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martedì 18 aprile 2017

Spettrali torri di tufo e acqua alcalina formano un paesaggio alieno ai piedi della Sierra Nevada


Un piccolo gioiello incastonato ai piedi della Sierra Nevada, con acque scintillanti che in alcuni momenti della giornata - in particolare al tramonto e all'alba - assumono la caratteristica colorazione rosa.
 Il Mono Lake è uno dei laghi alcalini più antichi d'America ed è reso unico al mondo dalle stravaganti formazioni di tufo che emergono dal suo fondale.


Un paesaggio quasi alieno, ad alta quota nel deserto, formatosi almeno 760 mila anni fa da un'eruzione vulcanica. 
Nessun affluente alimenta il Mono Lake e questa mancanza ha causato nei secoli un accumulo di sali che hanno abbassato talmente tanto il ph dell'acqua da renderla tossica per quasi ogni forma di vita.
 Unici a resistere alla sua alcalinità sono dei gamberetti che alimentano due milioni di uccelli migratori che ogni anno tornano in questa riserva naturale per nidificare.
 Ed è sempre questa particolare composizione chimica ad aver creato queste spettrali torri di tufo .
 Il tufo è essenzialmente calcare comune: quello che è raro qui è il modo in cui si forma.
 In questo lago esistono delle sorgenti sottomarine ricche di calcio che si mescolano all'acqua ricca di carbonati, generando una reazione chimica così «violenta» da far uscire dall'acqua il calcare che si è formato.
 Parliamo di colonne che possono raggiungere anche i nove metri d'altezza, dalle forme più particolari.




I sedimenti presenti sotto lo strato di cenere del fondale suggeriscono che questo specchio d'acqua potrebbe essere un residuo di un lago più grande e antico che un tempo ricopriva gran parte del Nevada e dello Utah. 
Oggi la sua acqua salmastra è due volte e mezzo più salata rispetto all’oceano e il livello è sceso drasticamente: una condizione che sta mettendo a rischio l'ecosistema circostante, più fiorente di quanto si possa pensare.



Fonte: lastampa.it

Il gambero Pink Floyd uccide con il suono


Secondo una diffusa leggenda metropolitana, nel 1971, durante un concerto al London's Crystal Palace, i Pink Floyd suonarono così forte da uccidere i pesci del laghetto che separava il palco dal pubblico.
 Una nuova specie di gambero pistolero, il cui nome si ispira a quello della band, produce, con la sua sproporzionata chela rosa, un rumore talmente assordante, che mette ko i piccoli pesci di cui poi si nutre.

 Il Synalpheus pinkfloydi, come è stato chiamato il crostaceo, è stato scoperto al largo delle coste di Panama, dai ricercatori dell'Oxford University Museum of National History, dell'Universidade Federal de Goiás (Brasile) e della Seattle University (USA). 
 Come gli altri "gamberi pistola" della famiglia degli Alpheidae, ha una chela più sviluppata dell'altra, che apre e richiude velocemente producendo schiocchi che arrivano a 210 decibel, più forti dei suoni di un tipico concerto rock e sufficienti a stordire, con le onde d'urto prodotte, le prede di cui il musicista di nutre.

 Per gli autori della scoperta si tratta di uno dei suoni oceanici più forti mai documentati. 
Non è però per la storia dei pesci morti che il gambero è stato chiamato così. C'entra piuttosto il colore rosa acceso della sua chela, che evoca il nome della band di cui Sammy De Grave, a capo della ricerca, è da sempre fan. 

Il nuovo arrivato farà concorrenza a un altro crostaceo "rock star", l'Elephantis jaggerai, un gambero che prende il nome da Mick Jagger. 

 Fonte: focus.it

giovedì 13 aprile 2017

Resti di una piramide della XIII dinastia riaffiorano a Dahshur


E’ di questi giorni la notizia che nell’area a ridosso della piramide romboidale di Dahshur sono riaffiorati i resti di una piramide della XIII dinastia (1793-1645 a.C., prima dinastia del II Periodo Intermedio). 
I resti, portati alla luce dalla missione archeologica egiziana guidata da Adel Okasha, la quale sta lavorando in una zona a nord della famosa piramide a doppia pendenza di Snefru, sono in ottime condizioni e sono già previsti ulteriori scavi con la speranza che si possa scoprire altro della struttura piramidale. 

