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venerdì 6 maggio 2022

Il Pozzo di Thor: in Oregon il buco al centro del mare creato dal martello divino


 Si trova sulle coste dell’Oregon, poco distante da Cape Perpetua, e si chiama Pozzo di Thor, ma è conosciuto negli Stati Uniti anche come “tubo di scarico del Pacifico” perché sembra poter risucchiare l’acqua fino al centro del pianeta.

 Si tratta di una formazione naturale molto particolare, una cavità che ha l’aspetto di un pozzo infinito collocato sulle coste del Pacifico.

Sebbene appaia come senza fondo, in realtà è comunicante con le acque del Pacifico e proprio per questo è particolarmente pericoloso, la sua profondità è di 6 metri e il suo diametro di soli 3 metri, ma durante le tempeste più forti che colpiscono la costa il mare viene risucchiato con grande forza verso le acque aperte e chi dovesse cadervi dentro si troverebbe in una trappola senza alcuna via di fuga.

Sono però proprio le giornate di cattivo tempo in cui imperversano i temporali che si presentano come i momenti più spettacolari per osservare il Pozzo di Thor, tuttavia, anche nelle giornate di calma apparente si può apprezzare il cambio repentino delle condizioni dell’acqua, che passano da apparente calma a furia “divina”, quasi come se il martello di Thor si abbattesse ripetutamente con tutta la sua forza in quel preciso luogo.


Questa formazione rocciosa deriva il suo nome dalla divinità norrena Thor, figlio di Odino e dio del fulmine, del tuono e della tempesta. Uno degli attributi di Thor era Mjöllnir, un martello potentissimo che secondo le leggende locali sarebbe stato scagliato in questo punto sino a creare la voragine che risucchia le acque marine al centro della Terra.

L’area del Cape Perpetua Marine Reserve and Marine Protected Areas è parte della riserva naturale della Siuslaw National Forest che si trova lungo la costa ovest degli Stati Uniti, qui solo di recente gli scienziati hanno compreso le dinamiche di questo fenomeno naturale.
Pare che il segreto della trascinante forza del Pozzo di Thor stia nella struttura del pozzo stesso: l’apertura che è oggetto delle fotografie dei turisti rappresenta l’ingresso superiore di una grotta, tuttavia, c’è un’altra cavità che si trova in fondo al pozzo e si presenta come perpendicolare allo stesso.

Con il subentrare della bassa marea, le onde si spostano avanti e indietro all’interno della grotta; nel momento in cui si alza la marea, invece, la caverna si riempie di un grande quantitativo di acque, sbattendo contro le rocce e andando a sviluppare un “effetto geyser”. Le onde che vengono spinte in alto e in seguito inghiottite quasi sino a sparire costituiscono proprio lo spettacolo che viene osservato dai visitatori.


Fonte: meteoweb.eu

Trova con il metal detector oltre 1200 monete romane dell’epoca di Costantino


 Nel Comune di Bubendorf, sito nel Canton Basilea Campagna, il 6 settembre del 2021 è stata fatta una scoperta archeologica incredibile e non programmata quando Daniel Lüdin, un appassionato del settore, stava esplorando con il suo metal detector un’antica area medievale fin quando il ripetitore ha emesso un suono insistente, indicando un punto preciso del suolo.

Quando Lüdin ha iniziato a scavare ha trovato sorpreso qualche antica moneta e dei cocci di ceramiche, ma non poteva immaginare che, al di là di questi reperti storici, più in profondità ci fosse dell’altro perché il suo metal detector aveva identificato un vaso contenente 1290 monete dell’Impero romano del IV secolo d.C..

L’appassionato di archeologia ha ben pensato di risotterrare quel patrimonio, consapevole sicuramente delle rigide norme svizzere sul ritrovamento di beni archeologici, e ha contattato l’ente Archäologie Baselland, i cui archeologi si sono recati a Bubendorf e hanno prelevato i reperti, esaminandoli fino a qualche giorno fa quando il silenzio stampa è stato rotto.

Le monete ritrovate da Lüdin sono fatte di una lega di rame ed una piccolissima quantità di argento e databili intorno al 332-335 d.C. poiché coniate durante il regno dell’imperatore Costantino il Grande che concesse ai suoi sudditi la libertà religiosa con la promulgazione dell’Editto di Milano, favorendo così la diffusione del Cristianesimo nell’Impero.


