Il Museo della Casina delle Civette si trova all’interno del parco di Villa Torlonia a Roma ed è una delle bellezze nascoste della Capitale.
Il suo nome deriva dal fatto che le civette sono uno decori ricorrenti nelle vetrate e nelle maioliche.
Fino al 1938 la Casina delle Civette era stata la dimora del principe Giovanni Torlonia junior, all’epoca era conosciuta come Capanna svizzera per via del suo aspetto molto simile a quello di un rifugio alpino.
Oggi è invece, è un museo che sembra uscito da un libro di favole.
Ideata nel 1840 da Giuseppe Jappelli su commissione del principe Alessandro Torlonia, la Casina delle Civette è si è trasformata nel tempo, infatti se prima l’architettura appariva rustica adesso ha un aspetto raffinato con porticati, torrette e logge.
Ma sicuramente sono le sue decorazioni a lasciare a bocca aperta. Ci sono maioliche colorate e vetrate che raffigurano civette, fate, cigni, pavoni ma anche nastri, farfalle e rose.
E’ proprio per le vetrate con due civette che il nome dell’edificio è stato cambiato,ma in realtà questo uccello viene ripreso anche in altre decorazioni e nel mobilio voluto dal principe Giovanni, amante dei simboli esoterici.
Se all’esterno si intravede anche un tocco liberty, all’interno vi sono sculture in marmo, ferro battuto, mosaici, legni intarsiati e decorazioni pittoriche. Le vetrate sono state prodotte su disegni di Duilio Cambellotti, UmbertoBottazzi, Vittorio Grassi e Paolo Paschetto.
L’edificio venne distrutto durante la Seconda guerra mondiale, solo nel 1978 la Casina delle Civette fu acquisita dal comune di Roma, ma nel 1991 un incendio distrusse ulteriormente la villa.
Dopo un lungo lavoro di restauro durato cinque anni, la Casina delle Civette è oggi uno spazio restituito alla città e sicuramente uno dei più affascinanti per grandi e piccini.
Le vetrate
Dominella Trunfio
Nell'era delle passeggiate spaziali e dei voli parabolici, un'ascesa in mongolfiera potrebbe non fare notizia.
Eppure fu proprio per mezzo di un pallone aerostatico che James Glaisher (1809-1903), meteorologo e aeronauta britannico, entrò nella leggenda dell'aviazione, con uno dei voli più spericolati, coraggiosi e incoscienti che l'uomo abbia mai tentato.
Il 5 settembre 1862, a bordo di un aerostato, Glaisher e il co-pilota Henry Coxwell raggiunsero gli 11 km di quota: l'altezza a cui volano gli aerei di linea.
Lo fecero di proposito, per studiare i fenomeni atmosferici che governano il meteo sulla Terra.
Ma ignoravano i rischi dell'impresa e soltanto un colpo di fortuna e la prontezza di riflessi salvarono la coppia da morte certa, evitando che il pallone proseguisse il suo viaggio incontrollato verso la stratosfera.
Per Glaisher e Coxwell non era il primo volo, ma nessuno fino ad allora si era mai spinto a quella quota.
L'impresa era stata finanziata dalla British Association for the Advancement of Science per studiare quello che oggi studiano i palloni meteorologici: i venti d'alta quota, i movimenti delle nubi, la formazione delle precipitazioni, l'umidità.
L'aerostato riempito con un gas leggero (forse idrogeno) decollò da Wolverhampton, Inghilterra centrale: per salire occorreva togliere un po' di sabbia dal cesto; per scendere, bisognava aprire una valvola e lasciare uscire gas dal pallone.
Era una bella giornata, ma prima di raggiungere i 5 km d'altezza successe qualcosa di strano: uno dei sei piccioni che Glaisher aveva portato con sé a bordo aprì le ali e cadde fuori dal cesto come un foglio di carta.
Continuando a salire, un altro pennuto fu scaraventato nel vuoto, precipitando come un sasso.
Prima ancora che Glaisher potesse fiutare il pericolo, la temperatura dell'aria era precipitata a -20 °C e la vista dell'aeronauta si era offuscata.
Le poche strumentazioni scientifiche di bordo erano divenute illeggibili, e il braccio di Glaisher stava perdendo sensibilità. Voltandosi verso Coxwell per cercare aiuto, il pilota lo vide con la testa a ciondoloni, privo di senso.
Stavano salendo troppo, e troppo in fretta; bisognava scendere immediatamente, per sopravvivere.
La valvola per svuotare il pallone era rimasta impigliata in una delle funi: Glaisher si arrampicò sul bordo del cesto, rischiando la vita per disincastrarla.