La porzione del monumento finora scoperta mostra parte della sua struttura interna che è composta da un corridoio di accesso all’interno della piramide, da una sala che conduce a una rampa meridionale, nonché da una camera nella parte più occidentale.

 Per quanto riguarda la superficie esterna si pensa che possa essere stata impiegata nei secoli successivi la sua costruzione come materiale edilizio; per questo motivo non ne rimane più niente e tutto quello che ne resta è rimasto coperto per millenni dalle sabbie della necropoli facendone perdere ogni traccia. 

Lungo il corridoio è stato trovato un blocco di alabastro di 15 cm per 17 con incise in senso verticale dieci linee di geroglifici che sono ancora in fase di studio.


Un architrave in granito e dei blocchi mostrano in parte il design della struttura che doveva misurare 35 m in altezza ed avere una base di 52 m per lato. 
Anche se alcune ipotesi sono già state avanzate, resta da scoprire chi fosse il titolare di questo antico monumento edificato nella necropoli di Dahshur durante la XIII dinastia, periodo in cui si vide la frantumazione del potere centrale ed il sorgere di dinastie locali che regnarono contemporaneamente su parte dell’Egitto e talvolta anche su un solo nomo (ci furono addirittura 60 regnanti – secondo Manetone – a governare nei circa 150 anni di potere di questa dinastia) e momento in cui le sponde del Nilo furono invase dagli Hyksos
.



Fonte: mediterraneoantico.it

mercoledì 12 aprile 2017

Le vere storie dei ragazzi selvaggi


Una scena di Greystoke, la leggenda di Tarzan (1984), dal romanzo di Edgar Rice Burroughs 

Abbandonati o persi nella giungla, destinati a una fine di stenti per fame, freddo o a diventare vittime di predatori. Eppure scampati alla morte e ritrovati dopo anni, nudi, con gli occhi assenti, incapaci di camminare eretti e di parlare, adattati a muoversi velocemente a quattro zampe o ad arrampicarsi sugli alberi.
 Sono i ragazzi selvaggi, poco meno di 100 casi registrati nella letteratura e nelle cronache degli ultimi secoli. 
Ma come hanno potuto farcela a copravvivere in condizioni così dure? Riconoscere l’esistenza di ragazzi (o bambini) selvaggi significa ammettere la possibilità che esseri umani a partire da circa 2 anni di età possano resistere in un ambiente selvatico nutrendosi di foglie, erba, bacche, radici, uova di uccelli e piccoli animali, come insetti, rane e pesci. O che possano farlo aiutati da altri mammiferi.

 «È pensabile che alcuni animali tollerino la presenza di un piccolo della specie umana. 
Stando in contatto anche solo visivo con loro, un bambino può così individuare fonti d’acqua e di cibo, ripararsi la notte in luoghi caldi e sicuri» dice Angelo Tartabini, docente di Psicologia evoluzionistica all’Università di Parma.
 Gli studi di Konrad Lorenz, il padre dell’etologia, sulle caratteristiche infantili nelle specie di mammiferi, indicano che essere paffutelli, con testa grande e rotonda, muoversi in modo goffo, sono caratteri che inibiscono l’aggressività e innescano istinti protettivi anche nei confronti di cuccioli di altri.
 Dopotutto i bambini, cioè i cuccioli di uomo, non sono troppo diversi da quelli delle scimmie e come gli altri animali possono anche subire un imprinting da parte della specie che li ha adottati, finendo per assomigliare ai nuovi “genitori”. 
Per questo nella letteratura si parla di bambini lupo, bambini orso, bambini gazzella o bambini scimmia.

 La teoria dell’imprinting, che procurò il premio Nobel a Konrad Lorenz, sostiene infatti che un giovane essere vivente impara a riconoscersi in una specie piuttosto che in un’altra a partire dal legame con una figura di riferimento (la chioccia per i pulcini, la lupa per il lupacchiotti, eccetera). In effetti, questi ragazzi selvaggi ai loro salvatori sono sempre apparsi del tutto “animaleschi”. 
«I loro problemi, però, dipendono dal fatto che non sono stati esposti a sufficienza all’ambiente umano durante fasi importanti dello sviluppo cognitivo, e non sono dovuti a “tare” presenti già alla nascita» aggiunge Tartabini.


