martedì 9 luglio 2019
La bellezza mortale delle lacrime blu che illuminano la costa di Cina e Taiwan
Belle quanto mortali.
Le spettacolari Blue Tears che illuminano il Mar Cinese Meridionale sono dovute ad alghe bioluminescenti che stanno aumentando anno dopo anno, creando non pochi problemi.
Le alghe che rendono «incandescenti» le coste fra Cina e Taiwan sono infatti tossiche: gli ultimi studi sui microrganismi che rendono possibile questo surreale spettacolo notturno hanno rivelato che il loro passaggio è in grado di «avvelenare la vita marina».
«Quando iniziano a brillare lungo le coste, queste alghe rilasciano ammoniaca e altre sostanze chimiche che avvelenano l'acqua circostante».
E non solo: questi organismi assorbono tantissimo ossigeno e continuano a farlo senza mai spostarsi, fino a quando nelle acque circostanti non ce ne è più.
«I turisti pensano solo a quanto sia romantico e bello vedere questo spettacolo», ha detto l'oceanografo Chanmin Hu a Live Science, ma «in realtà è tossico».
Con il suo team, Hu ha utilizzato dati satellitari per tracciare le dimensioni della «fioritura» delle alghe bioluminescenti negli ultimi 19 anni, riuscendo a identificare la «firma univoca» delle lacrime blu.
«È come un'impronta digitale», che sta crescendo anno dopo anno, lasciando dietro di se solo distruzione.
«L'ossigeno nell'acqua è così basso che pesci e piante acquatiche possono morire».
E il fenomeno è destinato ad ampliarsi, a causa dei riversamenti in mare di fertilizzanti e altri scarichi che forniscono alle lacrime blu i nutrienti di cui hanno bisogno per proliferare.
Una triste scoperta per quello che è considerato uno degli spettacoli della natura più affascinanti al mondo.
Fonte: lastampa.it
lunedì 8 luglio 2019
La spiaggia rossa di Panjin in Cina
La spiaggia rossa nelle paludi del delta del fiume Liao si trova vicino a Panjin, una città della provincia di Liaoning in Cina.
È difficile per coloro che ascoltano il nome per la prima volta non chiedersi cosa che lo ispira.
La spiaggia rossa è fatta di sabbia rossa o sono le pietre?
In realtà, questo posto non è una spiaggia nel senso stretto del termine, ma una regione paludosa formata dal raggruppamento di grandi estensioni di piante della Suaeda glauca, localmente noto come jianpeng.
Questo arbusto acquatico è molto resistente ed ama i terreni salini.
La Suaeda glauca cambia di colore durante l’anno: in primavera è rosa, scarlatto in estate e rosso come il fuoco in autunno e, guardandola da lontano, dà l’impressione di contemplare un oceano rosso.
Da qui il suo nome di “Spiaggia rossa”.
È considerato una delle meraviglia naturali più belle al mondo.
La spiaggia rossa, oltre all’effetto di questa particolare alga, è anche un ambiente con un’ampia biodiversità specifica delle aree paludose.
L’ambiente naturale qui è stato ben integrato dalla presenza della civiltà trasformandolo in Riserva Naturale Statale in cui solo una piccola parte, ma ben organizzata, è aperta ai turisti.
Il meraviglioso orizzonte naturale della spiaggia rossa, le sue risaie, il suo mare di canne e i suoi uccelli belli e rari dipendono l’uno dall’altro per la loro sopravvivenza.
Qui si possono vedere più di 250 tipi di uccelli, 30 di questi protetti, come la gru della Manciuria, il gabbiano di Saunders o il cigno.
In questa splendida riserva naturale ci sono anche quasi 400 specie di animali diversi come granchi e tartarughe.
I visitatori si trovano a breve distanza da queste specie rare e protette e possono osservarne i comportamenti con spirito naturalistico.
Spicca certo la gru della Manciuria, un animale elegante i cui movimenti leggiadri sembrano danze.
Il colore del suo piumaggio bianco con una macchia rossa sul capo e il suo portamento altero hanno reso questo animale parte della mitologia asiatica e in particolare di quella cinese e giapponese.
La gru della Manciuria, tuttavia è un animale in via di estinzione, ne esistono meno di 3000 esemplari, ma grazie ad ambienti protetti come la riserva della spiaggia rossa di Panjin o come in Giappone, il loro numero sta tornando a crescere.