Afferrò una cima con i denti e, dopo qualche strattone, liberò la valvola.
Fortunatamente, il pallone prese a scendere.
Coxwell si riebbe dallo stordimento, e continuò con le misurazioni scientifiche.
Dei piccioni, solo uno rimase in vita.
Per lo spavento, dopo l'atterraggio, l'animale rimase per 15 minuti ancorato al braccio di Glaisher, prima di spiccare di nuovo il volo. Il freddo, la mancanza di ossigeno e la rapida ascesa avevano creato nei due aeronauti la nausea, la paralisi e la perdita di coscienza sperimentata anche dai sub, quando risalgono troppo in fretta.
Dopo quell'incidente, Glaisher effettuò altri 21 voli, tornando con osservazioni cruciali per la comprensione del meteo.
Notò per esempio che i venti cambiano velocità a seconda dell'altezza a cui si trovano, e scoprì come si formano le gocce d'acqua prima di precipitare sulla Terra.
Quella passione per il volo avrebbe ispirato moltissimi tra i suoi posteri: abbiamo tutti ancora negli occhi il passo compiuto da Felix Baumgartner prima del tuffo nel vuoto dalla stratosfera, da 38.969 m di altezza, dopo un'ascensione di 2 ore e 37 minuti a bordo di una capsula sostenuta da un pallone aerostatico.
E anche il futuro del turismo spaziale potrebbe sfruttare questi mezzi di ascesa: la compagnia spagnola Zero2Infinity, sostenuta dall'astronauta della Nasa Michael Lopez-Alegria, vorrebbe usare un gigantesco pallone ad elio per condurre gli aspiranti viaggiatori celesti a 34 km dalla superficie terrestre, al di là del 99% della nostra atmosfera.
Fonte: focus.it
Una prelibatezza che arriva da lontano, precisamente dall’Australia, ma che da qualche tempo è disponibile anche qui in Italia: il Caviar Citrus (Microcitrus australasica), noto anche come Finger Lime.
Si tratta di un agrume ancestrale molto particolare e per questo tanto ricercato dai migliori chef stellati che lo utilizzano per esaltare piatti a base di pesce col quale si sposa a meraviglia, meglio del solito limone o dei classici agrumi.
La pianta è un piccolo arbusto con foglie minute e appuntite mentre i frutti sono affusolati proprio come le dita della mano, di qui il nome Finger Lime.
La buccia è di colore verde ma quando il frutto giunge a maturazione diventa marroncina.
Ciò che risulta particolarmente interessante però è quello che c’è sotto questa buccia: una polpa dai chicchi minuscoli, simili a perle che variano dal bianco al giallo, dal rosato all’arancione e ripiene di un liquido prelibato e dal sapore acido simile a quello del limone ma più dolce.
Si estrae facilmente con un cucchiaino e si gusta come fosse un raffinato caviale, di qui il nome Caviar Citrus.
Questo agrume vanta proprietà antisettiche, favorisce la digestione è rinfrescante e diuretico.
Apporta buone quantità di vitamina C, B6, acido folico e potassio.
Coltivare il Finger Lime in terrazzo non è particolarmente difficoltoso, una volta trovata la piantina, disponibile in pochi e forniti garden center il gioco è fatto!
Ha una crescita molto lenta, fiorisce in primavera e offre i suoi frutti maturi in inverno, pronti da raccogliere quando risultano morbidi al tatto.
Ama la luce e durante la bella stagione necessita di qualche ora di sole.
Da dicembre però va protetto e specie se le temperature scendono al di sotto dello zero conviene portarlo in casa, lontano dai caloriferi e in un ambiente luminoso.
Le innaffiature dovranno essere abbondanti in primavera e in estate per poi essere ridotte in autunno e in inverno.
Sono disponibili diverse varietà, alcune più adatte appunto a guarnire piatti di pesce come la varietà “Colette” e “Ricks Red”, insalate come “Tasty Green” o per fare marmellate, confetture e dissetanti bibite come la varietà “Yellow”.
Questi frutti si possono conservare ad una temperatura di 5 – 10 °C anche per 4 o 5 settimane e, addirittura la polpa può essere conservata a -18 °C anche per diversi mesi!
Fonte: greenme.it
Tra Jinjiang County e Nan'an County, a ovest della città di Fuzhou in Cina, c’è l’ Anping Bridge, un ponte costruito nel 12esimo secolo con enormi blocchi di pietra.
L’Anping Bridge è conosciuto anche come ponte Wuli e fino al 1905 è stato il più lungo della Cina.
Esso fu edificato tra il 1138 e il 1151 durante la dinastia Song e si compone di 331 campate di travi di granito che pesano 25 tonnellate ciascuna.