Il primo caso registrato di ragazzo selvaggio risale al 1344, un episodio divulgato dal grande naturalista Carlo Linneo e poi ripreso dal filosofo francese Jean Jaques Rousseau: alcuni cacciatori ritrovarono fra i lupi un bambino selvaggio di circa 10 anni e lo portarono al principe d’Assia. 

Ma il caso che fece più clamore risale al 1798, quando fu catturato nei boschi francesi dell’Aveyron un ragazzino selvaggio di 12 anni: completamente nudo, mordeva e graffiava e, chiuso in una stanza, andava avanti e indietro come un animale in gabbia. 
Affidato a una vedova e poi a un naturalista, per ordine del ministero dell’Interno fu portato a Parigi e rinchiuso nell’Istituto per sordomuti, dove venne prelevato dal medico Jean Itard che ne tentò il recupero comportamentale e linguistico. 
Egli segnò su un diario tutti i progressi fatti dal ragazzo nel corso di 5 anni.
 Progressi limitati, però: Victor imparò abbastanza presto a comunicare con una sorta di pantomime (per esempio, se voleva uscire portava il cappotto e il cappello al suo tutore), ma non riuscì mai a parlare.
 Cominciò a scrivere diverse parole, verbi e aggettivi (gli fu insegnato prima ad accoppiare oggetti ai disegni che li mostravano, poi parole scritte ai disegni), ma mai imparò a usare i termini in modo astratto, cioè applicando le parole in un discorso in assenza degli oggetti o delle emozioni a cui si riferivano.


Un altro caso fu documentato dal reverendo Joseph Singh, missionario di un orfanotrofio di Midnapore, in India. 
Nel 1920 il reverendo volle verificare alcune segnalazioni di contadini che riferivano di aver visto due bimbe fra i lupi. 
Si appostò su un albero fuori da una piccola grotta, dove si sospettava si rifugiassero questi animali. 
Vide uscire i lupi e subito dopo entrò nella tana, dove trovò due bambine che camminavano a quattro zampe. 
Una aveva circa 8 anni, l’altra solo un anno e mezzo. Probabilmente non erano nemmeno sorelle ed erano state abbandonate in momenti diversi, attirando poi l’interesse solo protettivo dei lupi di quell’area. 
Mangiavano soltanto latte e carne cruda, annusando e lappando, senza mai prendere il cibo con le mani. Che usavano invece con i piedi per muoversi velocemente a quattro arti.
 Amala, la più piccola, morì presto di nefrite. 
Kamala visse invece altri 8 anni.
 Imparò a pronunciare 50 parole, a comunicare con i gesti, a ridere e a giocare con altri bambini. 

 Un altro tentativo di recupero fu documentato dallo psicologo sperimentale Jorge Ramirez: si trattava di un fanciullo di 5 anni trovato nel 1933 in una foresta del Salvador: nudo, capelli lunghi, postura ricurva, vocalizzazioni da scimmia. 
Battezzato con il nome di Tarzancito, imparò a ripetere alcune parole senza però capirne il significato. 
Poi, vivendo nella comunità umana, cominciò a lavarsi, a vestirsi a scrivere e a leggere alcune parole, a fare anche semplici conti.


Un’immagine del film Sopravvivere con i lupi: aldilà di storie inventate, i casi registrati di bambini-lupo sono 13.

 Nel 1992, un altro caso: un ragazzino di circa 15 anni, avvistato nei pressi di una mandria di bufali nel Parco nazionale Marahouè, in Costa d’Avorio.
 Non parlava e aveva ginocchia callose, segno di andatura a carponi. 
«Faceva alcuni versi, emettendo i vocalizzi degli scimpanzé» raccontò il capo dei ranger del Parco. 
«Non è un demente» assicurò l’assistente sociale dell’ospedale di Boufalé, dove fu ricoverato. 
Di lui però si persero presto le tracce: secondo un giornalista della televisione nazionale ivoriana, che seguì il caso, fu nascosto da presunti parenti al preciso scopo di preservare i suoi poteri magici, che gli derivavano dalla vicinanza alla natura selvaggia e agli spiriti. 

