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giovedì 21 febbraio 2013

Geotecnologie, scoperta una nuova città romana nel vicentino

Una «nuova» città romana è «emersa» dal nulla nella pianura veneta. Il suo nome potrebbe essere Dripsinum, un insediamento che non è presente su nessuna carta geografica moderna, ma che sulle mappe dell’impero romano dovrebbe essere stato ben indicato. Aveva le dimensioni equivalenti a quelle di mezza Pompei. Ora la presenza di questo antico insediamento romano è stata confermata grazie alle ricerche archeologiche condotte da Paolo Visonà, originario di Valdagno (Vicenza), e da George Crothers, rispettivamente professori di storia dell’arte e antropologia della School of Art and Visual Studies al College of Fine Arts (Gran Bretagna). La ricerca, non invasiva, cioè condotta attraverso un’indagine archeologica senza scavi, è stata effettuata l’estate scorsa con strumentazioni quali georadar, radiometri e magnetometri in terreni privati presso la frazione di Tezze, in località Valbruna, ad Arzignano, in provincia di Vicenza. Visonà venne a conoscenza della possibile presenza di un antico insediamento da un agricoltore di Valbruna. Quest’ultimo, Battista Carlotto, mentre lavorava la sua terra aveva scoperto reperti antichi quali ceramiche, mosaici e vetri attribuibili all’epoca imperiale romana. Visonà cominciò così a cercare testimonianze storiche relative a quella zona. E nella biblioteca Bertoliana di Vicenza trovò manoscritti che confermarono il suo sospetto. In quei manoscritti infatti si legge che nel tardo XVIII secolo testimoni avevano visto i resti della città romana. Così non volendo operare con metodi invasivi nei campi di Carlotto, Visonà ha dovuto escogitare un modo per trovare le prove dell’esistenza di quell’insediamento. In suo aiuto è giunto il collega George Crothers, professore associato di antropologia nel Regno Unito: «George aveva le basi per fare questo tipo di ricerca», dice Visonà, «con tecniche geofisiche e gli strumenti per scoprire le caratteristiche architettoniche nascoste di questo sito». Crothers spiega: «Il sito non era stato scavato, e le tecniche geofisiche sono un modo per guardare sotto terra senza disturbare il terreno». Il team ha utilizzato un magnetometro e un radar per indagare il suolo. Il magnetometro misura le variazioni nell’intensità magnetica del terreno e può rilevare le caratteristiche degli oggetti seppelliti. Il radar emette onde sottoterra che poi vengono riflesse. È stato così possibile creare una mappa di ciò che c’è sotto la superficie. In primo luogo la squadra ha confermato la presenza di una strada e pareti che indicano la presenza di edifici romani. A giudicare dai materiali trovati in superficie e durante i lavori agricoli, l’insediamento poteva essere esistito per più di 400 anni, dal I secolo a. C. al III-IV secolo d. C. Le informazioni del manoscritto indicarono che era molto vasto. «Riguardano un lungo periodo, alcune sono molto dettagliate, di testimoni oculari che hanno visto la città romana in due diverse occasioni», spiga Visonà, «quando venne in parte alla luce durante le inondazioni del fiume Guà. Ma erano informazioni sparse e mai davvero considerate dagli scienziati».

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