperta: il pezzo di Muro che collega Schützenstraße a Bahnstraße risultava infatti già “ufficialmente smantellato”.
 «Solitamente le vecchie porzioni di Muro venivano abbattute non appena se ne costruiva una versione più moderna» ha spiegato Bormann. Tuttavia lo smantellamento del tratto di Muro di Schützenstraße venne dimenticato in almeno due occasioni, ovvero al momento della costruzione della nuova frontiera e decenni più tardi dopo la riunificazione.
 «Probabilmente il mancato abbattimento del Muro è dovuto al fatto che la vegetazione del bosco lo rende difficilmente visibile»  

 La scoperta di Bormann risale al 1999, ma è stata resa pubblica soltanto ora: se le autorità vogliono preservare il reperto, il tratto di Muro in questione necessita infatti di essere tutelato dalle condizioni atmosferiche.

Fonte: http://berlinocacioepepemagazine.com

giovedì 25 gennaio 2018

Questa remota regione dell'Australia era anticamente collegata con il Canada


Circa 1,7 miliardi di anni fa, l'America del Nord e l'Australia erano unite, facendo parte di un unico continente, chiamato Nuna.

 Lo sostiene un nuovo studio condotto dagli scienziati della Curtin University.

 I ricercatori hanno scoperto delle rocce nel nord del Queensland che presentavano sorprendenti somiglianze con le loro "sorelle" del Nord America.
 Ciò lascia pensare che in un'epoca remota parte dell'Australia settentrionale era in realtà parte del Nord America e viceversa. 

Adam Nordsvan, dottorando della Curtin University, ha spiegato che i risultati sono significativi e sbloccano importanti informazioni sul supercontinente di 1,6 miliardi di anni. 
 "La nostra ricerca mostra che circa 1,7 miliardi di anni fa, le rocce di Georgetown si depositarono in un mare poco profondo quando la regione faceva parte del Nord America.
 Georgetown poi si staccò dal Nord America e si scontrò con la regione di Mount Isa nel nord dell'Australia circa 100 milioni di anni dopo". 

 Sappiamo che i continenti della Terra sono costantemente in movimento e che formavano un unico grande supercontinente: la Pangea. 
Ciò risale però a 290 milioni di anni fa, quando la Pangea si formò proprio a causa del processo della tettonica delle placche, a partire da altri due supercontinenti: la Laurasia a Nord e la Gondwana a sud. 
Dalla frammentazione della Pangea derivano gli attuali continenti. 

Nel caso dell'Australia e del Nord America bisogna tornare ancora più indietro nel tempo per risalire all'ultima volta in cui queste masse continentali facevano parte di un unico continente. 
Prima della Laurasia e della Gondwana, circa 2,5-1,5 miliardi di anni fa, i continenti erano uniti in unico blocco chiamato Nuna.
 Fu in quel momento che una parte del moderno Queensland del Nord, in Australia, si staccò dall'attuale Canada, precisamente dall'area in cui oggi si trova la Baia di Hudson.


"Il team è stato in grado di determinare ciò utilizzando sia nuovi dati sul campo sedimentologico che dati geocronologici nuovi ed esistenti, da Georgetown e Mount Isa". 

 I ricercatori hanno scoperto che quando il supercontinente si è spezzato circa 300 milioni di anni dopo, l'area di Georgetown non si è allontanata ma è rimasta ancorata all'Australia mentre dall'altra parte le terre rimasero unite fino a creare quello che è l'attuale Nord America 

 Secondo il coautore dello studio, il prof. Zheng-Xiang Li, la ricerca ha fornito nuove prove sulla formazione delle montagne sia nella regione di Georgetown che di Mount Isa:
 "La continua ricerca del nostro team dimostra che questa cintura di montagne, in contrasto con l'Himalaya, non sarebbe stata molto alta, suggerendo che il processo di assemblaggio continentale finale che portò alla formazione del nuovo supercontinente non fu un duro scontro come la più recente collisione dell'India con l'Asia". 

 Si tratta di un passo fondamentale per capire come si sia formata Nuna, il primo supercontinente della Terra. 

 Francesca Mancuso

Il tempio perduto di Ta Prohm


Non è la grandezza architettonica delle sue decine di torri. 
Né la prodezza ingegneristica che ha comportato costruirlo, nel 1186. 
E nemmeno immaginarsi come era la vita a quei tempi, con migliaia di persone che vi pullulavano intorno. 

La colpa del suo fascino è la giungla.
 La giungla che lo ha invaso, che lo ha conquistato e che germoglia magica e potente tra sue rovine. 
Questo lo rende il tempio più imponente del sito archeologico di Angkor, in Cambogia. 