Ciò che però rimane tutt’ora un mistero è come mai queste monete siano state sotterrate visto che nel sito di Bubendorf non sono mai stati trovati tesori di questo tipo, sebbene l’area fosse nota per essere il confine tra i feudi imperiali.

Secondo gli archeologi dell’Archäologie Baselland le monete sarebbero state custodite da qualcuno che le avrebbe volute seppellire, cercando di nasconderle dagli invasori stranieri ed evitare che questi si impossessassero dei propri beni. Per altri invece nell’area in cui sono state ritrovate vi sarebbe potuto essere un tempio o un luogo sacro in cui le monete avrebbero forse svolto la funzione di offerta votiva alle divinità, ecco perché erano custodite in un vaso.

Fonte: Archäologie Baselland

mercoledì 4 maggio 2022

Aogashima: il villaggio dentro al vulcano


 Si trova in Giappone l’isola vulcanica di Aogashima, precisamente a 358 chilometri a sud di Tokyo (di cui fa parte), immersa nell’Oceano Pacifico e parte delle isole dell’arcipelago di Izu di cui costituisce l’isola più distante ma anche quella più interessante dal punto di vista geologico.

L’isola si è generata dai frammenti vulcanici di ben 4 caldere sottomarine e ha una superficie di circa 9 chilometri.

 La conformazione dell’isola vulcanica appare alquanto particolare poiché è composta da un cratere vulcanico che misura 1,5 chilometri, che costituisce la grande caldera che prende il nome di Ikenosawa e al suo interno ospita un secondo cratere più piccolo: il vulcano Maruyama alto appena 200 metri ma considerato ancora attivo.

 Dal punto di vista geologico rappresenta un insieme peculiare poiché è formata da rocce molto alte che si elevano dal mare lungo tutto il perimetro e sprofondano verso l’interno dando vita a un grande cono.

Si tratta di una meta non ancora inflazionata dal turismo, grazie alla sua posizione isolata, ma spostandosi per soli due giorni in questo luogo i visitatori possano esplorare l’isola in lungo e largo: immergersi nella natura, nelle attività all’aperto come quelle da praticare nel parco Ovamatenbo, e nelle escursioni lungo i sentieri segnati. 

C’è una strada che percorre tutto il perimetro del vulcano più grande fino a Otonbu, il punto più alto e panoramico, ma una delle migliori opzioni è rappresentata da un giro a bordo di elicottero che si prende sull’isola di Hachijojima e consente di ammirare in tutta la spettacolare natura vulcanica l’isola.


Una grande esplosione interessò l’isola nel 1785, quando fu abbandonata per circa mezzo secolo. 

Dopo l’inferno di fiamme e fuoco e gas che sterminò metà della popolazione sarebbe stato normale che venisse abbandonata per sempre; invece, con il tempo nuovi abitanti popolarono l’isola e oggi la vita scorre lenta ad Aogashima e lontana dal caos metropolitano.


Grazie al vulcano i residenti possono sfruttare le sorgenti di acqua calda naturale, ricavare energia geotermica sufficiente per l’autosostentamento e persino concedersi rilassanti saune a cielo aperto.

 La maggior parte degli abitanti pratica la pesca ma non mancano le attività commerciali e sull’isola è presente anche una distilleria di Shochu, un liquore molto simile alla vodka.

Oggi i residenti sono poco meno di 200 e il villaggio è dotato di tutto ciò che può servire ai suoi cittadini: una scuola, un negozio, un ufficio postale, due locali che offrono specialità del posto e la possibilità di cantare al karaoke; ma vi sono anche bed & breakfast e un campeggio gratuito per i turisti dotato persino di una sauna geotermica dove rilassarsi.

 All’esterno dello stesso le sorgenti geotermiche sono utilizzate anche per cuocere al vapore cibi semplici come uova e patate.


Il calore originato dal vulcano viene utilizzato per produrre il sale hingya, tipico dell’isola, ottenuto scaldando l’acqua di mare con il vapore dei soffioni boraciferi.

Fonte: meteoweb.eu

venerdì 29 aprile 2022

Monet e le ninfee. Perché le dipinse così tante volte?


