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lunedì 15 ottobre 2012

Il disonore alla patria non merita monumenti

Per ricordare questo criminale di guerra la Regione Lazio ha stanziato 180 mila euro di denaro pubblico a favore del comune di Affile, di cui Graziani in realtà non era neanche cittadino (era nato a Filettino, vicino Frosinone) nè residente. Vi soggiornò solo per un breve periodo dopo gli anni del carcere. Ma il sindaco del paese, Ercole Viri, va fiero del monumento-mausoleo, un parallelepipedo di mattoni costato 127 mila euro, su cui campeggiano le due parole chiave del fascismo d’ogni epoca: “patria” e “onore”.
GRAZIANI, Rodolfo. - Nacque a Filettino l'11 ag. 1882 Parliamo del «più sanguinario assassino del colonialismo italiano». Un generale fascista, collaborazionista dei nazisti e ricercato, per un periodo, come criminale di guerra dalla giustizia internazionale. Fu nel periodo coloniale che Graziani diede il meglio di sè. Nel 1921 fu inviato in Libia. Braccio destro di Badoglio il quale scriveva a Graziani il 20 giugno 1930 "La portata e la gravità di questo provvedimento, vorrà dire la rovina della popolazione cosiddetta sottomessa. Ma ormai la via ci è stata tracciata e noi dobbiamo perseguirla sino alla fine anche se dovesse perire tutta la popolazione della Cirenaica" (Roma, Arch. centrale dello Stato, Fondo Graziani, b. 1, f. 2, sottofasc. 2). Badoglio non poteva trovare un esecutore dei suoi ordini più zelante del Graziani; in pochi mesi egli portò a compimento la deportazione dei 100.000 Cirenaici, la metà dei quali morirono nei lager del deserto per malattie, maltrattamenti, scarsa alimentazione ed esecuzioni capitali. Dopo dieci anni interamente spesi a braccare e a sterminare i patrioti libici, il Graziani, cominciò a raccogliere i frutti della sua frenetica attività. Badoglio lo additò, infatti, alla riconoscenza di tutti gli Italiani di Libia. De Bono lo citò alla Camera e al Senato come benemerito della patria. Per conseguire queste vittorie, che gli fruttarono il bastone da maresciallo e il titolo nobiliare di marchese di Neghelli, il Graziani adottò i metodi più spietati. Fu il primo a impiegare i gas per rallentare la marcia di ras Destà su Dolo. Non esitò, per logorare il morale degli avversari, a sottoporre le città di Harar, Giggiga e Dagabùr a bombardamenti a tappeto. Usò la divisione "Libia", costituita esclusivamente da soldati di fede musulmana e perciò nemici implacabili degli Etiopici di religione cristiana, come uno strumento per seminare panico e orrore, perché i Libici non facevano prigionieri. Autorizzò, inoltre, il bombardamento di un ospedale da campo svedese, provocando il disappunto dello stesso Mussolini, che si preoccupò per l'indignazione che l'episodio aveva suscitato a livello mondiale. Il 2 febbr. 1932 il ministro della Guerra C. Gazzera lo promosse al grado di generale di corpo d'armata per meriti speciali. Ordinò inoltre di mettere in stato d'assedio una città intera lasciando al federale fascista G. Cortese il compito di organizzare la rappresaglia, che fu selvaggia e indiscriminata. Per tre interi giorni squadre di militari e di civili italiani e di ascari libici percorsero le vie della capitale incendiando le abitazioni degli indigeni e massacrando tutti gli Etiopici che giungevano a tiro. Un preciso bilancio della strage non fu mai fatto, e anche se appare esagerata la cifra di 30.000 morti, avanzata nel dopoguerra dalle autorità etiopiche, è certo che le vittime della repressione non furono meno di 4000. Anche in queste operazioni, che si conclusero nel febbraio 1937 con il completo annientamento degli Etiopici, il Graziani adottò la politica del pugno di ferro. Non riconoscendo ai suoi avversari il diritto di battersi in difesa della loro patria, fece impiccare ras Destà e fucilare i fratelli Cassa. La stessa sorte toccò all'abuna Petros che cadde ucciso mentre benediceva con la croce copta gli otto carabinieri del plotone di esecuzione. Dopo un attentato Alla fine di agosto, i soli carabinieri avevano passato per le armi 2509 indigeni; senza contare altre migliaia di Etiopici tradotti nei campi di concentramento di Nocra e di Danane, mentre i notabili non collaborazionisti erano stati inviati in esilio in Italia. Essendo infine emersa l'ipotesi che a ispirare gli attentatori fosse stato il clero copto della città conventuale di Debra Libanòs, il G., pur non disponendo che di vaghi indizi, ordinò al generale P. Maletti di passare per le armi tutti i monaci e i diaconi della città santa e di confermare l'esito delle operazioni con le parole "liquidazione completa". Già ufficiale subalterno del G. in Libia, avvezzo a eseguire gli ordini nella maniera più tassativa, Maletti portò a termine la sua missione tra il 21 e il 27 maggio 1937, prima rastrellando tutti i religiosi di Debrà Libanòs e successivamente sopprimendoli con raffiche di mitragliatrice nelle località di Laga Wolde e di Engecha. Dai telegrammi inviati dal viceré a Mussolini risulta che le vittime delle stragi furono 449. Ma da indagini compiute sul campo negli anni Novanta, le dimensioni delle stragi appaiono ben più rilevanti, tanto che si è ipotizzata una cifra che oscilla tra i 1400 e i 2000 morti Rientrato in Italia fu accusato, fra l'altro, di codardia, per aver diretto le operazioni da una tomba tolemaica di Cirene, profonda trenta metri e lontana dal fronte alcune centinaia di chilometri, Rinviato a giudizio l'11 ott. 1948 dinanzi alla corte di assise di Roma e poi, avendo questa riconosciuto la propria incompetenza per materia, dinanzi al tribunale militare speciale di Roma, il G., il 2 maggio 1950, fu condannato a 19 anni di carcere per "collaborazionismo militare col tedesco"; ma, grazie ai vari condoni, quattro mesi dopo il verdetto poteva tornare in libertà. Il governo imperiale etiopico chiese, in applicazione dell'art. 45 del trattato di pace, la sua estradizione per processarlo per i numerosi crimini di guerra, ma la richiesta di Addis Abeba cadde nel vuoto.Si spense a Roma l'11 genn. 1955.

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