Ta Prohm è unico. 
Qualcosa di incredibile. Il tempio, che un tempo faceva parte della capitale dell’Impero Khmer, fa capolino timidamente tra le enormi radici di alberi secolari. 
La vegetazione si avvinghia alle sue statue e si incrosta tra le sue mura, come se cercasse di farle sparire, di ingoiarle. 
E non sarebbe la prima volta che ci riesce. 

Con la caduta dell’Impero Khmer nel XV secolo, i templi furono abbandonati e dimenticati. 
400 anni dopo, gli esploratori europei li scoprirono. Il suo aspetto attuale è molto simile a quello del giorno in cui venne trovato, giacché si decise di lasciare Ta Prohm così com’era. 
La ragione era mostrare la potenza della natura sull’uomo. Ma anche la sua fotogenia.




A Ta Prohm le uniche modifiche che sono state fatte, sono state realizzate per prevenirne il crollo. 
Questo permette ai suoi visitatori di sentire l’ebbrezza dell’avventura che hanno vissuto allora gli esploratori francesi che lo scoprirono. 
Permette loro di camminare lungo stretti sentieri, mentre le cime degli alberi eclissano il sole e l’umidità della giungla circonda tutto. 

Prima della sua decadenza, Ta Prohm era un importante monastero e un’università buddista. 
Fu costruito dal re Jayavarman VII in onore a sua madre, la cui immagine fu utilizzata come modello per la statua principale del tempio, Prajñāpāramitā, simbolo di saggezza. 
Un’iscrizione in sanscrito dà un’idea della sua importanza: circa 80.000 persone si occupavano della sua manutenzione, e al suo interno conservava più di 500 chili d’oro, 35 diamanti e varie pietre preziose.
 La ricchezza del tempio si intuisce anche dalle sue dimensioni: con le sue 39 torri, è uno dei più grandi complessi di Angkor.




Per rivivere il suo glorioso passato, è necessario farsi strada tra rami e radici e camminare attraverso la lunga catena di edifici collegati, percorrendo bui corridoi.
 La natura lo ha trasformato in un labirinto che costringe il viaggiatore a utilizzare una buona mappa, o una guida che conosca la strada. 
Perché l’emozione del viaggio, come sapevano i francesi che arrivarono per primi a Ta Prohm, risiede anche nel fatto di poter tornare e raccontarlo.



 Fonte: passenger6a

mercoledì 24 gennaio 2018

Scoperte in Romania delle pietre in grado di crescere e riprodursi


Avete mai pensato a una pietra come ad un essere vivente? 
Difficile da credere, ma in Romania, a 35 chilometri da Ramnicu Valcea, sono state scoperte delle rocce eccezionali, in grado di crescere e riprodursi proprio come se fossero delle piante, reagendo a contatto con l’acqua. 

 Le trovant, è così che si chiamano, hanno delle caratteristiche così uniche da essere considerate delle rocce «vive».
 Formazioni di 6-8 millimetri, possono arrivare a formarsi in rocce da 6 a 10 metri di diametro. 
Crescite sbalorditive, anche se in tempi molto lunghi: in media, per una crescita di 5 centimetri servono 1200 anni.






Trovant, in rumeno, significa «sabbia cementata».

 I geologi pensano che queste straordinarie pietre primordiali si siano formate 6 milioni di anni fa e che il loro aumento di volume sia dovuto all’alta concentrazione di sali minerali che si trova nel loro «impasto» di arenaria: una complessa stratificazione di sabbia cementata con carbonato e acque calcaree. E quando l’acqua piovana entra a contatto con le sostanze chimiche che le formano si genera un repentino aumento della pressione interna, scatenando la caratteristica «crescita».

 Analizzando una sezione di trovant è infatti possibile vedere al suo interno una serie di cerchi concentrici che ricordano proprio quelli dei tronchi degli alberi.


Le rocce viventi oggi si possono ammirare nella riserva naturale di Muzeul Trovantilor gestita dall’associazione Kogayon sotto il patrocinio dell’Unesco.
 Qui si trova la maggiore concentrazione. 

Fonte: lastampa.it

lunedì 22 gennaio 2018

Il crociere, un professionista nell'aprire una pigna


Quando le temperature si abbassano, un bosco di conifere non offre molto da mangiare. Gli insetti spariscono nei loro rifugi, bacche e frutti sono rari e spesso un manto di neve ricopre il suolo. 
Per sopravvivere in questo ambiente bisogna saper sfruttare le poche risorse presenti, come fa il crociere (Loxia curvirostra), un uccello magnificamente equipaggiato per consumare una risorsa abbondante, i pinoli, ovvero i semi delle conifere.