Sulla superficie paludosa della spiaggia rossa, Red Beach in inglese, si estende una piattaforma costruita interamente in legno. Questo percorso costruito in stile antico prende il nome poetico di “ponte delle nove curve” e permette di vedere solo una piccola parte dei 600.000 ettari della riserva.
Possiamo passeggiare su queste 519 tavole appoggiate a pilastri di cemento che si ergono sulle acque per una superficie totale che supera i 2.000 m2 e provoca un grande effetto visivo.
Qui è stato anche costruito il Jieguanting, un edificio eretto per commemorare Yuan Chonghuan, storico ed eroico generale.
Ogni anno, tra i mesi di agosto e ottobre, il luogo raggiunge il suo massimo incanto ed i visitatori possono apprezzarne pienamente la bellezza: un modo perfetto di convivere tra l’uomo e la natura.
Fonte: caffebook.it
venerdì 5 luglio 2019
Trimithis, la Pompei scoperta nel deserto egiziano
Gli scavi nelle oasi del deserto occidentale egiziano hanno portato alla luce un’intera città con tesori di inestimabile valore artistico e culturale risalenti all’epoca della dominazione romana
“Quello di Trimithis è uno scavo di enorme importanza, che ci fa capire in modo chiaro che l’idea dell’Egitto come circoscritto alla valle del Nilo è davvero limitativa”, spiega a “Le Scienze” Paola Davoli, docente di egittologia all’Università del Salento e direttrice archeologa degli scavi.
Le aree della valle del Nilo sono caratterizzate da un solo raccolto l’anno, nel periodo invernale.
I romani però si resero conto che nelle oasi si poteva invece ottenere più di un raccolto e sfruttare il terreno, per esempio, anche per la coltivazione del cotone.
Per farlo si impegnarono in una vasta opera di canalizzazione: nell’oasi di Dakhla realizzarono classici canali di superficie, mentre in quella di Kharga usarono tecniche più raffinate e peculiari, mutuate dai persiani.
Sono i cosiddetti qanat, canali sotterranei scavati nella roccia, che permettono di sfruttare a scopo agricolo le acque del sottosuolo.
Da questo sforzo nacque Trimithis che, prosegue Davoli, “era una grande città, con un impianto urbano complesso e una struttura sociale articolata, che comprendeva, per esempio, una boulé, cioè un consiglio cittadino”, aggiunge.
L’abitato di Trimithis non è quello di una tipica città romana: le strade sono strette e si articolano in una sorta di labirinto con frequenti cambi di direzione, forse per difendersi da un clima ostile: caldissimo d’estate e con frequenti tempeste di sabbia in inverno.
“Trimithis era una città importante, anche se è il centro principale dell’oasi, la cui capitale è da sempre Mut, che per la continua frequentazione si è conservata molto di meno”, aggiunge Davoli.
Il miracolo della conservazione di Trimithis è dovuto in primo luogo alla sua rapida copertura di sabbia, che l’ha avvolta e protetta come una coperta dopo che la popolazione abbandonò all’improvviso l’insediamento alla fine del IV secolo d.C.
Anche la distanza dai centri abitati e dalle colture agricole ha di sicuro contribuito alla buona conservazione.
Gli edifici sono per la maggior parte costruiti con mattoni crudi, un materiale molto friabile, che non ha scampo se rimane esposto, soprattutto se sottoposto all’azione delle piogge, che qui sono rare, ma distruttive.
“Lo strato protettivo della sabbia ha consentito agli edifici una conservazione ottimale.
Alcune case sono conservate per un’altezza di tre metri e le loro pareti sono riccamente dipinte, tanto da farci ricordare Pompei.
La ricchezza e l’importanza dei reperti trovati ha rafforzato questa analogia”, ricorda Davoli.
Uno degli edifici portati alla luce dalla missione della New York University sembra appartenesse a un certo Serenos, il cui nome è riportato su alcuni óstraka, cocci di ceramica (nel sito ne sono stati trovati molti).
“Serenos era un personaggio di un certo rilievo, un membro del consiglio cittadino, che sembrava avere molto a cuore il fatto di dimostrare la sua appartenenza a un’élite culturale, che padroneggiava la lingua e la cultura greca”, nota Davoli.