 Tra gli ultimi casi segnalati (di attendibilità non chiara) ci sono quelli di John Sebunya in Uganda e di Bello in Nigeria.
 Scappato di casa quando vide il padre uccidere sua madre a circa 4 anni di età, 
Sebunya sopravvisse nella foresta e fu catturato nel 1991 mentre era con un gruppo di cercopitechi verdi che tentarono di difenderlo. Bello fu invece trovato piccolissimo (circa 3 anni) nella foresta di Alore, in Nigeria, nel 1996. 
Mostrava i comportamenti degli scimpanzé della zona, facendo pensare di essere stato adottato da loro. Nonostante gli sforzi degli educatori, non ha mai imparato a parlare ed è morto nel 2005.


Sopravvivere nella Russia postcomunista dopo essere fuggiti da una madre indifferente e un padre alcolizzato non è affatto semplice.
 La storia di Ivan Mishukov, però, dimostra che ci si può arrangiare cooperando con i cani randagi.
 Ivan lo fece per due anni (1996-97), chiedendo la carità per le strade di Mosca e poi dividendo il cibo con il branco. 
In cambio poteva dormire e scaldarsi in mezzo a loro per sopravvivere al freddo. 
I cani lo riconobbero come loro leader e non esitavano a difenderlo dai malintenzionati. 
 Per tre volte la polizia, venuta a conoscenza del caso, tentò di prendere il ragazzo, che riuscì a scappare protetto dai cani. 
Le forze dell’ordine, poi, riuscirono a catturarlo in un momento che era lontano dal branco.
 Indirizzato al recupero, Ivan dimostrò che non aveva perso la capacità di parlare, crescendo arricchì il suo linguaggio come un ragazzo normale ed ebbe anche buoni risultati scolastici.

 A questi casi si sono poi aggiunti anche quelli di Rochom P’ngieng, una ragazza cambogiana ritrovata nel 2007 dopo aver vissuto alcuni anni nella giungla (si era persa all’età di 8 anni) e il cosiddetto bird-boy, un bambino di sette anni scoperto nel 2008 nella campagna russa e cresciuto un una casa di due stanze in cui viveva insieme a decine di uccellini in gabbia. 
Era incapace di parlare: emetteva solo cinguettii.


I bambini che si ritiene siano stati allevati da animali, come Kamala, e quelli vissuti soli nella foresta come Victor dell’Aveyron, hanno avuto tutti un recupero difficile e molto parziale, sopratutto nella verbalizzazione.
 Anche quando impararono alcune parole, non riuscirono a usarle se non davanti agli oggetti reali e ai loro bisogni immediati. 
«E tanto più uno di loro è stato a contatto con gli animali, tanto più è difficile il suo recupero» spiega Anna Ludovico, autrice di un libro dedicato all’argomento. 
 «Lo studio dei bambini selvaggi ci porta alla scomoda considerazione che senza il linguaggio verbale, che ci viene dato dall’ambiente sociale in cui viviamo, viene meno la più importante caratteristica della nostra specie, vale a dire la possibilità di pensare in modo astratto».

 Questi casi ci dicono quindi che, in un certo senso, esseri umani si diventa, non si nasce. 
Senza la trasmissione culturale di migliaia di generazioni che ci hanno preceduto, noi torneremmo probabilmente a vivere come scimmie.

 Fonte: focus.it

La super fioritura nel Carrizo Plain National Monument


Un'immensa distesa di fiori colorati. 
Uno spettacolo per gli occhi. 

Siamo in California dove alcuni fortunati hanno avuto la possibilità di ammirare il super-bloom. 
Un evento vista la grave siccità che negli ultimi tempo ha colpito lo stato americano.
 Giallo, rosso, viola, arancio, il tutto condito da una distesa verde.

 Il Carrizo Plain National Monument sta sperimentando questa eccezionale fioritura, a un'altitudine di 700 metri nell'entroterra tra San Luis Obispo e Santa Barbara. 
 Quest'area è considerata semiarida. 
La siccità ha colpito duramete Carrizo Plain negli ultimi anni ma in questo 2017 è avvenuto un piccolo miracolo: la pioggia è tornata a bagnare questi campi.
 Al resto ha pensato la Natura, spruzzando i suoi colori attraverso i fiori selvatici endemici dell'area. 
 Una vera e propria esplosione arrivata praticamente all'improvviso, come spesso accade nelle zone aride e desertiche bagnate dalla pioggia.