 C’è un solo problema: i pinoli sono ben protetti all’interno delle pigne, sigillati da apposite squame che li proteggono dall’esterno. Per riuscire nell’impresa, il crociere si è dotato di un becco fuori dal comune, che non si trova in altre specie di uccelli al di fuori di questo gruppo, nel quale la mandibola inferiore non si muove solo su è giù, ma anche lateralmente. 
Funziona così: il crociere individua una pigna ancora chiusa carica di pinoli, inserisce il becco sottile sotto una delle squame protettive e sposta lateralmente la mandibola inferiore, divaricando le squame dei coni che proteggono i semi, poi introduce la lingua carnosa per estrarre il suo premio. 
Sembra complicato, e in effetti è un lavoro per specialisti, ma i pinoli sono abbondanti e nutrienti, quindi ne vale la pena.


Il crociere è una vero acrobata e si muove con grande agilità tra i rami, rimanendo spesso a testa in giù o in posizioni precarie per lavorare le pigne. 
Tra l’altro, i pinoli fanno comodo anche ai maschi per fare buona impressione sulle femmine: il pretendente ne raccoglie alcuni e li offre alla femmina per corteggiarla.

 Vista la forte specializzazione, questi uccelli sono molto dipendenti dalla produzione di pinoli: nelle annate più favorevoli, quando le pigne abbondano, si possono osservare grandi quantità di crocieri in attività sugli abeti.


Delle cinque specie esistenti, una è presente in Italia e frequenta le aree di montagna, tra i 1000 e i 2000 metri di altitudine.
 Lo troviamo nelle Alpi, negli Appennini centro-meridionali e nei rilievi della Sicilia, dove rimane per gran parte dell’anno spostandosi quando le pigne scarseggiano. 
Predilige le foreste di abete rosso, ma si trova anche tra gli abeti bianchi, i larici, le foreste di cembro o di pino nero. 

 FONTE: RIVISTANATURA.COM

Lo scheletro dei camaleonti si illumina al buio, l'incredibile scoperta tedesca


Camaleonti, creature "magiche", note per la loro capacità di mimetizzarsi cambiando il colore della pelle. Ma non solo. Le loro ossa si illuminano di blu al buio in risposta alla luce ultravioletta.

 A svelare i misteri di questi affascinanti animali è stato un team di ricerca dell'Università Ludwig Maximilian di Monaco. 
 Al buio, il camaleonte si illumina di blu se posto sotto una luce ultravioletta. 
Non si tratta della pelle che cambia colore ma in questo caso sono le ossa.
 Un meccanismo già noto in natura ma per la prima volta osservato e dimostrato nei camaleonti. 

La fluorescenza biogenica infattiè più comune negli organismi marini, ma è rara nei vertebrati terrestri. 

 Il noto camaleonte pantera (Furcifer pardalis) che vive soprattutto in Madagascar mostra creste fluorescenti sulla testa. 
 "Non riuscivamo a credere ai nostri occhi quando abbiamo illuminato i camaleonti con una lampada UV, e quasi tutte le specie mostravano segni blu in precedenza invisibili sulla testa, alcuni persino su tutto il corpo", afferma David Prötzel, autore principale del nuovo studio e studente di dottorato della Bavarian State Collection of Zoology. 

 Grazie all'evoluzione, i camaleonti si sono dotati di piccole escrescenze ossee lungo il loro scheletro, situate appena sotto la pelle. 

 È la prima volta che i ricercatori notano quest'abilità dei camaleonti e pensano che sia utilizzata per la comunicazione e per la selezione sessuale. 
I rettili possono vedere la luce UV, e non tutti gli animali ci riescono. 
Ciò potrebbe servire loro a comunicare in maniera "segreta" rispetto ad altre creature che vivono nella foresta pluviale.


Questo specifico tratto si manifesta soprattutto intorno agli occhi e nelle aree temporali della testa, entrambe comunemente associate alla comunicazione.

 Secondo gli scienziati tedeschi, inoltre, i maschi sembrano avere più protuberanze ossee che causano il bagliore, lasciando pensare che questa caratteristica sia loro d'aiuto durante l'accoppiamento. 
Il blu è un colore raro e facilmente riconoscibile nella foresta. 
Ciò aiuta i camaleonti a riconoscere i conspecifici.