 La storia di Claude Monet (1840-1926), padre della corrente artistica dell'impressionismo, ha origine vicino a Parigi, a Giverny, dove l'artista abitò e dove iniziò a dipingere a partire dagli anni Ottanta dell'Ottocento.

Affascinato da ciò che definiva "l'aspetto mutevole della natura", Monet si dedicò per tutta la vita a dipingere en plein air (letteralmente all'aperto) per riuscire a cogliere le sottili sfumature che la luce e l'aria generano su ogni particolare della natura. La sua casa aveva due magnifici giardini, che lui curava personalmente: uno di impianto tradizionale, prevalentemente geometrico; l'altro un giardino acquatico di concezione orientale, ricco di piante esotiche e con qualche elemento architettonico, come il ponte giapponese che appare nei suoi dipinti.

 Come una grande opera vivente, li riempì di iris, papaveri, tulipani, rose e, naturalmente, di splendide ninfee.


Lo scopo dell'arte di Monet fu quello di cogliere l'impressione di un attimo, come quando si guarda qualcosa per la prima volta; sfruttò così la modalità del "dipingere in serie" le ninfee proprio per farsi l'occhio su quel soggetto preciso, per vedere di volta in volta che cosa cambiasse rispetto al dipinto precedente e come mutassero i colori dalla sera alla mattina, dall'alba al tramonto, dall'inverno all'estate.


Quando Monet dipingeva le sue amate ninfee, quindi, non si concentrava nel rappresentare i dettagli specifici ma voleva creare una visione d'insieme, cercando di rendere al meglio le intonazioni, i giochi di luce sull'acqua e i suoi riflessi colorati nelle diverse ore del giorno e nelle diverse stagioni. 

Nelle opere delle ninfee, come anche nella famosa serie della Cattedrale di Rouen, la ripetizione del medesimo soggetto è dettata dalla volontà di cogliere quel soggetto nell'immediato e nell'attimo non ripetibile.


Monet, dunque, per tutta la vita, riuscì a dipingere immerso nella natura, e per farlo aveva bisogno non solo di vederla, ma di sentirla in tutti i suoi fenomeni. 

Fece della natura il suo atelier, quell'atelier diverso ogni volta che cambiava il paesaggio, il soggetto, il punto di vista. 

L'invenzione delle serie delle ninfee nacque proprio dalla malinconia dettata dalla consapevolezza della natura temporanea della bellezza.

Il ciclo delle ninfee è composto da ben 250 dipinti, oggi sparsi nei più importanti musei del mondo. Ma dietro quei dipinti, soprattutto in quelli più prossimi alla sua scomparsa, si nasconde anche il dolore di un grande artista che lottò contro la sua malattia. 

Oramai cieco, morì a causa di un tumore polmonare nel 1926, all'età di 86 anni, nel suo angolo di paradiso, a Giverny.

Fonte: www.focus.it

martedì 26 aprile 2022

Il “maiale” del Leone di Lucerna: l’invisibile sberleffo di uno scultore non pagato


 Il “Leone di Lucerna” è una delle attrazioni turistiche più famose della città svizzera: un leone mortalmente ferito, scolpito nella roccia, in una grande ex-cava di arenaria, nei pressi della città.

Il monumento è dedicato alla memoria delle Guardie Svizzere al servizio del re di Francia, che persero la vita durante la Rivoluzione Francese, mentre difendevano il Palazzo delle Tuileries, a Parigi.

 Il leone morente vuole essere un simbolo del coraggio dei soldati, disposti a morire piuttosto che tradire il loro giuramento di fedeltà.

Negli ultimi due secoli, milioni di turisti hanno ammirato questo monumento, che Mark Twain descrisse come “il pezzo di pietra più triste e commovente del mondo”. Ma sono pochissimi, tra coloro che si fermano a guardare il leone, che si accorgono che ci sono due animali, e non uno, scolpiti nella roccia.


I soldati mercenari svizzeri, fin dal 15° secolo, erano molto apprezzati dai monarchi europei per la loro disciplina e fedeltà, in particolare dai sovrani di Francia e Spagna, che li assoldarono come guardie del corpo, a difesa dell’incolumità delle famiglie reali.

