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martedì 21 giugno 2016

Gli ultimi pagani e la festa del solstizio d'estate


Alba del 21 giugno, solstizio d’estate: il giorno dell’anno in cui la luce solare dura di più e vince sulla notte. 
Uomini con corone di foglie di quercia e donne con ghirlande di fiori campestri invocano nei loro canti il dio Dievs, le dee Laima e Mara, e varie divinità che soprintendono ai tanti aspetti della natura. 
Si accendono fuochi sacri e si fanno offerte di cibo a querce, laghi e sorgenti.
 E si fanno bagni rituali nudi, in un lago. 

 Tutto questo accade ancora oggi fra gli ultimi pagani d’Europa, in Letgallia, regione agricola della Lettonia, piccola repubblica ex sovietica che si affaccia sul mar Baltico.

 Nel frattempo lui, il Sole tanto invocato, si fa appena vedere: le troppe nubi di una settimana di pioggia lo nascondono.
 Ma questa rimane la sua festa, la festa della luce: dopo un inverno rigido e con troppe ore al buio, il Sole sorge alle 4 del mattino e irradia da dietro le nuvole la sua luce, pallida, ma preziosa.
 È tempo di risveglio della natura e cresce la voglia di uscire, di stare insieme. 

«Si festeggia all’antica, come migliaia di anni fa» osserva l’antropologo Cesare Poppi, che con noi ha osservato e valutato questi riti. 

La festa continua il 23 giugno, giorno di san Giovanni, qui chiamato Janis, festa nazionale della Lettonia.








Ma è la festa di san Giovanni più pagana del mondo.
 Qui il santo imposto dalla Chiesa fu adattato alla tradizione locale: la festa della luce, al solstizio d’estate, c’era da molto prima che si parlasse di cristianesimo. 
In alcuni villaggi si fa ancora il 21 giugno, ma in genere la celebrazione è spostata al 23, festa nazionale di san Giovanni-Janis, senza che questa perda la sua origine pagana: tutti sanno che con il santo si festeggia in realtà il Sole.

 «La Lettonia, anticamente Latvia» spiega Poppi «fu l’ultima roccaforte pagana a essere cristianizzata in Europa.
 Lo fu solo parzialmente nel XIII secolo, quando arrivarono i cavalieri teutonici cacciati dalla Terra Santa, dopo la sconfitta crociata. 
Ma fino al XVIII-XIX secolo, la grande maggioranza degli abitanti della Latvia non accettò la religione cristiana, o comunque continuò a praticare anche il culto pagano». 
Legati all’antica tradizione, i contadini non volevano essere come i loro padroni germanici, che con i sudditi non si comportavano affatto “cristianamente”.
 Era una resistenza di sfruttati, che si cementò condividendo canti popolari, i dainas, in cui erano mantenuti vivi la devozione per i propri dei e i valori di solidarietà della comunità contadina, l’idea che l’uomo non fosse il padrone, ma solo uno degli elementi della natura, nel rispetto dei suoi ritmi.


«La lingua lettone è considerata una delle più antiche della famiglia indoeuropea, da cui vengono quelle moderne come il portoghese, l’italiano, il francese, il tedesco e l’inglese» spiega l’antropologo. «Per esempio diev (in latino deus, diva) corrisponde al sanscrito diev, che significa splendore, luce, e quindi Sole». 
Da diev viene infatti la divinità locale Dievs.
 In lettone, non esiste il verbo “avere”. I lettoni dicono “essere a me”. 
Ciò deriva dall’idea originale che l’uomo riceve i beni della natura, non li possiede. 
 Sulla base di una prima trascrizione di migliaia di dainas presenti nel folclore locale, lo storico lettone Ernests Brastinu e un gruppo di intellettuali locali ricostruirono, all’inizio del Novecento, le coordinate della religione pagana tradizionale: i nomi e il ruolo delle divinità, l’etica e la visione del mondo. 
Chiamarono questa religione Diev­turiba, da dievturis, coloro che ricevono Dievs.

 Questa religione divenne fondamento del nazionalismo lettone. Stalin fece di tutto per perseguitare e deportare i diev­turis, ma il corpus dei dainas e la ritualità radicata nel folclore sono rimasti intatti.
 La religione è poi diventata legale con l’indipendenza dall’ex Unione Sovietica. 

La cittadina di Malpis offre un esempio di come si sono conservati i riti arcaici. 
Qui vi è anche una scuola per la diffusione della cultura popolare e l’antica religione lettone, diretta da Andris Kapustz e dalla moglie Aida Rancane, entrambi studiosi di folklore e musicisti. E nella festa di questa cittadina si nota la continuità fra la cultura popolare contemporanea lettone e quella dell’età del Bronzo. Forse del Neolitico.

 «Sono elementi di una cultura europea già a quel tempo globalizzata» spiega Poppi. «La parte centrale del rito è la costruzione, in legno, della “porta di san Giovanni”, orientata in modo da inquadrare perfettamente il Sole all’alba del solstizio.
 È la stessa pratica astronomica-rituale che fu consacrata in grande a Stonehenge, l’equivalente della basilica di san Pietro in una diffusa religione europea dell’età del Bronzo». 
 La cuspide della porta forma una specie di X: «è il simbolo dello iumis, la coppia di gemelli che portano fertilità, continuità e armonia, ancora presente nelle case rurali dei lettoni».
 