L’Anping Bridge è caratteristico perché visivamente è molto suggestivo, grazie anche alla pagoda di cinque piani, alla fine del percorso.
In origine era ancora più lungo, ma a causa dell’insabbiamento l’Anping Bridge è stato accorciato di circa 150 metri.
Dei cinque padiglioni oggi ne rimane solo uno e il ponte è un sito storico protetto dal governo cinese, mentre nell’area circostante sono in corso i lavori per la costruzione di un parco pubblico.
Dominella Trunfio
Un team di archeologi ha scoperto nei giorni scorsi nella Turchia meridionale un antichissimo mosaico risalente all’epoca greca, datato al III° secolo a. C. quindi a 2.400 anni fa.
Tutto è iniziato grazie ai lavori per realizzare la nuova funivia di Antiochia, antichissima città della Turchia meridionale, al confine con la Siria sulle rive del fiume Oronte, nell’estremità orientale del mar Mediterraneo.
Antiochia oggi conta 350 mila abitanti ma in passato è stata una delle più grandi metropoli, fortemente influenzata prima dalla civiltà egizia e poi da quella ellenistica, in cui divenne una super potenza tra le più importanti del mondo sia dal punto di vista militare che economico e commerciale.
Fu poi distrutta dal terremoto del 525 d.C. e quando, dopo 15 anni, venne conquistata dai persiani, iniziò un lento declino che ne ridimensionò l’importanza.
Ancora oggi, però, è uno dei luoghi più importanti per gli archeologi di tutto il mondo.
Nei giorni scorsi l’ennesima straordinaria scoperta. Un bellissimo mosaico greco risalente a 2.400 anni fa secondo l’archeologo del Museo Archeologico di Hatay Demet Kara.
Nel mosaico si può osservare uno scheletro adagiato all’indietro con un boccale in mano e a fianco una brocca di vino e una pagnotta di pane.
Intorno alla figura una scritta in greco antico che recita: “Siate felici, godetevi la vita”.
Gli esperti ritengono che il mosaico potesse decorare il pavimento di una sala da pranzo di un’abitazione di una famiglia nobile nel cuore di Antiochia.
Sarebbe una copia più pregiata e raffinata dell’opera “Lo Scheletro Spericolato“, già nota perché scoperta da tempo in un’altra versione nell’area vesuviana seppur meno recente.
Anzi. Probabilmente quella partenopea era proprio una copia di questo mosaico che potrebbe essere l’originale storico.
Fonte: meteoweb.eu
«Anche se molte specie si sono dimostrate in grado di cooperare per raggiungere obiettivi comuni, il ruolo della comunicazione nella cooperazione ha ricevuto relativamente poca attenzione», parte da qui lo studio “Acoustic behavior associated with cooperative task success in bottlenose dolphins (Tursiops truncatus)”.che team di ricercatori di Dolphins Plus e dell’università del Southern Mississippi ha pubblicato su Animal Cognition e che sottolinea che «L’analisi della comunicazione tra i partner è fondamentale nel determinare se le azioni sono davvero cooperative piuttosto che fortuite o apprese tramite tentativi ed errori»
I ricercatori statunitensi evidenziano che «I cetacei selvatici spesso producono suoni durante il foraggiamento cooperativo, il gioco, e l’accoppiamento, ma il ruolo di questi suoni a eventi cooperativi è in gran parte sconosciuto», per questo hanno studiato comunicazione acustica tra due tursiopi (Tursiops truncatus) maschi mentre collaboravano ad aprire un contenitore e dicono che le analisi dei fischi, degli “impulsi burst” e delle bi-fonazioni avvenuti in quattro contesti – senza contenitore, nessun animale che interagisce con il contenitore, un animale che interagisce con il contenitore, e due animali che interagiscono con contenitore – «ha rivelato che il livello complessivo di produzione di suono è significativamente aumentata durante le interazioni con contenitore.
I livelli di produzione di suono sono stati significativamente più alti anche durante i successi cooperativi che durante i successi da solista, suggerendo che il coordinamento degli sforzi, piuttosto che l’apparato stesso sia responsabile dell’aumento della fonazione. Il tipo di suono più comune durante successi della cooperazione sono stati segnali ad “impulsi burst”, simili alle registrazioni passate di eventi di cooperazione nei tursiopi».
La giovane biologa Holli Eskelinen, vice-direttrice per la ricerca di Dolphins Plus e il suo team hanno presentato a un gruppo di 6 delfini in cattività un contenitore chiuso pieno di cibo.
Il contenitore poteva essere aperto solo simultaneamente tirando una corda alle due estremità.