Il 10 agosto 1792, un’immensa folla di rivoluzionari (parigini e non, popolani e borghesi, uomini e donne) riuscì a entrare nel Palazzo delle Tuileries, e a sopraffare le 1.330 Guardie Svizzere, mentre il re Luigi XVI e la sua famiglia fuggivano attraverso i giardini.

 Oltre seicento soldati elvetici furono uccisi durante la sommossa, circa duecento morirono in prigione per le ferite riportate e durante le successive rivolte, nel mese di settembre.


In quel drammatico 10 agosto del 1792, il luogotenente delle Guardie Svizzere Carl Pfyffer von Altishofen, al servizio del re di Francia, si trovava a casa a Lucerna , e si salvò.

 Nel 1801, quando fu congedato, iniziò a pensare a un monumento commemorativo che onorasse la memoria dei suoi compagni caduti a Parigi.

In quegli anni la Svizzera, dopo la conquista di Napoleone, era assoggettata ai francesi, e un monumento dedicato ai difensori della monarchia non era sicuramente gradito. 

Quando il paese riconquistò la sua indipendenza, a seguito della “restaurazione” del 1815 seguita alla sconfitta di Napoleone a Waterloo, von Altishofen decise che era giunto il momento di concretizzare il proprio progetto.

 Commissionò l’opera allo scultore neoclassico danese Bertel Thorvaldsen, e iniziò a raccogliere i fondi per realizzarla.

Von Altishofen non riuscì a raccogliere il denaro necessario a pagare l’intera somma richiesta dallo scultore, molto famoso e impegnato, e decise di tenere nascosto questo aspetto all’artista, almeno fino a quando questi non avesse consegnato un modello della scultura. I rapporti tra i due divennero burrascosi, anche per il troppo tempo impiegato dallo scultore che, secondo l’ex-guardia, dimostrava “indifferenza verso i popoli che attendono il suo lavoro”.

Quando Thorvaldsen apprese che non sarebbe stato pagato, se non in minima parte, andò comunque avanti con il lavoro, apportando qualche modifica dell’ultimo minuto

Lo scultore modellò un leone morente trafitto da una lancia, simbolo dei soldati caduti. Una zampa dell’animale è appoggiata sullo scudo con lo stemma della monarchia francese, mentre accanto si trova un altro scudo con l’effigie della Svizzera.

Thorvaldsen non alterò la scultura, per rispetto ai soldati caduti in Francia, ma cambiò la forma della nicchia dove giace il leone, dandole un contorno che ricorda quello di un maiale.


La scultura fu materialmente realizzata, sui modelli di Thorvaldsen, da due artisti: lo svizzero Pankraz Eggenschwyler, che durante il lavoro morì cadendo da un’impalcatura, e il tedesco Lucas Ahorn, che nel 1821 completò l’opera.

A quanto pare nessuno notò il profilo del maiale fino a scultura conclusa, ma chiunque sia dotato di un occhio attento è in grado di cogliere il sottile messaggio con cui l’artista volle esprimere il proprio disprezzo nei confronti di chi aveva commissionato l’opera.

Fonte: vanillamagazine

sabato 9 aprile 2022

In Inghilterra c’è un bosco incantato che sembra uscita da un libro di fiabe


 A guardarlo bene sembra quasi di conoscerlo il bosco di Micheldever perché probabilmente questo assomiglia proprio a quello che ha fatto da sfondo alle vicende dei protagonisti delle nostre favole preferite.

 Che sia davvero questo, non possiamo saperlo, quello che è certo però è che questo angolo di natura lussureggiante sembra davvero essere uscito da un libro di fiabe.

C’è chi a guardare le foto lo scambia per un dipinto impressionista e chi ancora per un abile disegno ad acquerello, quello che è certo è che questo bosco, probabilmente, è uno dei più suggestivi e magici di tutto il mondo.

Per scoprirlo, e attraversarlo, dobbiamo recarci nel Regno Unito e più precisamente nella contea dell’Hampshire. È qui che tra i piccoli e sognanti villaggi si estende una foresta lussureggiante e silenziosa che in primavera diventa un tripudio di colore grazie alle campanule in fiore.

La magia che conserva questo angolo di paradiso dell’Hampshire non ha nulla a che vedere con la stregoneria.

