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mercoledì 27 marzo 2013

L'acquedotto vergine



Unico acquedotto romano ad essere funzionante, ancora dopo venti secoli, anche se solo per l’alimentazione di quasi tutte le più imponenti e grandiose fontane della zona del centro (Piazza Navona, Barcaccia, Terrina etc…) e, prima fra tutte, della Fontana di Trevi, l'Acquedotto dell'Acqua Vergine fu voluto da Agrippa, genero dell'imperatore Augusto, che lo inaugurò il 9 giugno del 19 a.C. per alimentare la nuova zona di Campo Marzio e soprattutto per rifornire le omonime terme.
 In ordine temporale, l’aqua Virgo è il sesto acquedotto dopo l’Appio, l’Anio Vetus, il Marcio, l’Aqua Tepula e la Iulia ed aveva origine a poca distanza dal corso dell'Aniene da alcune sorgenti che si trovavano nell'Agro Lucullano, presso l' VIII miglio della Via Collatina (corrispondente al km 10,500 dell'attuale via), presso l'odierna località di Salone (24 metri s.l.m.).
 Il sistema raccoglieva in un bacino artificiale di captazione, chiuso da una lunga diga di calcestruzzo esistente fino al secolo scorso ed ora interrata, diverse polle e vene acquifere variamente imbrigliate, mentre altri bacini imbriferi venivano poi collettati lungo il percorso aumentandone la portata fino a 2.504 quinarie, pari a 1.202 litri al secondo.

Secondo Frontino, di questa portata circa 100 l/s venivano erogati nella parte settentrionale e suburbana della città, fino ad allora priva di approvvigionamento idrico, mentre i 1.100 l/s che giungevano in città erano convogliati in 18 castella secondari che li distribuivano in modo che circa 700 l/s andassero ad alimentare opere pubbliche, 250 l/s arrivassero alla casa imperiale e i restanti 150 l/s circa fossero destinati ad utenti privati.
 L'acquedotto era lungo 14.105 passi, cioè circa 20 chilometri, e quasi completamente sotterraneo, salvo circa due chilometri che correvano su sostruzioni o su arcuazioni continue nell’ultimo tratto di Campo Marzio. Da Salone, dopo un percorso sotterraneo di circa cinque chilometri, l’acquedotto arrivava al fosso della Marranella ma -come come spesso accadeva negli acquedotti romani- anziché proseguire sotto i colli della città seguendo la via più breve, voltava bruscamente verso nord, seguiva la Via Collatina fino alla località di Portonaccio, dove raggiungeva la Via Tiburtina e l'Aniene, che attraversava nella zona di Pietralata. Quindi si muoveva lungo le dorsali della Nomentana e della Salaria da dove, piegando verso sud, attraversava le zone di Villa Ada, dei Parioli (proprio sotto il ninfeo di Villa Giulia) e di Villa Borghese, per entrare infine in città in prossimità del Muro Torto e di piazza di Spagna. L’ultimo tratto, come detto, si sviluppava infine su arcuazioni fino al Pantheon, dove si trovavano le Terme di Agrippa.

Il motivo più probabile di questo lungo percorso è da ricercarsi nell’orografia del territorio attraversato: essendo le sorgenti molto basse sul livello del mare e molto vicine a Roma, l'acqua per muoversi a gravità non poteva raggiungere un livello più elevato nel punto terminale e doveva quindi costeggiare dorsali, superare in elevato le depressioni che incontrava (come sulla via Collatina Vecchia) e attraversare pendii. Il tratto urbano si può facilmente ricostruire grazie alla presenza dei numerosi resti delle arcuazioni: alle pendici del Pincio, sotto Villa Medici e vicino agli Horti Luculliani, una piscina limaria (dalla quale prese il nome il Vicolo del Bottino) serviva a trattenere i depositi presenti nell’acqua e a mantenere costante il carico nel condotto. Da lì veniva percorsa la falda fino al Campo Marzio in direzione parallela a Via Margutta, sbucando quindi finalmente e definitivamente a cielo aperto verso la metà dell'attuale Via due Macelli. 
Mediante una serie ininterrotta di arcate, attraversava quindi l'attuale Via del Nazareno (dove si conservano parzialmente interrate tre arcate in blocchi bugnati di travertino con l'iscrizione che ricorda il rifacimento di Claudio). passava per la zona della Fontana di Trevi e nell'area oggi occupata da Palazzo Sciarra (nei cui sotterranei si trovano i resti di altre due arcate, anch’esse nei blocchi di travertino del restauro di Claudio, con una luce di 3,15 metri ), scavalcava la Via Lata (oggi Via del Corso) -con un'arcata trasformata in seguito in arco trionfale in onore di Claudio per celebrare la conquista della Britannia- e proseguiva lungo la Via del Caravita, Piazza S.Ignazio e Via del Seminario, dove doveva trovarsi il castellum terminale.