A Malpis, il 21 giugno come a san Giovanni, si muove un corteo che diffonde inni sacri. Con tappe davanti alle case per scambiare offerte (formaggio, pane, birra, orzo non fermentato e fiori) e auguri di salute e fecondità, per la famiglia come per il bestiame e i raccolti. 
Tutti sono invitati a unirsi al corteo. 
Ci si ferma sotto una grande quercia, manifestazione di un dio maschile, per lasciare offerte all’albero e intonare preghiere.
 Giunti poi su una collina, viene accesa una pira sacra che durerà tutta la notte.
 I fedeli bruciano le corone del solstizio dell’anno prima e fanno offerte al fuoco.
 Altre offerte sono poste su una piccola zattera e inviate attraverso la corrente di un fiume a Upes mate, una delle madri delle acque. «Si celebra in questo modo il matrimonio tra fuoco e acqua, fra maschile e femminile» spiega Poppi. 
Viene quindi incendiata una ruota che rappresenta il Sole ed è poi fatta rotolare in pendenza. 
Più lontano andrà, maggiore sarà il successo dei prossimi raccolti. 

Le donne non sposate eseguono un altro rito: ognuna lancia una corona di fiori su una quercia, elemento maschile, sperando che rimanga appesa a un ramo.
 Per ogni tentativo fallito è previsto un altro anno di nubilato. «Siamo di fronte al modello ancora vivente dei riti agrari che si praticavano già migliaia di anni fa» osserva ancora l’antropologo.




Nella notte di san Giovanni-Sole i giovani vengono invitati a cercare il fiore della felce. Che però non esiste.
 In realtà è una metafora con cui gli adulti consentono ai ragazzi di appartarsi, per fare l’amore.
 Non si contano in questa notte le tende (rigorosamente per 2), sparse nei campi e fra le betulle. 

 Al centro di queste feste ci sono i dainas, brevi racconti e detti cantati che insegnano comportamenti virtuosi e parlano di dei.
 Nel corpus di 500 mila dainas raccolti dagli studiosi, 4 mila si riferiscono a Dievs, il dio supremo. 
Seguendo la loro variazione si può pensare che il dio fosse all’inizio impersonale, una forza che pervade tutte le cose e sia poi diventato dio del cielo e della luce. 

 «Laima, la dea del fato» spiega Valdis ­Celms , membro autorevole della religione dievturiba «fa da mediatrice, in una trinità, fra Dievs e Mara. 
Quest’ultima è responsabile della costruzione e dell’equilibrio del mondo materiale. Si manifesta nelle cose, negli eventi naturali e negli esseri viventi».
 Mara presiede alla nascita, al corso della vita e alla morte. Insomma, una Grande madre di probabile provenienza neolitica. Ha decine di aiutanti, o meglio figure specializzate in cui si trasforma: Madre dei fiumi (Upes mate), del vento e degli uccelli (Veja mate), Madre della pioggia (Lietus mate).
 Persino le foglie, i fiori e i funghi hanno una specifica madre: in ordine, Lapu mate, Ziedu mate e Senu mate. Poi, madre delle strade e protettrice dei viandanti (Cela mate), della fertilità (Zemes mate), dei campi (Lauku mate), del lino (Linu mate), del bestiame (Lopu mate), del mare (Juras mate), dei morti (Velu mate o Kapu mate)... e così via, fino a 60 madri.

 Nel calendario lettone sono 8 le feste pagane, 2 per stagione. Solstizi ed equinozi i principali appuntamenti. Nel giorno più lungo, 21-23 giugno, la festa della luce (Janis); per il più corto, 21 dicembre, il Ziemassvetki. 
Per gli equinozi, Liela (21 marzo) e Mikeli (21 settembre). 
I riti di passaggio dievturiba, oltre al matrimonio e al funerale, sono il fidanzamento e il ricevimento del nome che sostituisce il battesimo.

 Secondo i dievturi una persona è fatta di tre parti: augums (corpo), dvesele (anima) e velis (spirito). 
Ne decidono il destino, prima della nascita, Laima e le sorelle Karta e Dekla (come le tre Moire greche o le Norme nordiche). 
Con la morte, le tre parti si separano: il corpo torna alla terra e l’anima a Dievs. 
Lo spirito è una sorta di ombra (alla greca) che ha memoria del pensiero del defunto. 
Per un periodo resta vicino ai vivi. 
Nel Veli, festa dei morti, gli spiriti sono invitati a entrare nelle case. Più tempo passa, più il ricordo si attenua nelle nuove generazioni e lo spirito di un defunto sale a quote superiori fino a raggiungere l’altro mondo (Vinsaule), situato dietro il Sole, dove continuerà a esistere. 

 «Alcuni credono nella reincarnazione, ma la nostra antica religione non ne parla», puntualizza Olgert Auns, il dievturo più anziano. «La nostra fede è un sistema di vita. 
Anche se il destino di una persona è dato dall’inizio, nel quadro tracciato da Laima sono ampi i margini di manovra per rendere la vita felice e virtuosa, vivendo bene con gli altri, in equilibrio con la natura». 

«E proprio a questo servono i riti agrari» conclude Poppi. «Se lo storico Fernand Braudel diceva che i fenomeni storici vanno giudicati sulla lunga durata, allora possiamo dire che in Lettonia abbiamo assistito a pratiche di un’Europa globalizzata con una comune cultura, almeno 3 mila anni prima della nascita dell’Unione europea». 


 Fonte: focus.it

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