 Il merito dell’atmosfera idilliaca e onirica che caratterizza questo luogo, infatti, è da attribuire esclusivamente a Madre Natura che, ancora una volta, rende il mondo che abitiamo straordinario.


Il bosco di Micheldever appare davanti agli occhi degli osservatori come un’intricata e fitta rete di giochi di luce.

 I raggi del sole, infatti, si insinuano tra i faggi e le conifere illuminando i fiori di campo tra i quali si nascondono timidamente farfalle e uccelli di diverse specie.

Questo luogo, infatti, è diventato con gli anni l’habitat ideale di molte specie floristiche e faunistiche.

 Addentrandoci nel bosco e nella sua profondità, attraverso i tanti sentieri che si fanno strada tra alberi e cespugli, ecco che possiamo fare incontri ravvicinati con daini e cervi Muntjac che hanno fatto del bosco la loro casa. Questi animali, abituati alla presenza dell’uomo, si trasformano in guide straordinarie per scoprire le meraviglie naturali di questa foresta incantata.


Poco battuto dai sentieri più turistici, ma meta prediletta dei cittadini del territorio, il bosco di Micheldelver è un luogo davvero straordinario che assicura un’esperienza sensoriale fatta di pace e bellezza. Ricco di bellezze naturali, questo angolo fatato che si estende per oltre 300 ettari, si trova a soli 8 chilometri dalla città di Winchester.

Rifugio perfetto per fuggire dal caos cittadino e per fare il pieno di energie in ogni stagione dell’anno, il bosco di Micheldelver è il luogo ideale per ritrovare il contatto con la natura più autentica attraverso passeggiate, bagni nella foresta o meditazione, ma anche picnic nelle aree di sosta attrezzate con tavoli e panche in compagnia di farfalle, uccelli e fiori.


Il bosco di Micheldelver è aperto gratuitamente ai visitatori 365 giorni l’anno e raggiunge il suo massimo splendore in primavera. È in questo periodo, precisamente tra aprile e maggio, che le campanule in fiore trasformano tutto il territorio circostante in un paesaggio dalle mille sfumature di lilla e dai profumi inebrianti che crea atmosfere magiche e uniche.

Fonte: siviaggia.it

venerdì 8 aprile 2022

Il disco di Nebra, cielo di bronzo degli antichi Germani


 Discusso per le circostanze obsolete del ritrovamento, il disco del cielo di Nebra fa parte, dal giugno 2013, del patrimonio storico dell’UNESCO.

 Un oggetto prezioso, seppellito 4100 – 3700 anni fa sul monte Mittelberg, presso la città di Nebra, insieme ad altre offerte rituali. Un dono agli dei. Prima di finire sotto terra, il reperto tedesco era stato usato per duecento anni, quindi racchiude la conoscenza di diverse generazioni. 

Queste genti non avrebbero mai potuto immaginare che un giorno il loro calendario sarebbe stato al centro di un giallo archeologico.

Quando i tombaroli, vale a dire i saccheggiatori di tombe, fanno una scoperta come questa e poi cercano di venderla sul mercato nero e incappano nella mano della giustizia, gli archeologi si trovano di fronte al reperto come a una vera e propria sfida: si tratta di un pezzo autentico oppure di un falso? Nel 1999 Mario Renner e Henry Westphal sondavano con un metaldetector la cima del Mittelberg, una modesta altura di 252 metri situata nella regione tedesca di Sachsen-Anhalt, a quattro chilometri di distanza dalla cittadina di Nebra.


Trovarono un deposito di oggetti antichi, tra cui il disco del cielo.

 Di primo acchito, i due pensarono che si trattasse della parte centrale di uno scudo. 

Il giorno dopo vendettero il prezioso bottino a un commerciante di Colonia che pagò 31.000 marchi. Il compratore aveva intenzione di guadagnare un milione di marchi, vendendo una parte dei reperti a Berlino e un’altra parte a Monaco di Baviera. Ma i potenziali clienti si resero conto che la merce scottava e rifiutarono. Per legge, gli oggetti ritrovati appartenevano allo Stato.

Sicché il prezioso disco passò da una mano all’altra sino al 2001, quando una coppia di ricettatori lo acquistò e tentò di venderlo sul mercato nero per 700.000 marchi.