Lo capiamo da diverse cose: per esempio dalle scene tratte dalla mitologia greca, che adornano la sua casa.
“Si tratta di pitture molto belle e scenografiche, che rappresentano gli dei dell’Olimpo, con le relative didascalie e il nome dei personaggi.
La sala del banchetto, in particolar modo, colpisce per l’uso di colori vivaci e le scelte stilistiche insolite”, osserva l’archeologa.
“La sala, inoltre, era coperta da una cupola, un elemento inusuale in questo contesto, in cui predominano le semplici volte a botte, dipinta con motivi e colori così intensi da sembrare quasi “psichedelici””, continua Davoli.
All’atto di far emergere questi splendidi ambienti, risultò però chiaro come la sabbia che li aveva custoditi fino a quel momento fosse l’unico mezzo in grado di garantire la loro conservazione per il futuro, anche in attesa del proseguimento degli scavi che, a causa della difficile situazione politica dell’Egitto di oggi sono interrotti dal 2016.
“È stata presa, perciò, la decisione di ricoprirli di nuovo di sabbia e ristabilire le condizioni iniziali.
Per offrire al pubblico la possibilità di visitare questa bella casa è stata realizzata una sua fedele ricostruzione, che funge anche da centro informativo”, afferma Davoli.
Accanto alla casa di Serenos venne costruito un edificio particolare, la cui originale struttura non è chiara, a causa della sua successiva riorganizzazione da parte della famiglia di Serenos.
Sottolinea l’archeologa: “Anche qui ci troviamo di fronte a un ritrovamento eccezionale, perché si tratta di un antico edificio scolastico, abbandonato verso la metà del IV secolo d.C.
Se, in generale, gli edifici scolastici sono molto rari, questo è un caso davvero particolare perché ci troviamo di fronte a una vera e propria scuola di retorica, in pieno deserto.
Non sappiamo se vi fossero anche stanze in cui si impartivano i primi rudimenti della lingua greca”.
Ce lo testimonia un ritrovamento che ha un grande fascino: un muro intonacato di bianco, dove si vedono iscrizioni tracciate con ocra rossa, materiale che è presente nel deserto circostante e ha la caratteristica di poter essere lavato, permettendo di riutilizzare la parete, come è testimoniato da chiari segni di più riscritture successive.
“Era l’equivalente antico di una lavagna”, nota Davoli. “E che si tratti del lavoro di un insegnante risulta evidente dalla chiarezza dei caratteri, come pure dalla presenza di segni diacritici che aiutano la pronuncia e la lettura.
Sono testi che riportano epigrammi in distici elegiaci ed esametri; in altre stanze, ci sono altre iscrizioni, con testi di autori classici, come Omero e Plutarco.
Non mancano le esortazioni a studiare con impegno, evidentemente utili anche allora”, aggiunge l’archeologa.
All’atto di unire la scuola abbandonata alla sua casa, Serenos trasformò gli ambienti in un grosso magazzino e – con una certa ironia – in una stalla per i propri asini.
“Non meno sorpresa ha destato il ritrovamento, proprio sotto la scuola di retorica, di un edificio termale con tutti i suoi tipici ambienti, come il frigidarium, il tepidarium, due calidaria.
A quanto pare i Romani non potevano fare a meno delle terme neppure nel mezzo del deserto, in un’oasi che di certo non abbondava di acqua”, continua Davoli.
La storia dell’insediamento di Trimithis si interruppe di colpo nel IV secolo e per riprendere solo nel Medioevo.
Che cos’era accaduto?
“Una delle cause potrebbe essere un’improvvisa carenza d’acqua, forse provocata da un abbassamento della falda freatica o collegata a un cambiamento climatico”, afferma Davoli.
D’altra parte, una chiara testimonianza dei mutamenti climatici nelle oasi si trova nel confronto stridente tra le fonti storiche.
Per Erodoto si trattava di “un’isola dei beati”, mentre le fonti di epoca romana parlano di un inferno in cui la gente muore.
In questo passaggio dal paradiso all’inferno si può avvertire l’impatto che l’ambiente ha avuto sulla vita di questa gente, inducendola a un brusco spostamento.
Un dramma che riporta alla mente quello delle popolazioni su cui oggi si riflettono le conseguenze del riscaldamento globale.