I ricercatori hanno condotto 24 test con il contenitore metallico, durante il quale erano presenti. tutti e 6 i tursiopi, solo 2 di loro non sono mai riusciti a risolvere il problema e a raggiungere il cibo.
La coppia di tursiopi che ha avuto più successo è riuscita ad aprire il contenitore 20 volte di seguito in soli 30 secondi.
Negli altri 4 test, uno dei delfini è riuscito a risolvere il problema da solo, ma questo è stato molto più difficile e ha richiesto più tempo.
«Ma, – come scrive su New Scientist Robin Wylie – la vera sorpresa è arrivata dalle registrazioni delle vocalizzazioni fatte dai delfini hanno fatto durante l’esperimento.
Il team ha scoperto che quando i delfini lavoravano insieme per aprire il contenitore, facevano più vocalizzazioni di quelle che facevano durante l’apertura del contenitore da soli o quando il contenitore non era presente o quando non c’era nessuna interazione con il contenitore in piscina».
In particolare, i ricercatori sono stati in grado di dimostrare che l’aumento delle “chiacchiere” era direttamente correlato al compito di aprire il contenitore e non alle normali interazioni sociali tra i delfini.
Durante i test, quando uno dei tursiopi apriva il contenitore da solo, uno o più degli altri delfini erano presenti nelle vicinanze, monitorandone l’attività, ma in queste occasioni non c’è stato nessun aumento delle “chiacchiere” e il team di ricercatori ha concluso che «L’aumento degli scambi vocali durante l’apertura contenitore in comune è legato al compito stesso, e non alla presenza di un altro delfino».
La Eskelinen ha detto che «Questa è la prima volta che possiamo dire in maniera definitiva che le vocalizzazioni dei delfini sono state utilizzate per risolvere un compito cooperativo».
Diversamente dalla maggior parte delle vocalizzazioni dei delfini, i cosiddetti “impulsi burst” emessi dai delfini sono udibili agli esseri umani, «Sapevamo già che i delfini utilizzano gli “impulsi burst” durante l’interazione sociale e l’ecolocalizzazione – dice Leigh Torres , un ecologo marino della Oregon State University che non ha partecipato allo studio – questi nuovi risultati suggeriscono che gli “impulsi burst” possono avere un altro scopo sofisticato.
Questo studio dimostra chiaramente che i delfini utilizzano la comunicazione vocale per risolvere insieme i problemi.
I risultati puntano verso la possibilità di un linguaggio dei delfini che consente loro di risolvere i problemi in team».
Fonte: greenreport.it
Era stata chiusa nel 2013 per gli interventi di restauro e la messa in sicurezza, ma in questi giorni è tornata a risplendere nel cuore di Roma.
Parliamo di Villa Aldobrandini, il giardino pensile seicentesco, vicino al Rione Monti e in prossimità dei Mercati di Traiano.
Acquisita dagli Aldobrandini, la Villa ospita antichi marmi e notevoli dipinti, ma è sicuramente la ricca vegetazione a dare un tocco in più a questo splendido giardino purtroppo poco conosciuto.
Dal 1926, Villa Aldobrandini è proprietà dello Stato, proprio in quegli anni, durante i lavori di rimodernamento fu scoperto un vasto complesso archeologico.
Oggi i suoi cancelli si sono riaperti grazie alla Sovrintendenza Capitolina con il recupero delle antiche fontane da anni senza acqua, il rinnovo degli arredi, il ripristino dell’impianto di irrigazione, il rifacimento della pavimentazione e la sistemazione dei sentieri.
E ancora il restauro di marmi antichi, delle basi che sorreggono le statue del giardino e il recupero degli elementi architettonici deteriorati dei padiglioni.
Il Servizio giardini si è invece occupato della parte botanica, per anni vittima di incuria e vandalismo.
Villa Aldobrandini ospita infatti numerose specie di alberi e fiori, tra cui le camelie piantate da oltre cento anni.
In area archeologica gli interventi - che non sono ancora conclusi - hanno permesso la messa in sicurezza di murature e aree a rischio. Il giardino pensile è stato poi dotato di un sistema di videosorveglianza per evitare che gli spiacevoli episodi passati si ripetano.
Un’altra parte di verde storico riconsegnato alla città, per il quale l’Amministrazione si sta attivando per trovare un’adozione.
La proposta è stata già avanzata alla Banca d’Italia che ha mostrato la disponibilità ad accoglierla, ha dichiarato Sabrina Alfonsi, presidente del Municipio Roma I Centro durante l’inaugurazione.
L'auspicio adesso è questo bell'angolo della Capitale non torni nel degrado.
Dominella Trunfio