 Frontino scrive che "davanti alla fronte dei Saepta", in prossimità del Pantheon, l’acquedotto terminava, distribuendo l’acqua ai numerosi monumenti creati da Agrippa, non ultime le Terme che portavano il suo nome, fino in Trastevere.
 Essendo l'Acquedotto Vergine in funzione e tuttora accessibile nel suo tratto sotterraneo per le ispezioni ed i controlli, lo speco è ben conosciuto e perfino percorribile in barca: esso è largo mediamente 1,50 metri e, quando attraversa zone di terreno incoerente, è costruito con muratura in opera cementizia e paramento in reticolato, quando invece incontra banchi consistenti di tufo, è direttamente scavato in galleria. Nelle zone delle colline suburbane raggiunge la profondità di 30-40 metri, con una punta massima di 43 metri ai Parioli in Viale Romania. 
 Anche l'impianto di captazione delle sorgenti è ancora funzionante ed ispezionabile in occasione di ripuliture e restauri. 
Una rete di cunicoli scavati trasversalmente alle direttrici di falda capta le acque sorgive che provengono da vasto bacino imbrifero attraverso i banchi di pozzolana e di tufo e fuoriescono con rivoli e polle attraverso il terreno poroso ed impermeabile, convogliandole fino al canale principale oppure raccogliendole nel bacino artificiale (oggi interrato) che serviva anche a regolare l'immissione delle acque nel condotto.
 La leggenda, ricordata da Frontino, fa risalire il nome dell’acquedotto ad una vergine che suggerì ai soldati di Agrippa, seguendo il suo intuito, l’esatta ubicazione delle sorgenti fino ad allora cercate invano e, a prova di ciò, presso il bacino di raccolta si trovava un'edicola con l'immagine dipinta della ninfa delle sorgenti.

 Più verosimilmente il nome era invece legato invece alla purezza ed alla freschezza delle acque, la cui assenza di calcare rendeva tra l’altro meno impegnativa la manutenzione dell'acquedotto 
Durante i suoi 2000 anni di utilizzo, l'acquedotto ha subito, com'è facile immaginare, innumerevoli interventi di manutenzione, di restauro e di parziale rifacimento.
 Nell'antichità i principali lavori conservativi si ebbero al tempo di Tiberio, nel 37 d.C., di Claudio, nel 45-46 d.C. quando vennero ripristinate le arcuazioni in blocchi bugnati di travertino nell'area urbana, e di Costantino. 
Ai tempi di Teodorico l’acquedotto era funzionante ed era ancora decantata la purezza dell'acqua. 
In seguito i Goti di Vitige lo danneggiarono seriamente, ma le autorità lo ripristinarono rapidamente dato l'affollamento della zona che alimentava.

Papa Adriano I (772-795) fece eseguire nel Medioevo lavori più o meno consistenti: Procopio ci informa che "l'Acquedotto della Vergine, da molti anni demolito e così pieno di rovine tanto che in Roma entrava ben poca acqua...(Adriano I) lo restaurò nuovamente e lo arricchì di tanta abbondanza d'acqua che dissetava quasi tutta la città". Liber Pontificalis (I, 505).
 Si noti come il biografo indichi che l'acquedotto, anche prima dei restauri, non fosse del tutto interrotto, ma riuscisse a portare soltanto poca acqua in città: segno che, benché malandato, non cessò mai del tutto la sua attività.
 Con tutta probabilità il restauro di Papa Adriano consistette anche nell'allestimento di una nuova fontana terminale subito a monte - non più di 200 metri in linea d'aria- di via del Corso, dove le arcuazioni erano state interrotte.

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