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martedì 11 giugno 2019

Il Colosso dell’Appennino , l'incredibile scultura del Giambologna


«Giambologna fece l’Appennino / ma si pentì d’averlo fatto a Pratolino» 

 Con questa rima anonima rimasta celebre, fu commentata la gigantesca opera che il Giambologna creò in quel di Villa Demidoff, originariamente Villa Medicea a Pratolino in provincia di Firenze. 
Certo sarebbe stato molto difficile trovare una montagna di pietra nel centro di Firenze da scolpire con le fattezze dell’incarnazione allegorica dell’Appennino. 
Il colosso è infatti alto più di quattordici metri e se fosse stato fatto in un posto più facilmente visitabile, sarebbe stata una delle meraviglie rinascimentali tra le più conosciute al mondo.


Fu voluto da Francesco I° de Medici e realizzato dall’artista fiammingo nel suo soggiorno fiorentino.

 L’amore tra Giambologna e Firenze o meglio per la corte dei Medici, è testimoniato dalle altre opere , sempre di fattura considerevole che lasciò nella città: “Il Ratto Delle Sabine”, “Firenze Vittoriosa Su Pisa”, “L’Architettura”, “Ercole E IL Centauro”, Venere”, “L’Oceano”, “Apollo”, “Astronomia” in bronzo, “San Luca”, il famosissimo “Mercurio” e molte altre.


“L’Appennino” è un’ opera particolare all’interno della sua produzione, non solo per la grandezza ma anche per la complessità architettonica.
 Sembra in realtà che lo stupendo gigante sia stato costruito con materiale riportato artificialmente in loco, cemento, pietre, laterizi, ridotto in parte nel 1600 sul retro, dove fu realizzato un magnifico drago da Giovan Battista Foggini.



Dalla base dell’enorme scultura, si aprono delle camere organizzate su tre piani.

 Gli ambienti erano in principio riccamente decorati con fontane, pitture, statue, mosaici, il tempo li ha deteriorati e un recente restauro ha cercato di riportarli per quanto possibile alla vista.

 Nell’ ambiente denominato “grotticina superiore”, è stata poi ricollocata la statua in marmo detta “Venerina”.


Nonostante la mole notevole dell’opera, il Giambologna non smentisce i suoi criteri estetici, il gigante è infatti proporzionalmente funzionale e bel modellato nelle anatomie, complesso nella posa incline a dare vita o nascondere anfratti, aperture, collegamenti con altre masse scolpite. 

 L’Appennino posa accovacciato, prendendo la forma appunto di una montagna, con la mano poggiata sulla testa di un enorme serpente dal quale sgorga una fontana, dal getto che si tuffa nel lago davanti.




Racchiuso tra la gamba allungata all’indietro e il braccio destro, sorge, dalla schiena, quello che resta della montagnola originaria, sovrastata dal drago ad ali spiegate.


Sotto, si aprono due passaggi per entrare nelle grotte interne dei due piani, infine tramite ripidi scalini, si arriva all’altro vano al centro della testa, dove si trovano ancora i resti di un camino che, acceso avrebbe fatto uscire il fumo dalle narici.

 Progetto ambizioso ed enigmatico, complicato anche da una serie di canali idraulici serviti ad alimentare le numerose fontane interne, si pensa sia stato costruito come maniero di caccia o come rifugio, comunque come luogo isolato e segreto.
 La presenza della piccola statua di Venere, potrebbe farci pensare alla possibilità dell’essere stato concepito come alcova per furtivi incontri amorosi.


Dall’aria di possente, gigantesco vecchio, il “Colosso Dell’Appennino” veglia sul lago artificiale posto in luogo dell’originaria fontana e, ricoperto di escrescenze fatte ad arte, sembra essere sorto dalle acque come l’omonimo monte che si è eretto un tempo sopra il Mediterraneo.


La Villa Medicea di Pratolino, oggi Villa Demidoff, era un capolavoro dell’arte rinascimentale decantata dai contemporanei per la grandezza, la quantità e la qualità delle opere che racchiudeva.
 Nel tempo, molte statue sono state trasferite, alcune in musei, altre nel Giardino dei Boboli, altre vendute.