 Fortunatamente si sparse la voce e questa raggiunse le autorità tedesche. 

Su iniziativa del Ministero della Cultura e dell’Ente Regionale di Archeologia di Sachsen-Anhalt, l’archeologo Harald Meller si mise in contatto con i venditori e organizzò un incontro in un albergo di Basilea. A quel punto intervenne la polizia svizzera che arrestò i ricettatori mettendo al sicuro il disco. Una volta interrogati, i due fornirono informazioni sul luogo di ritrovamento.

Purtroppo però, se un sito non viene immediatamente preso in esame da archeologi e altri specialisti, molte informazioni essenziali vanno perdute.

 Possono anche nascere dei dubbi sull’autenticità dei reperti stessi, come nel caso del disco del cielo di Nebra. Dubbi sollevati nel corso del processo. 

Se la difesa dei due ricettatori, la quale giocò proprio questa carta, fosse riuscita a dimostrare che il disco era un falso, l’accusa di ricettazione di oggetto antico sarebbe venuta a cadere.

Ma non fu così. Gli archeologi Harald Meller, Heinrich Wunderlich ed Ernst Pernicka insieme con il geologo Gregor Borg hanno dimostrato senza ombra di dubbio l’autenticità del disco di Nebra che l’UNESCO ha confermato, inserendo il reperto nella lista „Memory of the World“. 

Oggi il disco è esposto al Museo Regionale di Preistoria di Halle che ospita una delle raccolte archeologiche più importanti della Germania.

Pressoché rotondo, diametro di 32 centimetri, spessore di 4,5 millimetri al centro e 1,7 mm sul bordo, il disco pesa 2,3 chili. È fatto di bronzo ricavato da una lega di rame e stagno.

 Il colore originario dell’oggetto doveva essere il nero. Uno strato corrosivo di malachite, formatosi durante la permanenza del disco sotto terra, ha causato la colorazione verdastra che possiamo vedere oggi.

 Le splendide applicazioni rappresentano gli astri, sono fatte di lamina d’oro e hanno subito delle modifiche nel corso dei secoli. Accanto al disco furono sepolte spade di bronzo, frammenti di bracciali, due asce e uno scalpello. 

L’esame di questi oggetti suggerisce che il disco di Nebra sia stato deposto in loco intorno al 1600 a. C., mentre la sua fabbricazione risale al 2100 – 1700 a. C.


Si distinguono tre periodi successivi di lavorazione del disco durante le quali le applicazioni d’oro sono state modificate.

 Nel primo periodo erano visibili soltanto la luna piena, la falce di luna crescente e le Pleiadi, attorniate da 25 stelle. Secondo gli studiosi Meller e Schlosser, la raffigurazione potrebbe aver voluto fissare due momenti dell’anno in cui le Pleiadi appaiono a ovest, segnando in marzo e ottobre rispettivamente il periodo di preparazione del campo per la semina e il periodo del raccolto.

Nel secondo periodo di lavorazione furono inseriti, oltre a luna piena, luna crescente e Pleiadi, anche i due archi dell’orizzonte, rispettivamente a sinistra e a destra sui bordi del disco. 

Queste due ulteriori applicazioni evidenziavano il sorgere e il tramonto del sole al solstizio d’inverno e al solstizio d’estate. Servivano alla misurazione astronomica. Se il disco del cielo veniva posizionato a terra sulla cima del Mittelberg, di modo che una linea immaginaria dall’estremità dell’arco sinistro sino all’estremità dell’arco destro fosse rivolta verso la vetta del monte Brocken (il monte più alto della Germania centrale) situato a circa 85 chilometri di distanza, poteva fungere da calendario dell’anno solare.

 Infatti il sole, osservato dal Mittelberg durante il solstizio d’estate Buy Acimox Amoxil , tramontando sparisce proprio dietro il Brocken. Era così possibile procedere alla misurazione astronomica delle fasi solari dell’anno: solstizi ed equinozi, come mostrano le tre immagini sotto riportate.

 Nella prima immagine vediamo, sullo sfondo, il monte Brocken: solstizio d’estate. Nella seconda immagine gli equinozi di primavera e autunno. Nella terza immagine il solstizio d’inverno.

