Guardando quei bersagli così alti viene spontaneo chiedersi come i giocatori potessero lanciare la pesante palla di caucciù fino lassù senza usare le mani, colpendola soltanto con i gomiti, le ginocchia e i fianchi.
Nel gioco della pelota di Chichén Itzá si fronteggiavano due squadre formate da sette elementi ciascuna e le loro immagini sono immortalate sui rilievi che corrono lungo la base dei muri: vediamo i giocatori protetti da larghe cinture che coprivano le parti vulnerabili, dalle anche alle ascelle, e da paracolpi sulle braccia e sulle ginocchia, e molte scene mostrano il rituale sacrificio dei perdenti per decapitazione.
Sui lati nord e sud il Campo era delimitato da ampie piattaforme con due templi dedicati al Sole e alla Luna, anch’essi coperti interamente da bassorilievi.
Il tempio dei giaguari
La grande Pelota è uno dei nove campi esistenti a Chichén Itzá ed è il più grande di tutta la Mesoamerica. Addossata al muro esterno si trova una piramide tronca, chiamata Tempio dei Giaguari, che nella parte bassa possiede una camera decorata da rilievi nella quale è esposto un trono di pietra a forma di giaguaro.
La sala superiore, sorretta da due giganteschi serpenti a sonagli, era adibita a stanza rituale durante i giochi.
Poco oltre il Campo della Pelota i Toltechi costruirono la piattaforma dello Tzompantli e quella della Casa delle Aquile. Sullo Tzompantli, o muro dei crani, venivano esibiti i teschi dei giocatori sacrificati: i Toltechi avevano introdotto questo rito crudele nel mondo maya, in cui esisteva sì il sacrificio umano, ma non aveva mai raggiunto livelli così ossessivi.
L’importanza del sacrificio di sangue nelle società guerriere appare chiaro anche dai rilievi che decorano la Casa delle Aquile, dove giaguari e rapaci - entrambi rappresentanti gli ordini militari, nonché rispettivamente simboli del Sole notturno e del Sole diurno - divorano cuori umani.
Il sacro Gioco della Palla è stato praticato da tutte le culture mesoamericane.
I primi campi da gioco risalgono alla civiltà Olmeca, la più antica del Messico, e il rituale venne poi trasmesso ai Maya, agli Zapotechi, ai Totonachi e agli Aztechi.
Il gioco è legato al culto del Sole che deve rinascere ogni giorno abbandonando le tenebre: il campo da gioco rappresenta la terra, mentre la palla simboleggia il sole, per cui il giocatore che lascia cadere la palla deve essere sacrificato perché ha impedito al sole di sorgere nuovamente.
La palla era di resina gommosa, poco più grande di una nostra boccia, e doveva rimbalzare tra i giocatori che non potevano usare le mani, ma soltanto le natiche, i fianchi e i gomiti.
I bersagli erano dischi di pietra o anelli fissati in alto sulle pareti laterali.
A seconda della tradizione locale i giocatori erano vestiti con costumi particolari: gli Zapotechi portavano un casco a forma di testa di giaguaro, dei lunghi guanti, pantaloni corti, fasce di cotone e ginocchiere.
Nella cultura di El Tajín - che possiede ben quattordici Campi per la Pelota - la corazza protettiva era costituita da paracolpi sui fianchi, sul petto, sulle ginocchia e sui gomiti.
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