Colpito dalle conseguenze della siccità, Serenos si allontanò insieme agli altri, ma prima seppellì con diligenza il suo tesoretto di suppellettili di bronzo.
Possiamo immaginare che pensasse di tornare, in seguito, ad abitare la casa. Ma non vi fece più ritorno.
Ma quello dell’insediamento romano è solo un tassello di ciò che possono rivelare gli scavi di Amheida, osserva Davoli: “Ci troviamo di fronte a un sito che presenta una stratificazione profonda, che ci offre testimonianza di molti periodi storici, dall’epoca predinastica fino alla tarda età romana: si tratta, in pratica, di un sito che ha più di 3000 anni di storia, che attendono di essere portati alla luce completamente”.
Fonte originale : www.lescienze.it
mercoledì 3 luglio 2019
Il mistero dei ‘crannog’, isole artificiali in Scozia, Galles e Irlanda costruite più di 5.500 anni fa
Nel lontano passato della storia delle isole britanniche alcune popolazioni costruirono artificialmente delle vere e proprie isole, il cui significato è un mistero.
In tutta la Scozia (dove vi è la maggiore concentrazione), l’Irlanda e il Galles le fondamenta di centinaia di isole artificiali sono ancora visibili ai nostri giorni.
Sono chiamate “crannog” e vennero costruite tanto, tanto tempo fa, in gelide acque di fiumi, laghi e insenature marine.
Da sempre gli archeologi si sono chiesti quando vennero costruite, ma la soluzione al problema non è mai stata approfondita e generalmente si accettava che le basi furono gettate attorno all’800 avanti Cristo.
Negli ultimi anni però sono state trovate prove che le retrodatano di molti secoli, se non millenni e recentemente uno studio da poco pubblicato su Antiquity conferma che – in realtà – le isole sono migliaia di anni più vecchie di quanto di è sempre pensato.
Usando la datazione al carbonio di reperti di quattro siti delle Western Isles della Scozia, i ricercatori hanno potuto stabilire che tali crannog risalgono addirittura a 3.640-3.360 anni prima di Cristo, il che vuol dire che gruppi di uomini si ingegnarono nel costruire tali isole artificiali circa 5.500 anni fa, ancor prima che si edificasse Stonehenge.
Spiega Fraser Sturt della Southampton University e autore della ricerca: “Queste crannog rappresentano uno sforzo monumentale realizzato migliaia di anni fa il cui scopo fu di costruire mini-isole accumulando nel letto di fiumi e laghi tonnellate e tonnellate di rocce”.
L’idea che tali isole artificiali fossero molto antiche venne già avanzata negli anni Ottanta da Eilan Domhnuill, ma per almeno vent’anni non sono state trovate prove a sostegno dell’ipotesi.
Le cose sono cambiate nel 2012 quando il subacqueo della Royal Navy Chris Murray, che abitava sull’Isola scozzese di Lewis, rimase affascinato da alcuni crannog che si trova nelle acque di Loch Arnish.
Immergendosi in prossimità di uno di essi Murray fece una scoperta del tutto inaspettata: attorno all’isola trovò una collezione di vasi Neolitici notevolmente ben conservati.
Questo fece partire una ricerca a tappeto guidata da Sturt e nel giro di poco tempo vennero identificati decine di crannog che prima non erano stati visti.
Immergendosi in loro prossimità i ricercatori hanno portato in superficie oltre 200 vasi in ceramica neolitica, prove che le isole erano abitate fin da allora.
“Le indagini e gli scavi di questi siti hanno dimostrato, per la prima volta, che i crannog erano una caratteristica diffusa del Neolitico e che potevano essere luoghi speciali”, ha scritto il ricercatore.
Le ricerche hanno permesso anche di affermare definitivamente che tali isole sono artificiali e non create dalla natura, in quanto risultano formate dall’accumulo di massi di varie dimensioni opportunamente impilati.
In un sito, quello di Loch Bhorgastail, sono stati messi in luce anche delle strutture in legno ai bordi del crannog, le quali, molto probabilmente, servivano per aumentare la stabilità dell’isola.
Lo studio ha poi scoperto che alcuni crannog erano collegati alla terraferma attraverso strade, altri invece non lo erano e dunque erano raggiungibili solo con barche oppure attraverso ponti di legno ora andati distrutti.