Per comprendere il fenomeno, i ricercatori hanno usato una varietà di metodi.
 Le scansioni Micro-CT hanno mostrato che il pattern di fluorescenza corrispondeva esattamente alla distribuzione del pattern dei tubercoli sul cranio. 
L'analisi del tessuto ha regalato un'altra sorpresa: "La nostra ricostruzione istologica 3D ha mostrato che la pelle che copre i tubercoli sul cranio è molto sottile e consiste solo di uno strato trasparente di epidermide", spiega il dott. Martin Heß dell'Università Ludwig Maximilian di Monaco. 
"Questi punti agiscono efficacemente come finestre che consentono alla luce UV di raggiungere l'osso, dove viene assorbita e quindi emessa nuovamente sotto forma di luce fluorescente blu".
 I tubercoli fluorescenti sotto luce UV formano schemi ben precisi, che caratterizzano determinate specie o gruppi di specie. 

 Lo studio è stato pubblicato su Scientific Reports. 

 Francesca Mancuso

giovedì 18 gennaio 2018

Butterfly Lovers: la leggenda d’amore patrimonio dell’umanità


La storia d’amore tra Liang e Zhu è paragonabile alla tragedia di Romeo e Giulietta, i due innamorati che morirono tragicamente a causa del loro amore contrastato.

 Ama, ama follemente, ama più che puoi e se ti dicono che è peccato ama il tuo peccato e sarai innocente. 
William Shakespeare ~ Romeo e Giulietta 

 La storia di Liang Shanbo e Zhu Yingtai affonda le proprie origini nel 1600 nella cultura popolare cinese, i due giovani erano destinati ad un amore impossibile, lei nobile, bella e ribelle e lui letterato di umili origini.


La leggenda tramandata nei secoli narra di come Zhu avesse il grande desiderio di frequentare l’università di Hangzhou, ma essendo questa interdetta alle donne durante la dinastia Jin, con l’aiuto del padre si travestì da uomo e prese in mano le sorti della sua vita.
 Anche il giovane Liang stava andando alla città dove Zhu era diretta e i due si incontrarono durante il viaggio.

 Come ogni storia che si rispetti, ben presto l’amicizia si trasformò in qualcosa di più forte e la complicità fu da subito così intensa da far nascere un legame quasi di “fratellanza”.
 Dopo tre anni di studio Zhu dovette tornare a casa e Liang la accompagnò, ancora ignaro del fatto che lui fosse in realtà una lei. Solo dopo qualche mese dal ritorno a casa lui scoprì l’identità della ragazza, i due ovviamente si innamorarono perdutamente al punto che lui decise di chiederla in moglie. 

 Dell’amore della figlia per l’umile Liang, il padre non ne era contento, inoltre i genitori avevano già programmato il matrimonio della loro unica figlia con un nobile giovane,
 Ma Wencai. Il povero innamorato non resistette al dolore tanto che il suo cuore cedette e morì, questa notizia scosse terribilmente Zhu, la quale decise di sposare il nobiluomo a patto che il padre le permettesse di porgere gli ultimi saluti sulla tomba dell’amato. Prima della cerimonia la sposa triste passò al sepolcro dell’innamorato, dove pianse le sue lacrime per l’amor perduto; ma mentre lei si disperava certa della sorte che la aspettava all’altare, il sepolcro di Liang si aprì, si narra a causa di un fulmine, e lei senza pensarci un secondo vi si catapultò all’interno.
 Mentre Zhu stava ancora precipitando nella tomba il sepolcro si richiuse davanti agli occhi esterrefatti del padre; dopo pochi minuti la tomba si riaprì una seconda volta e ne uscirono due colorate farfalle: le anime dei due innamorati Liang e Zhu.
 Le farfalle danzarono un po’ accanto al padre atterrito dal dolore e poi si allontanarono scomparendo all’orizzonte, finalmente libere di amarsi.


La storia d’amore tra Liang e Zhu viene spesso rappresentata in opere, film e balletti, è un amore tormentato che trova la pace solo dopo la morte proprio come fu per Romeo e Giulietta, le loro tragiche storie hanno una linea che le unisce tanto che la città di Ningbo e quella di Verona, sede delle vicende narrate nell’opera shakespeariana, hanno firmato un gemellaggio da cui c’è stato uno scambio di statue, Giulietta è quindi finita a vegliare sulla città degli amanti cinesi, mentre una copia della statua di Liang e Zhu veglia all’ingresso della tomba della Capuleti.

 La città di Ningbo, patria della storia d’amore narrata, ha fatto domanda all’UNESCO perché questa leggenda venga riconosciuta come patrimonio culturale immateriale dell’umanità.

 Questa storia d’amore deve insegnarci che l’amore è libero, non deve mai essere costruito e che è così forte da resistere anche dopo la morte.