Infine, nel terzo periodo di lavorazione del disco, oltre a luna piena, luna crescente, Pleiadi e i due archi dell’orizzonte, fu applicata una sorta di falce d’oro, inserita in basso, nel mezzo: la barca solare. Quest’applicazione sembrerebbe non aver avuto una funzione pratica inerente al calendario astronomico, ma piuttosto rappresentativa. Avrebbe raffigurato il viaggio del sole da occidente a oriente.


Una deduzione che impressiona parecchio per le implicazioni con l’iconografia sacra di altre culture, per esempio quella egizia.

 Il viaggio della barca solare di Ra è un motivo di primo piano nelle raffigurazioni geroglifiche. È possibile che ci sia stato all’epoca un transfer culturale fra l’Egitto e l’Europa centrale? In ogni caso gli esperti sono concordi nell’affermare che il disco del cielo di Nebra non sia un prodotto importato dal Vicino Oriente. L’analisi del materiale e l’evidente connessione con gli altri oggetti del Mittelberg prova che il reperto fu fabbricato da genti di una cultura europea. E si tratta della più antica raffigurazione del cosmo in assoluto, di 200 più antica delle prime rappresentazioni cosmiche scoperte in Egitto.

Potrebbe trattarsi di un culto incentrato sugli astri e comune a diverse regioni europee. 

L’archeologo Paul Gleirscher interpreta la falce d’oro situata in basso nel centro del disco non come barca solare ma come una seconda falce lunare. Con l’inserimento di quest’ultima applicazione sul disco, sarebbe stata confermata la connessione dell’oggetto con la luna. Inoltre l’archeologo evidenzia che la deposizione del disco potrebbe essere avvenuta anche più tardi della deposizione degli altri oggetti, intorno al 1000 a. C., ed essere collegata alla Cultura dei “Goldhüte” (così chiamata per la presenza di alti copricapo d’oro), individuata nella Germania meridionale e in Francia, che a sua volta fa parte della più vasta Cultura dei campi di urne.

Bisogna comunque tener presente che il Mittelberg, sito di ritrovamento del disco del cielo di Nebra, era probabilmente frequentato già durante il Neolitico e aveva la funzione di osservatorio astronomico. 

Sempre in questo territorio è stato scoperto, all’inizio degli anni Sessanta del secolo scorso, un insediamento di cacciatori dell’Era glaciale, 14.000 – 13.000 anni fa. Tra i preziosi reperti: figurine astratte di donna. Inoltre a 20 chilometri di distanza dal Mittelberg si trova il celebre Cerchio di Goseck che risale al V millennio a. C. Formato da fossati concentrici e da palizzate, il Cerchio di Goseck era usato come calendario astronomico e testimonia, quindi, la presenza di conoscenze ben definite sui movimenti degli astri nell’Europa del Neolitico. Insomma, abbiamo a che fare con una regione densa di presenze preistoriche.

In seguito alla scoperta del disco del cielo di Nebra, l’associazione di ricerca “Deutsche Forschungsgemeinschaft” ha costituito un gruppo di studio volto alla rivalutazione storico-culturale della prima Età del Bronzo nella Germania centrale.

 Nel 2007 è stato inoltre inaugurato il centro multimediale “Arca di Nebra”, costruito nei pressi del luogo di ritrovamento. Iniziative che onorano il disco del cielo, il primo strumento astronomico con cui i nostri antenati potevano stabilire con esattezza i momenti cruciali dell’anno.

Fonte: storia-controstoria.org


giovedì 31 marzo 2022

Alla scoperta delle Isole Baleari: una biodiversità unica tra parchi, spiagge e riserve naturali


 Il patrimonio naturale delle Isole Baleari è un esempio di coesistenza tra essere umano e natura, una meravigliosa opera d’arte naturale scolpita in un ambiente paesaggistico che si fonde con le tradizioni e le culture delle popolazioni locali.

 Spazi idilliaci come la Sierra de Tramontana, dichiarata Patrimonio dell’Umanità dall’UNESCO, l’Albufera de es Grau a Minorca o la Posidonia nelle Pitïusas, tra le altre meraviglie, sono un esempio delle meraviglie naturali e paesaggistiche di cui si può godere nelle Isole Baleari.