E’ possibile che su alcune isole vennero costruite delle case in legno, ma oggi, se così fu, non rimane più alcuna testimonianza.
Al momento tuttavia nessuno sa dire quale fosse il significato e gli scopi di tali strutture.
Ma data la mole di lavoro che fu necessaria per crearle – progettate con pietre che pesano anche 250 chilogrammi – è chiaro che devono avere avuto una importanza unica per la comunità preistorica che un tempo abitava queste aree misteriose.
Non è da escludere che sulle isole si celebrassero feste importanti o fossero usate in rituali mortuari.
Fonte: businessinsider.com
martedì 2 luglio 2019
Trovato intatto a Roma un affresco medievale rimasto nascosto per 900 anni
Roma non smette di stupire per le meravigliose opere d’arte che custodisce e che ogni tanto “riappaiono” a sorpresa in diversi luoghi della città.
Stavolta a riemergere è stato un affresco medievale, ancora intatto, rimasto nascosto per ben 900 anni!
Lo splendido dipinto, che raffigura probabilmente Sant’Alessio e il Cristo pellegrino, si trovava nascosto in un’intercapedine di un muro nella chiesa di Sant’Alessio all’Aventino dove è rimasto, si presume, dal XII secolo.
Si tratta di un grande affresco (90 centimetri di larghezza per oltre 4 metri d’altezza) di epoca medievale dai colori vivaci rinvenuto, con grandissima sorpresa, in ottimo stato.
La storica dell’arte Claudia Viggiani, che l’ha riportato alla luce, ha definito questo “un ritrovamento eccezionale”.
Ma c’è di più, quello che è tornato alla luce è solo metà del dipinto, l’altra parte è ancora nascosta dal muro.
La ricercatrice, ovviamente, è del tutto intenzionata a riportarlo alla luce nella sua interezza.
L’opera ha uno sfondo nero e una cornice policroma completa. Quello che ha colpito gli storici dell’arte è in particolare la raffinatezza delle figure, il grande martello color porpora che copre le vesti del pellegrino e la mano alzata di quello che, presumibilmente, è Cristo che benedice i fedeli.
La scoperta è avvenuta in seguito ad un’indagine durata anni e partita da quanto si leggeva in una lettera d’archivio risalente al 1965 in cui si parlava di un affresco in ottimo stato conservato in una chiesa (di cui però non si faceva il nome), rinvenuto durante i lavori alla torre campanaria.
Insomma la scoperta era già stata fatta ma, chi aveva trovato all’epoca l’affresco, aveva preferito lasciarlo nel dimenticatoio.
La caparbietà della dottoressa Viggiani ha permesso però di trovarlo per la seconda volta.
Al momento il dipinto è inaccessibile per problemi di sicurezza. Ma chissà che un giorno non potremmo visitarlo anche noi.
Nel frattempo chissà quante altre sorprese ci riserva la Capitale!
Francesca Biagioli
lunedì 1 luglio 2019
La Tomba di Aminta: capolavoro scavato nella Roccia dall’Antichissimo popolo dei Lici
Gli antichi lici sono uno dei popoli più enigmatici della storia, perché non sono rimaste molte tracce della loro civiltà.
Tuttavia, quel poco che è stato scoperto rivela una cultura affascinante, che si distingue dal resto del mondo antico.
Oggi rimangono circa venti siti importanti per conoscere l’insolita architettura funeraria dei Lici, tra cui le stupefacenti tombe scavate nella roccia in scogliere che dominano la terra incontaminata dell’Anatolia.
La Licia occupava quella regione che oggi è la provincia di Adalia, sulla costa meridionale della Turchia, e la provincia di Burdur, che è nell’immediato entroterra.
La civiltà liciana è menzionata nei registri storici dell’antico Egitto e dell’Impero Hittita.
Nel VI secolo aC, tuttavia, la Licia fu annessa all’impero Achemenide, anche se le fu consentito di avere governatori autoctoni.
Una delle caratteristiche più interessanti dei Lici è la loro cultura funeraria.