“Il fondovalle ha infinite distese di coreopsis gialli e viola, di phacelia, e di piccole macchie di decine di altre specie,” spiega Bob Wick, fotografo ed esperto del Bureau of Land Management.
 “Per non essere da meno, il RangeTemblor è dipinto con strisce di colore arancione, giallo e viola, come se fosse un libro di fiabe. Non ho mai visto un allineamento così spettacolare di fioriture. Mai".








Tra gli americani e i turisti è già scattata la corsa verso Carrizo Plain. 
Le aree dedicate ai campeggiatori stanno facendo registrate il tutto esaurito. E non c'è da stupirsi vista la splendida e rara cornice naturale, una vera e propria opera d'arte. 

 Francesca Mancuso

martedì 11 aprile 2017

Kauai, " l'isola giardino” sperduta nel Pacifico


Rispetto reciproco, comunione con la natura, armonia, tolleranza. Questi alcuni dei valori sui quali è costruita la comunità isolana del “Taylor Camp”. 
E non sto parlando dell’isola che non c’è – anche se è possibile percepire la magia nell’aria – ma di Kauai, un’isola vulcanica che fa parte dell’arcipelago delle Hawaii. 
Non la più bella ma sicuramente tra le più affascinanti ed anche la più antica geologicamente.








La storia del Taylor Camp inizia nel 1969, quando un gruppo di hippy americani decise di fuggire dal caos e dai disordini sociali che caratterizzavano quegli anni, per rifugiarsi in un vero e proprio paradiso terrestre.
 Nacque ben presto una comunità autogestita, anche grazie all’aiuto di Howard Taylor – da cui il nome del campo – fratello della famosa attrice Elizabeth, il quale viveva già in precedenza sull’isola, e che riuscì a mitigare alcune divergenze con i nativi del luogo.

 Le bellezze dell’isola contribuiscono al benessere ed alla qualità della vita dei suoi abitanti; le spiagge di sabbia bianca e il mare cristallino tipici dei paradisi hawaiiani sono solo un assaggio. Passando per la cittadina di Waimea si arriva al Waimea Canyon, il quale offre una vista straordinaria sulle montagne rocciose. 
Inoltre, Kauai è l’unico luogo dell’arcipelago in cui non è ancora arrivata la mangusta, il piccolo predatore che altrove ha causato l’estinzione di alcune specie di uccelli che si possono ammirare nel cielo kauaiano.


Non è difficile credere che, da quando le prime coppie di hippy abbiano messo piede sull’isola, questa sia diventata la meta preferita di chiunque voglia vivere fuori dagli schemi, in un’atmosfera distesa e pacifica. 

 Fonte: europinione.it

lunedì 10 aprile 2017

Francia, riaffiora la città romana di Ucetia


Era rimasta fino ad ora largamente sconosciuta e molti dubitavano finanche dell’esistenza stessa della città romana di Ucetia. Ma grazie ai lavori per la costruzione di un collegio sono venuti alla luce nel sud della Francia gli spettacolari mosaici romani risalenti al I sec. a.C., ovvero all’epoca della conquista della Gallia di Giulio Cesare. 

 L’insediamento di Ucetia sarebbe stato abitato fino al VII sec. d.C. e gli scavi, iniziati ad ottobre 2016 da parte degli archeologici dell’Irap, Institut national de recherches archéologiques préventives, hanno fatto riaffiorare un mosaico di 250 metri quadrati. 
 Secondo gli archeologi francesi avrebbe potuto ornare la sala di ricevimento di un edificio pubblico visti i motivi geometrici finemente realizzati e le immagini di animali, tra cui un cerbiatto, un’aquila, un gufo e un’anatra.








Secondo Philippe Cayn, archeologo responsabile delle operazioni di scavo, si tratta di uno dei mosaici romani più grandi ritrovati in Francia. 
A sorprendere sono anche il periodo di realizzazione, considerato che la gran parte dei mosaici romani risalgono ad un’epoca successiva, e l‘ottimo stato di conservazione.
 L’opera scoperta è fondamentale poi per affermare con certezza l’esistenza dell’antica città, fino ad ora menzionata solo su una stele a Nimes. 