 Fonte: eticamente.net

mercoledì 17 gennaio 2018

Lo zoo svedese che ha ucciso 9 cuccioli di leoni perché in esubero


Ci risiamo... In perfetta salute, ma uccisi perché lo zoo non poteva permettersi di tenerli. 
Nove cuccioli di leone, negli ultimi cinque anni, hanno fatto una brutta fine. 

L’agghiacciante storia, purtroppo non un caso isolato, viene da Boras Djurpark, lo zoo svedese vicino a Goteborg.
 Sono stati gli stessi responsabili della struttura ad ammetterlo: solo due dei 13 cuccioli nati da tre diverse cucciolate sono ancora vivi e rinchiusi allo zoo. 
Due leoni sono morti per cause naturali e i restanti cuccioli sono stati soppressi.


Una pratica che il Boras Djurpark, a circa 40 chilometri da Göteborg usa ormai da tempo. 

Simba, Rafiki, Nala e Sarabi sono nati nella primavera 2012 e soppressi nell’autunno 2013, mentre Kiara, Banzai e Kovu sono nati nella primavera del 2014 e sono stati uccisi fra l’estate e l’autunno 2015. 
 Ancora nel 2016 sono stati soppressi Potter, Weasley, mentre Granger e Dolores sono stati trasferiti in uno zoo inglese. 

Secondo quanto raccontano i responsabili, si sarebbe fatto di tutto per venderli o spostarli in altre strutture. “ Non abbiamo trovato nessuno disponibile e gli animali erano troppi”, dicono. “Quando hanno iniziato a essere troppo aggressivi e il gruppo troppo numeroso abbiamo dovuto procedere in quel modo.
 Non è un segreto e non cerchiamo di nascondere che lavoriamo in questo modo. 
È, purtroppo, un percorso naturale per i gruppi di leoni”, spiega Bo Kjellson, amministratore delegato del parco, alla tv svedese SVT.


A noi la cosa che sconvolge è proprio questa pratica legalizzata e il fatto che quasi ci si scandalizzi che dei leoni possano essere aggressivi. 
Certo, in un contesto in cui vengono narcotizzati e drogati per diventare degli automi, forse può sembrare strano vederli comportarsi secondo la loro indole. 
E’ questo è l’ennesimo motivo per cui condanniamo fermamente gli zoo di tutto il mondo. 
 Basti pensare che non è la prima volta che parliamo di animali uccisi per esubero.

 Ricordiamo ad esempio Marius, la piccola giraffa uccisa davanti agli spettatori e poi data in pasto ai leoni nello zoo di Copenaghen. In quel caso, tutto il mondo si era indignato per la spettacolarizzazione della morte, qualcosa che ovviamente in natura non avrebbe destato alcun scalpore.
 E come dimenticare la zebra della Norvegia dato in pasto alle tigri a Kristiansand Dyrepark, anche in quel caso perché l’animale non poteva essere mantenuto dallo zoo.

 Tutto questo fa riflettere ancora una volta sull’inutilità di queste strutture che per puro profitto non rispettano il benessere degli animali. 

 Dominella Trunfio

Selinunte, scoperta in Sicilia una città greca rimasta sepolta per 2700 anni


Una città nascosta da 2700 anni.
 È grazie ad una termocamera ad alta sensibilità termica, caricata su drone, se i geologi dell’Università di Camerino hanno rilevato sul terreno dell’area archeologica di Selinunte, alcune anomalie riconducibili ad importanti strutture sepolte che dal tempio scendevano verso il porto.

 Lo hanno annunciato Enrico Caruso e Fabio Pallotta del Parco Archeologico di Selinunte, spiegando che sotto l’antica città situata sulla costa sud-occidentale della Sicilia sono state individuate anche le tubature costruite dai greci ed attraverso le quali l’acqua arrivava nelle case, ambienti domestici destinati al culto e la più antica raffigurazione di tutto il mondo greco di Hekate, personaggio di origine pre - indoeuropea che fu poi ripreso dalla mitologia ellenica.


È stata utilizzata una tecnica basata su geomorfologia ed archeologia, che ora potrebbe essere applicata sistematicamente agli altri siti in Italia. 
«Il lavoro avviato con i tecnici dell’Unicam, frutto di un anno di letture e sopralluoghi, promette bene: procedere alla conoscenza degli strati più profondi del terreno su cui i greci decisero di insediarsi, ci permetterà di trovare le soluzioni migliori per perpetuare nel futuro prossimo ed anche oltre il patrimonio straordinario di Selinunte».