Il “Colosso Dell’Appennino”, ci si incastonava come una immensa gemma preziosa, tra un esteso giardino contornato da 26 statue antiche sul davanti e un labirinto d’alloro che si estendeva sul retro. 
Descritto come magnifico all’epoca della costruzione, mantiene intatta la sua bellezza anche oggi, ma possiamo solo immaginare la grandiosità di quello che fu l’insieme di tutto il parco al tempo del suo massimo splendore. 

 Fonte: mcarte.altervista.org

lunedì 10 giugno 2019

La Sagrada Familia di Barcellona ottiene i permessi di costruzione dopo 137 anni


La costruzione della Sagrada Familia di Barcellona è iniziata 137 anni fa, ma la basilica, simbolo di Barcellona, ha ottenuto i permessi di costruzione solo oggi.
 Il consiglio comunale ha assegnato la licenza al comitato incaricato di terminare la costruzione del tempio cattolico: lo ha riferito ai giornalisti Janet Sanz, responsabile della pianificazione urbana.

 Le autorità hanno scoperto solo nel 2016 che l’edificio che attira milioni di visitatori ogni anno non aveva mai avuto il permesso di costruire da quando la costruzione iniziò nel 1882. 
Sanz ha detto che il consiglio è finalmente riuscito a “risolvere un’anomalia storica della città, che un monumento emblematico come la Sagrada Familia non ha un permesso di costruzione, che è stato quindi costruito illegalmente”.


Secondo il comitato incaricato di terminare la costruzione della basilica non ancora completata, Antoni Gaudi aveva chiesto al municipio di Sant Marti, un villaggio ora assorbito a Barcellona, il permesso di costruzione nel 1885, ma non ottenne mai una risposta. 

Circa 137 anni dopo, la costruzione è finalmente legale.
 Il nuovo permesso di costruzione afferma che la basilica sarà completata nel 2026, con un’altezza massima di 172 metri e un budget totale di 374 milioni di euro.











Progettata da Gaudi, il celebre architetto catalano, la Sagrada Familia è stata nominata patrimonio mondiale dell’Unesco nel 2005. 

La costruzione, finanziata esclusivamente da donazioni e biglietti d’ingresso, si concluderà nel 2026, in coincidenza con il centenario della morte di Gaudi, che perse la vita investito da un tram. 

La basilica è il monumento più visitato di Barcellona, con 4,5 milioni di persone nel 2017, e una delle principali attrazioni turistiche del Paese.


 Fonte: lastampa.it

venerdì 7 giugno 2019

Pietre di Ica: cosa sono e che origine hanno le misteriose incisioni?


Si tratta di oltre 15 mila pietre di andesite, una roccia ricca di silicati tipica delle Ande, che furono collezionate dal medico Javier Cabrera Darquea a Ica, in Perù.
 Cabrera ricevette la prima pietra incisa come regalo di compleanno nel 1961. 

Molte di queste pietre recano incisioni che mostrano uomini e dinosauri, ma anche attrezzi che qualcuno assimila a telescopi, bizzarre macchine volanti e strumenti per pratiche chirurgiche assolutamente avanzate per l'epoca.






Molti scienziati le hanno studiate, e la maggior parte di essi fa risalire le pietre a 12mila anni fa (informazione che si ricaverebbe dallo stato di ossidazione delle superfici incise): per quanto riguarda le incisioni, si ritiene che si tratti semplicemente di falsi, realizzati anche alla buona, usando trapani da dentista. 
A che scopo? 
Rivenderli come souvenir ai turisti (e uno dei produttori avrebbe anche confessato). 


 C’è però anche un filone minoritario che crede alla misteriosa veridicità di queste pietre.
 I membri di una spedizione archeologica spagnola ha infatti affermato di aver trovato alcune di queste pietre non al mercato nero, ma in un contesto di scavo, e di averle datate attorno a 100 mila anni fa.