 Fonte: www.ilprimatonazionale.it

Las Olas, l' hotel boliviano che sembra uscito da un libro di fiabe


Un hotel che sembra uscito da un libro di favole.
 Siamo in Bolivia dove lo scultore tedesco Martin Strätker diede vita a un rifugio dalle forme strane, con una bellissima vista sul lago.
 Il suo nome è Las Olas (Le Onde). Siamo a Cocapabana, sulle rive del lago Titicaca. 

Qui 21 anni fa Martin si innamorò di una donna boliviana e decise di trasferirsi per stare con lei.
 Allora, forte di una grande vena creativa si mise all'opera per creare una dimora unica, dalle forme inconsuete e dai colori forti. Nasce così Las Olas. 

Caratterizzato da giardini soleggiati, scaldacqua solari, stufe a legna artigianali e mobili fatti su misura, l'ostello è fatto di pietre, fango e legno recuperati dalla collina su cui sorge.
 É stato aperto al pubblico 8 anni fa e ha un totale di 21 camere e 8 rifugi privati.
 Questi ultimi hanno tutti forme differenti, dalla tartaruga alla lumaca. 
 Tutte le suite sono state realizzate con materiali naturali e alcune hanno forme ispirate alle costruzioni rotonde dell'antica cultura Chipaya. 
Ogni camera di Las Olas garantisce privacy e una vista meravigliosa.








Costruito su un pendio, l'ostello è stato realizzato dai costruttori locali Marcelino Arias e Mario Mendoza utilizzando i disegni di Martin, che veicolano la sua passione per l'architettura organica, senza linee rette.
 All'interno, le suite sono illuminate quasi del tutto dalla luce naturale e sono riscaldati da stufe a legna che utilizzano materiali sostenibili di provenienza locale.












“Dalla vostra zona soggiorno, dal vostro letto e quasi da qualsiasi punto della vostra camera avbrete una vista perfetta del lago attraverso le enormi finestre.
 Ogni suite è dotata di un piccolo angolo cottura, bagno privato, un'amaca all'interno e un camino” si legge sul sito ufficiale. “Facciamo grandi sforzi per lavorare in modo ecologico. 
Le case sono costruite con un isolamento termico completo di polistirolo all'interno del tetto, così come le pareti sotto la facciata. Utilizziamo grandi pannelli solari per riscaldare l'acqua.
 Ricicliamo tutta l'acqua delle nostre lavatrici”.


Soggiornare al Las Olas è un'esperienza indimenticabile, senza contare che questo luogo non è (ancora) invaso da orde di turisti. 

 Francesca Mancuso

venerdì 7 aprile 2017

Scoperto il più antico acquedotto romano


Il più antico acquedotto romano, risalente al terzo secolo a.C. è stato ritrovato durante i lavori di scavo della metro C a Roma. Siamo a piazza Celimontana a poche centinaia di metri dal Colosseo, proprio di fronte all'Ospedale militare del Celio, è qui che si scava per far passare la metro a 20 metri sottoterra.
 Ed è sempre qui (ma aggiungiamo come era prevedibile) che è stata fatta una scoperta, definita dai due archeologi della Soprintendenza, come ‘clamorosa’.
 Assieme all’acquedotto, un po’ più giù è stata rinvenuta una tomba con un un corredo funerario dell'Età del Ferro, tra la fine del X e gli inizi del IX secolo avanti Cristo.






Da tempo gli archeologi stavano scavando in un pozzo di areazione in costruzione per la linea della metropolitana.

 I dettagli sul ritrovamento sono stati illustrati da Simonetta Morretta, funzionario archeologo responsabile dell'area Celio per la Soprintendenza e Paola Palazzo durante un convegno alla Sapienza. Secondo le ricercatrici: 
 “L'acquedotto costruito 2300 anni fa venne abbandonato nella primissima età imperiale e fu successivamente utilizzato come fogna in età tardo antica. 
Da qui anche la possibilità di analizzare i resti di molti cibi dell'antichità tra cui fagiani”.

 Nello specifico, i blocchi dell’acquedotto sono in tufo, disposti in cinque filari sovrapposti; il piano di scorrimento interno è costituito da uno spesso strato di cocciopesto, rinvenuto in perfetto stato di conservazione, che presenta una leggerissima pendenza da Est a Ovest.
 Non ci sono tracce di calcare, quindi secondo le studiose, ciò farebbe supporre che il suo utilizzo nel tempo sia stato limitato o che l'abbandono della struttura sia di poco posteriore ad un intervento di manutenzione.
 L'acqua veniva distribuita attraverso una tubazione in piombo (fistula aquaria), collegata all'acquedotto da una canaletta e un pozzetto di decantazione.