Ci sono diversi tipi di tombe liciane, ma le più spettacolari sono quelle scavate nella roccia, che fecero la loro comparsa all’incirca nel 5 ° secolo aC, scolpite direttamente nelle pareti rocciose, di solito in una scogliera, posizione che le rende sorprendenti anche guardandole da lontano.I Lici credevano che una mitica creatura alata li avrebbe portati nell’aldilà, e questo è il motivo per cui costruivano le loro tombe in posizione elevata.
Sul monte si notano delle sepoltura da un lato e una tomba, più imponente e poco distante, particolare perché costruita in solitudine rispetto alle altre sepolture.
La Tomba di Aminta risale al 4° secolo aC. e si trova sul monte che domina l’attuale città di Fethiye, l’antica Telmessos.
Il suo nome deriva da un’iscrizione greca in cui si legge “Armyntou tou Ermagiou”, che si traduce in “Aminta, figlio di Ermagios”. L’ingresso spettacolare, scolpito come fosse il portico di un tempio ionico, fa capire l’importanza di Aminta, che aveva diritto ad avere la tomba più grande nel punto più alto della scogliera, rispetto alle altre ricavate nella stessa parete rocciosa.
Una lunga serie di gradini conduce alla Tomba di Aminta, isolata rispetto alle altre sepolture rupestri, ulteriore prova del rango elevato di quest’uomo, di cui oggi rimane solo un nome inciso nella roccia.
Fonte: vanillamagazine
mercoledì 19 giugno 2019
lunedì 17 giugno 2019
Il posto più stretto della terra è un ponte delle Bahamas che divide l’oceano dalla laguna
Quel lembo di terra che esisteva un tempo ormai non c'è più da tempo.
L'arco di pietra naturale è stato spazzato via dagli uragani, ma oggi, nello stesso incredibile punto, è possibile ammirare una meraviglia della natura, grazie allo zampino dell'uomo.
Siamo alle Bahamas, e stiamo parlando del Glass Window Bridge, la stretta striscia di asfalto che divide l'oceano Atlantico dall'azzurrissima baia di Eleuthera.
Eleuthera è una delle isole dell'arcipelago corallino dell'America Centrale e ha una forma molto allungata e sottile, proprio come il ponte che unisce le due parti dell'isola, creando uno spettacolo maestoso.
Questo è il punto più stretto dell'isola e non a caso l'istmo è anche considerato il suo punto più vulnerabile.
In 130 anni, il Glass Window Bridge è stato ricostruito, o anche solo rattoppato, innumerevoli volte.
E si è anche guadagnato il titolo di «posto più stretto sulla Terra».
La vista più spettacolare dell'istmo è sicuramente dall'alto. Ma anche attraversarlo a piedi, in bicicletta o in macchina ha il suo perché.
Tutt'intorno, fra le rocce, la marea crea delle impensabili piscine naturali.
Ma a colpire di più è sicuramente la differenza dei colori: il blu intenso dell'oceano increspato a contrasto con il turchese della placida baia corallina.
E quando un'onda più forte delle altre s'infrange sulla scogliera, l'Atlantico si tuffa in laguna e la doccia è assicurata, così proprio come lo spettacolo.
Le coste di Eleuthera variano da spiagge sabbiose o di piccoli sassolini a grandi affioramenti di antiche barriere coralline.
Tutto il versante ovest si affaccia sul Grande Banco delle Bahamas, regalando meravigliose lingue di sabbia finissima che dal color bianco virano sino al rosa.
Uno scenario completamente diverso da quello offerto dal versante oceanico, nonostante a dividerli siano una manciata di rocce che via via si perdono sotto la foresta tropicale.
Fonte: lastampa.it
sabato 15 giugno 2019
Gli antichi pozzi a gradini dell’India che stanno scomparendo
I pozzi a gradini, chiamati anche kalyani o pushkarani, bawdi o baoli, barav o vaav, a seconda della zona dell’India e a seconda della lingua parlata, sono pozzi e laghetti di raccolta per l’acqua piovana o scavati per raggiungere le falde del sottosuolo, a cui ci si accede grazie a scalinate.
Lo scopo principale per cui si svilupparono fu ovviamente quello di avere sufficienti riserve idriche nei periodi di maggiore siccità.
Pare che storicamente la costruzione di pozzi a gradini sia iniziata nella regione meridionale di Gujarat (India) almeno dal 600 d.C, poi si diffuse anche a nord nello stato del Rajasthan, per raggiungere il suo culmine dall’XI al XVI secolo.