Per queste ragioni, il governo delle Isole Baleari ha promosso una serie di iniziative con l’obiettivo di tutelare le bellezze naturali dell’arcipelago.

Nel 2011 l’UNESCO ha proclamato la splendida Sierra de Tramontana di Maiorca “Patrimonio dell’Umanità”. Si tratta di un’impressionante massiccio di oltre 90km, che forma la spina dorsale dell’isola da Nord a Sud. Lungo la Sierra si trovano due laghi – il Gord Blau ed il Cuber – e le splendide vette di Puig Major, Teix, Massenella e Tomir.

 Il paesaggio rurale è dominato da antichi terrazzamenti in pietra ed imponenti pareti rocciose, dove ulivi centenari, piegati dal vento, la fanno da padrone. 

Lungo la Sierra sono molti i luoghi che vale la pena visitare: piccoli paesi, villaggi e cittadine, che nascondono l’essenza della cultura e della storia di Maiorca. 


La Sierra è testimone dell’incontro tra la cultura Islamica e quella Occidentale: gli antichi sistemi di irrigazione infatti, che fanno delle terrazze della Sierra un panorama davvero unico, sono quelli portati dalla dominazione araba.

Anche Minorca offre ai visitatori meravigliose bellezze naturali. Tra queste, impossibile non citare l’Albufera de es Grau, il parco naturale più importante di Minorca con oltre 5.000 ettari ricchi di specie vegetali e con centinaia di animali fra uccelli acquatici (anatidi, aironi, cormorani) e rapaci (falco pescatore e aquila stivale). 


Nel 1993 Minorca è stata dichiarata “Riserva della Biosfera” dall’Unesco: l’Albufera de es Grau è uno dei punti chiave della Riserva, che ospita un parco naturale, cinque riserve naturali, una riserva marina e diciannove zone di ANEI-Aree Naturali di Speciale Interesse.

Ma il vero segreto del variegato ecosistema nelle Isole Baleari risiede in una pianta marina: la Posidonia Oceanica.



Questa pianta non è un’alga, ma ha fusto, radici e fiore ed è la protagonista principale dei fondali marini delle coste di Formentera, potendola incontrare fino a 30 o 40 metri di profondità. La sua forma ed estensione tingono di verde grandi zone della costa e favoriscono una ricca vita marina, sia vegetale che animale.

La Posidonia Oceanica non solo aiuta a riparare i fondali marini ed a proteggere le spiagge, prevenendo l’erosione del litorale sottomarino, ma il suo ruolo più importante è la grande capacità di generare ossigeno (essendo una vera e propria pianta). Non è un caso, quindi, che le praterie di Posidonia che si estendono tra le saline di Ibiza e Formentera siano state dichiarate Patrimonio dell’Umanità dall’UNESCO nel 1999.

Una delle iniziative più importanti intraprese dal governo delle Isole Baleari per tutelare le bellezze naturali dell’arcipelago è il Decreto per la conservazione della Posidonia Oceanica.

 L’obiettivo del decreto sulla conservazione della Posidonia Oceanica, approvato nell’estate 2018, è quello di creare una normativa che renda le attività umane compatibili con la protezione di questa specie e del suo habitat, stabilendo un quadro giuridico omogeneo e regolando gli usi e le attività che possono influire su di essa.

La Posidonia Oceanica è una pianta marina a crescita molto lenta, endemica del Mar Mediterraneo, di straordinaria importanza biologica ed ecologica, che forma estese praterie intorno alle isole Baleari. Infatti, le Baleari sono la comunità autonoma con la più grande superficie di praterie di Posidonia oceanica in Spagna, precisamente il 50% del totale. Questa specie è la principale fonte di biodiversità marina nelle isole Baleari.

Al giorno d’oggi, lo sfruttamento delle acque principalmente legato all’attività umana – sia dal punto di vista degli impatti da terra (scarichi, costruzioni, ecc.), sia dalle attività in mare (pesca, navigazione, ecc.) – ha portato alla luce esempi di impatti che possono mettere in pericolo lo stato ottimale di conservazione della Posidonia. Così, una regolamentazione adattata alla realtà delle Baleari è necessaria per rendere l’esistenza delle attività umane compatibile con la protezione e la conservazione della specie e del suo habitat.

Fonte:meteoweb.eu

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