 L'opera è stata smontata blocco per blocco per un tratto di dieci metri circa, catalogata, sarà messa in mostra prossimamente. 

 Dominella Trunfio

giovedì 6 aprile 2017

Il glicine: storia, leggende e linguaggio dei fiori


Il glicine, wisteria sinensis, appartiene al gruppo delle papiliode della famiglia delle fabacee, è originario delle regioni asiatiche, in particolare della Cina, ma è anche ampiamente diffuso nella costa orientale degli Stati Uniti. 
Il nome scientifico wisteria fu assegnato alla pianta in onore allo studioso statunitense Kaspar Wistar (1761 – 1818) anche se i tedeschi chiamarono la pianta blauregen che significa pioggia blu, nome che molto si avvicina a quello che il glicine ha in Cina il glicine viene, infatti, chiamato zi teng che significa vite blu. 
Il termine usato in Italia ovvero glicine deriva, invece, dalla parola greca glikis che significa dolce ed è dovuto alla dolce profumazione dei fiori. 

 E’ una tra le più belle ed apprezzate piante rampicanti del mondo, la sua altezza può raggiungere e superare i 15 m. 
Il suo fusto è molto flessibile, simile a quello della pianta di vite, per questo motivo per farla crescere in altezza ha spesso bisogno di supporti che la sostengano. 
Sia il fusto che le ramificazioni sono di colore brunastro, le foglie, di piccole dimensioni, hanno una forma ovale e sono di colore verde chiaro.
 Il suo periodo di fioritura è la primavera, più precisamente nei mesi di maggio e giugno.
 I fiori compaiono prima delle foglie, sono delicatamente e gradevolmente profumati, riuniti in grappoli di una colorazione che può variare dall’azzurro chiaro al violetto.


Il glicine fu importato in Europa, più precisamente in Inghilterra, nel 1816 da un capitano inglese, Robert Welbank, su di un carico mercantile della flotta della compagnia delle indie orientali.
 Il glicine, però, non venne immediatamente tenuto in considerazione dai botanici inglesi e si dovettero attendere un paio di anni prima che “la vite blu” importata da Cina e Giappone spopolasse tra i giardini europei. 

Dei i primi esemplari importati vive ancora oggi una pianta che è la pianta più vecchia di glicine esistente in Europa, si trova al Kew Gardens di Londra ed è anche la pianta di glicine più grande e spettacolare che esista al mondo.


Il glicine è accompagnato da molte storie, soprattutto di origine cinese e giapponese, sul suo uso simbolico.

 Si narra che gli Imperatori giapponesi, durante i loro lunghi viaggi di rappresentanza in terre straniere, portassero con sé dei piccoli bonsai di glicine, affinché giungendo alla corte di altre dinastie alcuni uomini, della scorta dell’Imperatore, potessero portare in dono i piccoli alberelli in segno di amicizia e benevolenza da parte dell’Imperatore nei confronti degli abitanti delle terre su cui erano giunti.


Una leggenda italiana ne narra l’origine, secondo la tradizione piemontese, infatti, una giovane pastorella di nome Glicine, piangeva e si disperava per via del suo aspetto, che la faceva sentire brutta ed inferiore rispetto ad altre giovani del suo paesino.
 Un giorno al massimo della sua disperazione iniziò a piangere, da sola in mezzo ad un prato, quando ad un certo punto le sue lacrime diedero vita ad una meravigliosa pianta dalla fioritura stupenda e dall’inebriante profumo, il glicine. 
Circondata da magnifico profumo la ragazza si sentì orgogliosa e fiera di se stessa, per esser riuscita a creare quella pianta meravigliosa
.

Nel linguaggio dei fiori e delle piante il glicine, in Cina ed in Giappone, simboleggia l’amicizia e la disponibilità. 
Tale significato è stato adottato anche dai paesi occidentali, nei quali regalare una pianta di glicine è simbolo di amicizia sincera e riconoscenza. 

 Fonte: ilgiardinodeltempo
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