La maggior parte dei pozzi a gradini esistenti risalgono agli ultimi 800 anni. Ci sono, però, indizi che potrebbero essersi originati molto prima, e loro precursori possono ritrovarsi nella civiltà della valle dell’Indo.
Scavando in profondità, occorreva creare un sistema di scale che facilitasse l’accesso al pozzo, sia per le persone che per gli animali. Alla base del pozzo di poteva godere anche del sollievo alla calura indiana, ancora maggiore se il pozzo era coperto.
Fu così che attorno ai pozzi a gradini, che divennero luogo di riunione sociale e cerimonie religiose, si sviluppò un’incredibile e complessa ingegneria architettonica che li rese esempi affascinanti di come si possa unire alla funzionalità, un’estetica mozzafiato.
L’utilizzo dei pozzi a gradini conobbe l’inizio del suo declino sotto il dominio britannico, che considerandoli non sufficientemente igienici, li sostituì con l’installazione di reti idrica a tubi e pompe. Così i pozzi cominciarono ad essere gradualmente abbandonati dalla popolazione e molti andarono perduti, distrutti dall’incuria e dall’abbandono.
Di conseguenza, anche le attività sociali e religiose che avevano luogo in questi posti andarono perdute per ordine delle autorità britanniche.
Nonostante oggi ne esistano ancora diversi, molti dei quali in pessime condizioni, e alcuni di questi monumenti a cielo aperto siano tornati ad assolvere la loro funzione originaria a causa dell’accentuarsi delle siccità dovute al riscaldamento globale, il loro destino appare segnato.
La giornalista Victoria Lautman ha trascorso quattro anni in India per fotografare e documentare i pozzi a gradini, nella speranza che la popolazione si riappropri dei pozzi prima che sia troppo tardi.
Il suo lavoro è stato pubblicato sull’Enciclopedia Britannica e su diverse testate di prestigio internazionale.
Fonte: zoomma.news
giovedì 13 giugno 2019
Una ricerca svela il segreto delle zanne micidiali di un pesce abissale, l'Aristostomias scintillans
Un abitante delle profondità oceaniche con il corpo allungato, da anguilla, e la bocca costellata di denti acuminati ha svelato agli scienziati uno dei suoi formidabili segreti: quello che rende le sue fauci invisibili alle prede.
Il killer in questione è l'Aristostomias scintillans, un pesce della famiglia delle Stomiidae chiamato "drago di mare" per il barbiglio che penzola vicino alla sua bocca (una sorta di barba dalle proprietà tattili).
Questa creatura, che popola i fondali della California fino circa a 1.000 metri di profondità, ha organi bioluminescenti sulla mandibola inferiore e lungo il corpo: con i segnali luminosi attira le prede, ma non è un abile nuotatore, perciò adotta una strategia predatoria più complessa.
In un articolo pubblicato su Matter, i ricercatori dell'Università della California di San Diego hanno dimostrato che la struttura della dentatura dell'A. scintillans rende le sue zanne praticamente invisibili agli animali di cui va ghiotto.
I suoi denti, come i nostri, sono fatti di uno strato di smalto esterno e di una polpa interna a base di dentina (un tessuto osseo).
La differenza è nella struttura: i nanocristalli di smalto sono disposti in modo da impedire a ogni frequenza luminosa che dovesse raggiungere le profondità oceaniche di riflettersi sulla superficie dei denti.
La bocca risulta così invisibile: l'A. scintillans rimane fermo nella colonna d'acqua, in attesa che le prede lo raggiungano.
Inoltre, i nanocristalli conferiscono alle zanne una resistenza maggiore di quella dei denti di super predatori come il piranha o il grande squalo bianco.
«Inizialmente pensavamo che i denti fossero fatti di un altro materiale ancora sconosciuto - hanno commentato i ricercatori - ma poi abbiamo scoperto che sono fatti della medesima "pasta" dei denti umani: idrossiapatite e collagene.
Stessi blocchi costituenti, ma in diverse scale e gerarchie.
La natura è meravigliosa, nella sua ingegnosità».
Al di là dell'interesse biologico, la scoperta potrebbe portare alla messa a punto di nuovi materiali sintetici, trasparenti e resistenti allo stesso tempo.
Fonte: focus.it
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