«Verosimilmente - spiega Pallotta - era un susseguirsi di templi e di vasche colme di limpida acqua sorgiva che ruscellava verso il mare africano per offrire prezioso ristoro ai viaggiatori di confine.
 Da queste immagini termiche tutti possono osservare come il gradiente di calore delinea nel terreno perfetti disegni geometrici che circondano proprio i resti del cosiddetto «Tempio M», ora collocato lungo la sponda destra del Fiume Selino, ma che in origine spiccava con tutta la sua bellezza sull’estremo promontorio occidentale dell’incantevole laguna».


Sorpresa nella sorpresa: il ritrovamento dell’icona di «Ecate o Hekate, la dea che regnava sui demoni malvagi, sulla notte, sulla luna, nella sua più antica raffigurazione in tutto il mondo greco», afferma Enrico Caruso, direttore del Parco archeologico più grande d’Europa. 
«Abbiamo rinvenuto anche vasi corinzi, oggetti ornamentali, statue ed addirittura un flauto sempre dell’epoca greca. 
Abbiamo poi ricostruito in 3D le case risalenti all’epoca classica ed ellenistica, dopo la distruzione del 409 a.C. e riprodotto virtualmente la facciata del Tempio Y, in stile dorico, circondato da colonne, il più antico tra quelli selinuntini». 

 Fonte: lastampa.it

martedì 16 gennaio 2018

Un trono di ferro nella camera della Piramide di Cheope?


Lo scorso novembre aveva fatto scalpore la notizia di due cavità nascoste all'interno della Grande Piramide, la tomba del faraone Cheope, costruita 4.500 anni fa nella piana di Giza, in Egitto.
 I due vuoti - il principale dei quali sarebbe una galleria lunga una trentina di metri, alta 8 e larga 2 - sono stati individuati nell'ambito del progetto Scan Pyramids grazie ai muoni, particelle subatomiche che arrivano dallo Spazio e che, rilevate, permettono di "vedere attraverso" monumenti anche di notevole spessore. 
 Da allora gli archeologi di tutto il mondo si sono interrogati sulla possibile funzione del "Grande Vuoto" e su che cosa contenesse. 

Un'ipotesi interessante proviene da uno scienziato italiano ed è ora spiegata su ArXiv.org.
 Per Giulio Magli, direttore del Dipartimento di Matematica e professore di archeoastronomia al Politecnico di Milano, lo spazio appena scoperto potrebbe contenere un oggetto che doveva servire al faraone per raggiungere l'aldilà: un trono di ferro descritto nei Testi delle Piramidi, formule rituali egizie che accompagnavano il faraone nel suo ultimo viaggio e che descrivevano dettagliatamente il percorso che avrebbe dovuto compiere per raggiungere gli dei.
 

Difficile, spiega Magli, che il Grande Vuoto avesse l'unica funzione di sgravare dal peso dell'edificio la Grande Galleria, l'ampio tunnel che, all'interno della piramide, conduce alla camera funeraria: il tetto a spiovente della galleria era stato già progettato proprio a questo scopo.
 Ci deve essere un'altra spiegazione, coerente con le idee egizie sull'aldilà e con quanto illustrato nei Testi delle Piramidi. 
«In questi si dice che il faraone, prima di raggiungere le stelle del nord, dovrà passare per le "porte del cielo" e sedere sul suo "trono di ferro"».

 Per i Testi delle Piramidi, infatti, l'aldilà del faraone era da collocarsi in cielo, tra le stelle del nord come le costellazioni del Grande Carro o del Dragone.

 All'interno della Piramide ci sono quattro condotti, stretti come fazzoletti, che puntano verso le stelle. 
Due si aprono sulla facciata esterna del monumento, gli altri due sfociano in altrettante piccole porte. Una di queste, a sud, è stata più volte esplorata senza risultati, mentre quella a nord rimane sigillata. 
 Per Magli, potrebbe trattarsi proprio di "quelle" porte del cielo, e quella a nord potrebbe condurre proprio al Grande Vuoto. 
Se così fosse, seguendo il ragionamento dei testi sacri, in questo spazio potrebbe trovarsi a questo punto il trono di ferro necessario affinché si compiano le profezie (naturalmente, e vista l'epoca, ferro meteoritico, come quello del pugnale di Tutankhamon). 

L'unico modo per capire se si tratti di qualcosa di più di un'ipotesi sarebbe esplorare il condotto nord, un obiettivo difficile e presente da tempo, ancora prima della scoperta del Grande Vuoto.

 Le sorprese non sembrano insomma finire qui. 

