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domenica 14 ottobre 2012

Nel più antico manoscritto berbero

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Il Corano non è increato”. Nel più antico manoscritto berbero, ritrovato in Tunisia, la visione ibadita dell’Islam. Milano, 13 ottobre 2010 - Gli Ibaditi praticavano poco il pellegrinaggio alla Mecca e consideravano i sunniti alla stregua di politeisti perché venerano il Corano quasi come un’entità divina a sé stante. Sono alcune delle anticipazioni che emergono da una prima lettura del più antico testo in lingua berbera finora conosciuto, ritrovato in Tunisia nell’aprile scorso. La scoperta di una copia di questo manoscritto si deve al professor Vermondo Brugnatelli, docente di lingue e letterature del Nordafrica nell’Università di Milano-Bicocca che da anni conduce ricerche e studi sulla lingua e la letteratura berbera, e che ha potuto individuarlo nella Biblioteca Nazionale di Tunisi nel corso dell’ultima campagna di ricerche linguistiche sul campo promossa dall’Ateneo in questo paese prima dell’estate. Si tratta del manoscritto conosciuto come Kitab al Barbariya, “il libro in berbero”, che contiene un commento alla Mudawwana (raccolta di pareri giuridici e di consuetudini delle prime comunità ibadite) di Abû Ghanim al Khurasani risalente all’VIII-IX secolo d.C. Il ritrovamento di questa copia completa, 896 pagine fotografate quando ancora la Tunisia era sotto il protettorato francese, è stato reso più difficoltoso da un'errata registrazione nei cataloghi dei manoscritti. Il Kitab al Barbariya è diviso in quattordici capitoli che affrontano diversi aspetti della vita e del comportamento del fedele. Nell’ordine: la teologia, la preghiera, l’elemosina, il digiuno, il matrimonio, il divorzio (in ben due capitoli), i risarcimenti alternativi al taglione, le bevande e le relative punizioni, le testimonianze, le vendite e i giudizi, le decisioni e i processi e il relativo commentario e, per finire, l’usura. Spicca l’assenza di un capitolo dedicato al pellegrinaggio. L’autore della raccolta di leggi, importante studioso di diritto, era nato nel Khorasan, regione della Persia orientale, intorno alla metà del 700 d.C. Studiò diritto a Bassora, nell’attuale Iraq, all’epoca il maggiore centro di diritto ibadita. La storia del libro La Mudawwana di Abû Ghanim fu scoperta alla fine dell’Ottocento da Francis Rebillet, un ufficiale dell’esercito francese di stanza in Algeria. Del libro iniziò a occuparsi l’orientalista francese Gustave-Adolphe de Calassanti-Motylinski il quale, scomparso prematuramente nel 1907, non riuscì a pubblicarlo ma potè solo dare comunicazione della scoperta in un congresso di orientalisti nel 1905. Da allora di questo testo si erano perse le tracce. Sembra sia ricomparso negli anni ’70 presso un libraio parigino, che lo avrebbe venduto a un acquirente giapponese. Ma una copia fotografica - cui lo stesso Motylinski accennava nei suoi scritti - doveva ancora esistere, e una ricerca approfondita ha permesso di individuarla, aprendo così nuovi e insperati orizzonti di indagine linguistica e storica su di un mondo fino ad oggi quasi del tutto sconosciuto. Chi sono gli Ibaditi Gli ibaditi sono l'unico ramo oggi esistente dei kharigiti, corrente religiosa islamica che costituisce una "terza via" tra sunniti e sciiti, le cui origini risalgono ai primi tempi dell'Islam. Originari del sud dell’Arabia gli ibaditi si diffusero prima in Oman, dove sono presenti ancora oggi, e successivamente sull’isola di Zanzibar e in Africa Orientale. A partire dal 750 d.C. la loro presenza si estese anche al Nord Africa dove fondarono il regno di Tahert che cadde intorno al Mille a causa degli scontri con la dinastia sciita dei Fatimidi. Oggi gli ibaditi sopravvivono in alcune comunità sparse tra Libia, Tunisia e Algeria dove si parla tuttora il berbero, anche se minacciato dalla progressiva arabizzazione. Molti testi religiosi degli ibaditi, scritti originariamente in berbero, sono oggi conosciuti solo nella loro versione araba. L’altro nome di Dio, le novità sulla lingua berbera Oltre al suo valore storico, questo testo ha un’importanza eccezionale per gli studi di lingua berbera. Esso infatti apporta una massa imponente di dati (quasi 900 pagine, circa 20.000 righe di testo) relativi al berbero usato circa mille anni fa: una lingua in gran parte ancora da decifrare sia per il lessico sia per la morfologia e la sintassi. Non è esagerato affermare che questa scoperta apre un nuovo e importante capitolo negli studi berberi. Tra le curiosità lessicali, emerse dai primi studi che il professor Brugnatelli ha condotto in questi mesi sul testo, ci sono svariate denominazioni di "Dio": Yush corrispondente al nome proprio “Allah”, Bab-ennegh “il nostro signore" e ababay “divinità” che al plurale fa ibabayen. «Si tratta di un nome assolutamente sconosciuto, almeno fino a oggi», spiega Brugnatelli il quale è convinto che lo studio del manoscritto «richiederà molti anni ma potrebbe essere la base per la nascita di una nuova scienza, la paleografia berbera che oggi non esiste ancora ». Tra gli altri termini in lingua berbera vi sono diverse parole riferite alla religione, un ambito semantico dove oggi gli stessi berberi tendono ad usare una terminologia eslusivamente araba. Tra le parole oggi non più usate e per lo più sconosciute vi sono iser (profeta), tira (il libro, il Corano), tazenna (la Sunna o tradizione) e addirittura una parola per Islam, aykuzen. Un altro gruppo di termini, poi, svela l’influsso sull’antica lingua berbera del greco e del latino. Tra questi, “angelo”: anjlus, pl. anjlusen (dal latino angelus); “demonio”: adaymun, pl. idaymunen (dal greco daimon); “ricompensa”: amerkidu (dal latino mercedem); “peccato”: abekkadu (dal latino peccatum)

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