 Un po' di mistero, dunque, almeno per adesso rimane... 


 Fonte: focus.it

mercoledì 5 giugno 2019

Come sarà la nuova Notre-Dame?


Un raggio di luce che tocca il cielo di Parigi, una brillante fiamma dorata, un tetto con la struttura a diamante, un altro trasformato in giardino... benvenuti nel fantasioso mondo di architetti e archistar che si sono già sbizzarriti a proporre le loro nuove Notre-Dame. 


Dopo l'incendio del 15 aprile 2019, che ha distrutto il tetto medievale e la guglia ottocentesca progettata dall'architetto Eugène Viollet-le-Duc, il presidente Emmanuel Macron ha preannunciato un "concorso internazionale di architettura" per il recupero della cattedrale metropolitana di Parigi, dichiarando di non avere pregiudizi nei confronti anche di "un'idea architettonica contemporanea", anche ardita.
 Così, da settimane, nei siti dei più prestigiosi studi di architettura al mondo scorrono le immagini di ipotetici restauri.


Per l'architetto italiano Massimiliano Fuksas la nuova guglia di Notre-Dame dovrebbe essere in cristallo Baccarat ed essere sempre illuminata, per essere un faro nella notte. 

Il francese Mathieu Lehanneur propone invece una fiamma stilizzata in fibra di carbonio, alta 90 metri, a futura memoria dell'incendio.


Altri progetti puntano sul vetro, come quello dell’architetto russo Alexander Nerovnya, docente al Moscow Architectural Institute, che ha disegnato una copertura simile a un enorme diamante con al centro una guglia dal sapore gotico. 

 Ancora vetro nel progetto dello studio di architettura AJ6 (San Paolo, Brasile) che vorrebbe per il tetto e la guglia vetrate colorate come quelle che hanno reso famosa la cattedrale, per gettare sui fedeli fasci di luce di mille colori.


Decisamente suggestiva la proposta dello studio slovacco Vizum Atelier: una torre lunga e sottile che proietta un fascio di luce nel cielo di Parigi, mentre pare (a noi) un po' troppo ardita l'idea dello studio Kiss The Architect, che ha immaginato la guglia come una scala a chiocciola, con pedane sospese tra sfere e gradi archi.


 Altri progetti sembrano più attenti all'ambiente, per esempio quello del francese Clément Willemin, che vorrebbe trasformare il tetto della cattedrale in un giardino a cielo aperto «dedicato a tutte le specie di animali e piante che stiamo cancellando dal pianeta, poiché l'amore per la natura e il desiderio di proteggere l'ambiente sono preoccupazioni che uniscono tutte le persone come una sola religione», ha affermato descrivendo l'idea.


C'è infine il progetto dello Studio Nab di Parigi: una enorme serra a fare da tetto, a fare da guida a progetti di formazione per persone in difficoltà, con una guglia di vetro per ospitare gli alveari: le api, infatti, sono sempre state di casa a Parigi, soprattutto sul tetto di Notre-Dame. 


 Di tutto ciò, che cosa ne pensano i francesi?
 Se lo è chiesto il quotidiano Le Figaro con un sondaggio: ad oggi, il 55% dei francesi vorrebbe che la guglia tornasse alla forma che sono abituati da sempre a vedere. 
Chissà come finirà. 

 Fonte: focus.it

martedì 4 giugno 2019

I sarcofagi del Re, le 23 opere colossali tra le più importanti del Mediterraneo


I Sarcofagi del Re sono uno dei più importanti giacimenti archeologici sottomarini di tutto il Mediterraneo.

 Le grandi vasche giacciono in fondo al mare, a circa 6 m di profondità, a poca distanza dalla costa di San Pietro in Bevagna, uno dei borghi della provincia di Taranto, nei pressi della foce del fiume Chidro.