 Fonte: focus.it

lunedì 15 gennaio 2018

Uccelli del paradiso: le loro piume sono così nere da assorbire il 99,9% della luce


Le loro piume sono così nere da assorbire il 99,9% della luce. 

Una specie di uccello del paradiso ha sorpreso gli scienziati, abituati ad ammirare animali dai colori sgargianti.
 Questa insolita creatura è davvero speciale.

 I ricercatori dell'Università di Yale hanno deciso di dare un'occhiata più da vicino alle sue penne scure e ciò che hanno scoperto è veramente eccezionale, una sorta di evoluta illusione ottica.
 In genere, in natura, i colori vivaci sono utili in vari modi. 
Alcuni insetti li sfoggiano per avvertire i potenziali predatori che sono velenosi. Alcune piante producono fiori colorati che attraggono gli insetti e aiutano nell'impollinazione.

 Nel caso del maschio dell'uccello del paradiso, durante il suo rituale di accoppiamento esso solleva le ali a forma di cono, rivelando una macchia luminosa di piume di colore verde-blu circondate da un piumaggio nero.


Esaminandolo nel dettaglio, gli scienziati americani hanno capito che le piume così scure danno l'illusione che i colori adiacenti brillino, un effetto molto apprezzato dalle femmine.
 Le misurazioni ottiche hanno dimostrato che questa sorta di schema cromatico delle piume fa sì che esse assorbano fino al 99,95% della luce, una percentuale paragonabile ai materiali ultra-neri prodotti dall'uomo per i telescopi spaziali. O ancora somigliano a quelle progettate dagli ingegneri per creare materiali neri usati per facilitare l'assorbimento della luce nei pannelli solari. 

 La giustapposizione di nero e colori più scuri crea per uccelli e occhi umani ciò che è essenzialmente un'illusione ottica evoluta, ha spiegato l'autore Cody McCoy, laureato di Yale e ora al Dipartimento di Biologia Organismica ed Evolutiva di Harvard. Una mela ci appare rossa se è illuminata dalla luce del sole e se all'ombra perché gli occhi e il cervello dei vertebrati hanno un cablaggio speciale per regolare la percezione del mondo in base alla luce ambientale", ha detto McCoy. "Gli uccelli del paradiso, con il loro piumaggio super-nero, aumentano ai nostri occhi lo splendore dei colori adiacenti, proprio come noi percepiamo il rosso anche se la mela è all'ombra".

 Le microstrutture nelle penne dell'uccello del paradiso non coinvolte nella visualizzazione legata al momento dell'accoppiamento non hanno le stesse caratteristiche del piumaggio ultra-nero, un'altra testimonianza dell'importanza della selezione sessuale nell'evoluzione. 

 "La selezione sessuale ha prodotto alcuni dei tratti più notevoli della natura", ha affermato Prum. "Speriamo che gli ingegneri possano sfruttare ciò che l'uccello del paradiso ci insegna per migliorare le nostre tecnologie umane".


La Natura ha sempre tanto da insegnarci, non finiremo mai di rimanerne stupiti. 

Lo studio è stato pubblicato su Nature Communications.

 Francesca Mancuso

venerdì 12 gennaio 2018

Platanista, una speranza dal fiume Indo


Il subcontinente indiano ospita uno dei mammiferi più misteriosi e affascinanti del pianeta, un delfino d’acqua dolce chiamato Platanista dell’Indo (Platanista minor) che popola il terzo fiume per portata d’acqua di questa grande area asiatica e che si getta nell’oceano Indiano dopo aver attraversato il Pakistan.

 Questi delfini d’acqua dolce hanno subito negli ultimi decenni minacce tanto gravi da portare la specie a un passo dall’estinzione. Stessa sorte anche per Platanista gangetica che vive lungo il corso del Gange.

 Attorno a questi cetacei sono in atto diatribe tassonomiche per capire se il delfino dell’Indo sia una sottospecie di quello del Gange oppure una specie a sè, ma mentre gli scienziati si interrogano questi animali mostrano segni di declino preoccupante. Sovrappopolazione, inquinamento, depauperamento delle acque stanno prosciugando gli enormi corsi fluviali in cui vivono, distruggendone l’ecosistema. 
A questo si aggiunga la pesca, da ritenersi una delle principali cause di mortalità in questi delfini.
 Non solo, spesso questi mammiferi, nella ricerca di acque tranquille, finiscono nei canali d’irrigazione andando ad arenarsi in mezzo alle campagne dove vanno incontro ad una fine atroce.


La Platanista è un cetaceo particolare.
 Il suo rostro di forma allungata presenta numerosi denti che nella parte anteriore sporgono andando a formare una sorta di gabbia dove i pesci vengono intrappolati.

