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mercoledì 12 aprile 2017

Le vere storie dei ragazzi selvaggi


Una scena di Greystoke, la leggenda di Tarzan (1984), dal romanzo di Edgar Rice Burroughs 

Abbandonati o persi nella giungla, destinati a una fine di stenti per fame, freddo o a diventare vittime di predatori. Eppure scampati alla morte e ritrovati dopo anni, nudi, con gli occhi assenti, incapaci di camminare eretti e di parlare, adattati a muoversi velocemente a quattro zampe o ad arrampicarsi sugli alberi.
 Sono i ragazzi selvaggi, poco meno di 100 casi registrati nella letteratura e nelle cronache degli ultimi secoli. 
Ma come hanno potuto farcela a copravvivere in condizioni così dure? Riconoscere l’esistenza di ragazzi (o bambini) selvaggi significa ammettere la possibilità che esseri umani a partire da circa 2 anni di età possano resistere in un ambiente selvatico nutrendosi di foglie, erba, bacche, radici, uova di uccelli e piccoli animali, come insetti, rane e pesci. O che possano farlo aiutati da altri mammiferi.

 «È pensabile che alcuni animali tollerino la presenza di un piccolo della specie umana. 
Stando in contatto anche solo visivo con loro, un bambino può così individuare fonti d’acqua e di cibo, ripararsi la notte in luoghi caldi e sicuri» dice Angelo Tartabini, docente di Psicologia evoluzionistica all’Università di Parma.
 Gli studi di Konrad Lorenz, il padre dell’etologia, sulle caratteristiche infantili nelle specie di mammiferi, indicano che essere paffutelli, con testa grande e rotonda, muoversi in modo goffo, sono caratteri che inibiscono l’aggressività e innescano istinti protettivi anche nei confronti di cuccioli di altri.
 Dopotutto i bambini, cioè i cuccioli di uomo, non sono troppo diversi da quelli delle scimmie e come gli altri animali possono anche subire un imprinting da parte della specie che li ha adottati, finendo per assomigliare ai nuovi “genitori”. 
Per questo nella letteratura si parla di bambini lupo, bambini orso, bambini gazzella o bambini scimmia.

 La teoria dell’imprinting, che procurò il premio Nobel a Konrad Lorenz, sostiene infatti che un giovane essere vivente impara a riconoscersi in una specie piuttosto che in un’altra a partire dal legame con una figura di riferimento (la chioccia per i pulcini, la lupa per il lupacchiotti, eccetera). In effetti, questi ragazzi selvaggi ai loro salvatori sono sempre apparsi del tutto “animaleschi”. 
«I loro problemi, però, dipendono dal fatto che non sono stati esposti a sufficienza all’ambiente umano durante fasi importanti dello sviluppo cognitivo, e non sono dovuti a “tare” presenti già alla nascita» aggiunge Tartabini.


Il primo caso registrato di ragazzo selvaggio risale al 1344, un episodio divulgato dal grande naturalista Carlo Linneo e poi ripreso dal filosofo francese Jean Jaques Rousseau: alcuni cacciatori ritrovarono fra i lupi un bambino selvaggio di circa 10 anni e lo portarono al principe d’Assia. 

Ma il caso che fece più clamore risale al 1798, quando fu catturato nei boschi francesi dell’Aveyron un ragazzino selvaggio di 12 anni: completamente nudo, mordeva e graffiava e, chiuso in una stanza, andava avanti e indietro come un animale in gabbia. 
Affidato a una vedova e poi a un naturalista, per ordine del ministero dell’Interno fu portato a Parigi e rinchiuso nell’Istituto per sordomuti, dove venne prelevato dal medico Jean Itard che ne tentò il recupero comportamentale e linguistico. 
Egli segnò su un diario tutti i progressi fatti dal ragazzo nel corso di 5 anni.
 Progressi limitati, però: Victor imparò abbastanza presto a comunicare con una sorta di pantomime (per esempio, se voleva uscire portava il cappotto e il cappello al suo tutore), ma non riuscì mai a parlare.
 Cominciò a scrivere diverse parole, verbi e aggettivi (gli fu insegnato prima ad accoppiare oggetti ai disegni che li mostravano, poi parole scritte ai disegni), ma mai imparò a usare i termini in modo astratto, cioè applicando le parole in un discorso in assenza degli oggetti o delle emozioni a cui si riferivano.


Un altro caso fu documentato dal reverendo Joseph Singh, missionario di un orfanotrofio di Midnapore, in India. 
Nel 1920 il reverendo volle verificare alcune segnalazioni di contadini che riferivano di aver visto due bimbe fra i lupi. 
Si appostò su un albero fuori da una piccola grotta, dove si sospettava si rifugiassero questi animali. 
Vide uscire i lupi e subito dopo entrò nella tana, dove trovò due bambine che camminavano a quattro zampe. 
Una aveva circa 8 anni, l’altra solo un anno e mezzo. Probabilmente non erano nemmeno sorelle ed erano state abbandonate in momenti diversi, attirando poi l’interesse solo protettivo dei lupi di quell’area. 
Mangiavano soltanto latte e carne cruda, annusando e lappando, senza mai prendere il cibo con le mani. Che usavano invece con i piedi per muoversi velocemente a quattro arti.
 Amala, la più piccola, morì presto di nefrite. 
Kamala visse invece altri 8 anni.
 Imparò a pronunciare 50 parole, a comunicare con i gesti, a ridere e a giocare con altri bambini. 