 Nonostante siano degli abili cacciatori, questi delfini sono privi della lente oculare sui cristallini e quindi sono a tutti gli effetti ipovedenti. 
Riescono solo a distinguere intensità e direzione della luce e la loro vita è affidata al potere dell’ecolocazione.
 Del resto, le acque limacciose di questi fiumi asiatici rendono indispensabile la messa punto di una tecnica di caccia che faccia ameno della vista.


Tuttavia, uno spiraglio di luce si apre sul futuro di questi animali così minacciati: dal 1999, il WWF ha attivato un programma di salvaguardia che, dopo decenni, sta dando i suoi frutti, come dimostrano i dati pubblicati quest’anno. 
Infatti, si è passati dai circa 1200 individui del 2001 ai circa 1900 dell’ultimo censimento.
 I segnali sono quindi positivi, ma la ripresa è molto lenta. L’inversione di una tendenza al declino è sicuramente già un grande successo, ma dobbiamo tener conto che gli equilibri sono precari per via di popolazioni davvero esigue. 
La battaglia per salvare i delfini dell’Indo si sposta quindi nei canali che mietono vittime e per i quali si stanno studiando dissuasori acustici per impedire a questi animali di risalire i condotti d’irrigazione. 

La guerra non è ancora vinta ma importanti passi avanti sono stati fatti per la sopravvivenza di questo cetaceo in una regione in cui l’uomo restringe sempre più i suoi spazi vitali. 

 FONTE: RIVISTANATURA.COM

giovedì 11 gennaio 2018

Il microcosmo di Nahualac


Un piccolo universo in miniatura.
 Si chiama Nahualac e si trova in Messico, alle pendici dell'Iztaccíhuatl, comunemente chiamato Iztla, la terza montagna più alta dello stato.

 Cos'ha di speciale? Situato a 3.870 metri sul livello del mare, Nahualac ospita un laghetto stagionale all'interno del quale in epoca preispanica fu costruito un tetzacualco, un santuario.

 Alcuni miti mesoamericani sulla creazione del mondo sostengono che Cipactli (il mostro della terra) galleggiasse sulle acque primordiali e dal suo corpo furono creati il cielo e la terra.
 Proprio il sito di Nahualac potrebbe emulare questa concezione.

 La presenza del tetzacualco nel bel mezzo di uno stagno e l'effetto ottico prodotto nello specchio d'acqua da cui sembra che la struttura emerga, suggerisce che il luogo sia la rappresentazione di un tempo e di uno spazio primitivi, un modello in miniatura dell'universo.


Lo ha spiegato l'archeologo Iris del Rocio Hernandez Bautista, della Divisione di Archeologia subacquea (SAS) dell'Istituto Nazionale di Antropologia e Storia (INAH), responsabile della ricerca archeologica di questo sito che si trova nel comune di Amecameca, in Messico.

 Nel 2016 un team di scienziati ha condotto alcuni scavi ritrovando numerosi frammenti di ceramica, materiali litici, lapidari e resti organici. 
Ha scoperto inoltre che Nahualac è formato da due aree. La prima e più importante è un laghetto stagionale, costruito in tempi antichi, con un tempio rettangolare formato a sua volta da pietre impilate. 

La struttura è 11,5 x 9,8 metri. Attualmente, è possibile vedere gli angoli e alcuni cumuli di pietre che lo circondano. 

 La seconda area si trova 150 metri a sud-est della struttura, su un'ampia valle dove hanno origine le sorgenti che alimentano il lago. 
Lì sono stati trovati pezzi di ceramica con elementi decorativi associati a Tlaloc, la divinità della pioggia. 
 Secondo l'archeologo Iris Hernandez, Nahualac è la rappresentazione di uno spazio rituale dove il culto di Tlaloc è evidente, anche se non esclusivo, visto che è legato anche alle divinità femminili dell'acqua e della terra.
 Inoltre, le popolazioni dell'epoca avevano creato un sistema che portava l'acqua dalle sorgenti vicine allo stagno per provocare un effetto visivo molto particolare: la struttura e i cumuli di pietra sembravano galleggiare sulla superficie dell'acqua, che a sua volta rifletteva il passaggio circostante.


"Questi effetti visivi, così come le caratteristiche degli elementi del sito e il loro rapporto reciproco, hanno fatto pensare che Nahualac potrebbe rappresentare un microcosmo che evoca acque primordiali e l'inizio dello spazio-tempo mitico".

 Un piccolo universo costruito dalle antiche popolazioni centroamericane che cercava di spiegare le meraviglie del cosmo. 

 Francesca Mancuso
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