 Un altro tentativo di recupero fu documentato dallo psicologo sperimentale Jorge Ramirez: si trattava di un fanciullo di 5 anni trovato nel 1933 in una foresta del Salvador: nudo, capelli lunghi, postura ricurva, vocalizzazioni da scimmia. 
Battezzato con il nome di Tarzancito, imparò a ripetere alcune parole senza però capirne il significato. 
Poi, vivendo nella comunità umana, cominciò a lavarsi, a vestirsi a scrivere e a leggere alcune parole, a fare anche semplici conti.


Un’immagine del film Sopravvivere con i lupi: aldilà di storie inventate, i casi registrati di bambini-lupo sono 13.

 Nel 1992, un altro caso: un ragazzino di circa 15 anni, avvistato nei pressi di una mandria di bufali nel Parco nazionale Marahouè, in Costa d’Avorio.
 Non parlava e aveva ginocchia callose, segno di andatura a carponi. 
«Faceva alcuni versi, emettendo i vocalizzi degli scimpanzé» raccontò il capo dei ranger del Parco. 
«Non è un demente» assicurò l’assistente sociale dell’ospedale di Boufalé, dove fu ricoverato. 
Di lui però si persero presto le tracce: secondo un giornalista della televisione nazionale ivoriana, che seguì il caso, fu nascosto da presunti parenti al preciso scopo di preservare i suoi poteri magici, che gli derivavano dalla vicinanza alla natura selvaggia e agli spiriti. 

 Tra gli ultimi casi segnalati (di attendibilità non chiara) ci sono quelli di John Sebunya in Uganda e di Bello in Nigeria.
 Scappato di casa quando vide il padre uccidere sua madre a circa 4 anni di età, 
Sebunya sopravvisse nella foresta e fu catturato nel 1991 mentre era con un gruppo di cercopitechi verdi che tentarono di difenderlo. Bello fu invece trovato piccolissimo (circa 3 anni) nella foresta di Alore, in Nigeria, nel 1996. 
Mostrava i comportamenti degli scimpanzé della zona, facendo pensare di essere stato adottato da loro. Nonostante gli sforzi degli educatori, non ha mai imparato a parlare ed è morto nel 2005.


Sopravvivere nella Russia postcomunista dopo essere fuggiti da una madre indifferente e un padre alcolizzato non è affatto semplice.
 La storia di Ivan Mishukov, però, dimostra che ci si può arrangiare cooperando con i cani randagi.
 Ivan lo fece per due anni (1996-97), chiedendo la carità per le strade di Mosca e poi dividendo il cibo con il branco. 
In cambio poteva dormire e scaldarsi in mezzo a loro per sopravvivere al freddo. 
I cani lo riconobbero come loro leader e non esitavano a difenderlo dai malintenzionati. 
 Per tre volte la polizia, venuta a conoscenza del caso, tentò di prendere il ragazzo, che riuscì a scappare protetto dai cani. 
Le forze dell’ordine, poi, riuscirono a catturarlo in un momento che era lontano dal branco.
 Indirizzato al recupero, Ivan dimostrò che non aveva perso la capacità di parlare, crescendo arricchì il suo linguaggio come un ragazzo normale ed ebbe anche buoni risultati scolastici.

 A questi casi si sono poi aggiunti anche quelli di Rochom P’ngieng, una ragazza cambogiana ritrovata nel 2007 dopo aver vissuto alcuni anni nella giungla (si era persa all’età di 8 anni) e il cosiddetto bird-boy, un bambino di sette anni scoperto nel 2008 nella campagna russa e cresciuto un una casa di due stanze in cui viveva insieme a decine di uccellini in gabbia. 
Era incapace di parlare: emetteva solo cinguettii.


I bambini che si ritiene siano stati allevati da animali, come Kamala, e quelli vissuti soli nella foresta come Victor dell’Aveyron, hanno avuto tutti un recupero difficile e molto parziale, sopratutto nella verbalizzazione.
 Anche quando impararono alcune parole, non riuscirono a usarle se non davanti agli oggetti reali e ai loro bisogni immediati. 
«E tanto più uno di loro è stato a contatto con gli animali, tanto più è difficile il suo recupero» spiega Anna Ludovico, autrice di un libro dedicato all’argomento. 
 «Lo studio dei bambini selvaggi ci porta alla scomoda considerazione che senza il linguaggio verbale, che ci viene dato dall’ambiente sociale in cui viviamo, viene meno la più importante caratteristica della nostra specie, vale a dire la possibilità di pensare in modo astratto».

 Questi casi ci dicono quindi che, in un certo senso, esseri umani si diventa, non si nasce. 
Senza la trasmissione culturale di migliaia di generazioni che ci hanno preceduto, noi torneremmo probabilmente a vivere come scimmie.

 Fonte: focus.it

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