 I Sarcofagi del Re sono 23 opere colossali, pesantissime, in marmo, inabissatesi nel III sec. d.C. , con la nave che le trasportava a Roma.
 Qui sorgeva un tempo sorgeva uno dei tanti scali portuali dell’Impero Romano. E da qui partì la nave alla volta di Roma con 23 sarcofagi in marmo greco grezzo cristallino.
 Era un tipo marmo usato per scolpire le tipiche statue dell’epoca.


 I Sarcofagi del Re erano destinati per la sepoltura di personaggi di assoluto rilievo.
 Hanno ciascuna un peso variabile tra una e sei tonnellate.

 Un naufragio fece sì che si inabissassero e arrivassero a noi, a testimonianza di quegli antichi splendori.


I Sarcofagi del Re sono il più grande giacimento archeologico sottomarino del Mediterraneo.

 Le forme e le dimensioni sono variabili. 
Per economizzare lo spazio, alcuni sarcofagi più piccoli sono stati rinvenuti impilati all’interno di esemplari di maggiori dimensioni. Risultano privi di decorazione, perché, quasi sicuramente, quella veniva poi eseguita sul luogo di lavorazione.



Fonte: madeintaranto.org

lunedì 3 giugno 2019

La Bocca della verità


Murato nella parete del pronao della chiesa di Santa Maria in Cosmedin di Roma dal 1632, la famosa Bocca della verità è un mascherone in marmo che rappresenta un volto maschile barbato; occhi bocca e naso sono cavi e nel tempo gli sono state attribuite numerose sembianze tra le quali il volto di Giove, del Dio Oceano, o più semplicemente di un Fauno o di un Oracolo.


 Molto più semplicemente nella Roma antica, la Bocca della verità non era altro che un banale tombino, infatti a quei tempi i tombini molto spesso erano rappresentati con sembianze di divinità fluviali, il cui compito era appunto quello di raccogliere le acque piovane. 


Quel che è certo è che il mascherone gode di fama antica e leggendaria: si presume sia questo l’oggetto menzionato nell’XI secolo nei primi Mirabilia Urbis Romae una sorta di guida medievale per pellegrini e viandanti, dove alla Bocca viene attribuito il potere di pronunciare oracoli. In essa è riportato “Ad sanctam Mariam in Fontana, templum Fauni; quod simulacrum locutum est Iuliano et decepit eum”, ovvero “Presso la chiesa di santa Maria in Fontana si trova il tempio di Fauno; tale simulacro parlò a Giuliano e lo ingannò”.




Un testo tedesco del XII secolo racconta un mito contrario all’imperatore che fu ritenuto come un restauratore della religione pagana, anche se ne fu solo molto più modestamente un seguace: il testo descrive dettagliatamente come, da dietro quella bocca, il diavolo, qualificatosi come Mercurio (non a caso protettore dei commerci e anche degli imbrogli), trattenesse lungamente la mano di Giuliano (che aveva truffato una donna e su quell’idolo doveva giurare la propria buona fede), promettendogli infine il riscatto dall’umiliazione e grandi fortune se avesse rimesso in auge le divinità pagane.

 Un’altra leggenda si fece largo in epoca Medievale, in essa si diceva che fu un tale Virgilio, erudito del VI secolo, che aveva fama di praticare la magia, a costruire la Bocca della Verità, per essere consultata dai mariti e dalle mogli che avessero dubitato della fedeltà del coniuge.


 In un’altra leggenda tedesca risalente al XV secolo ritroviamo la Bocca della verità come l’immagine che “non osa” mordere la mano di una imperatrice romana che la inganna con un artificio logico.
 Una storia molto simile circolava nei racconti popolari dell’epoca, questa parlava di una donna infedele che, condotta dal marito giustamente sospettoso alla Bocca della Verità per essere sottoposta alla prova, riuscì a salvare la sua mano con una astuzia. 
La donna incriminata chiese al proprio amante di presentarsi anche lui nel giorno in cui sarebbe stata sottoposta alla prova e che, fingendosi pazzo, la abbracciasse davanti a tutti. 
L’amante eseguì alla lettera quanto da lei richiesto. Così la donna, al momento di infilare la sua mano nella Bocca, poté giurare tranquillamente di essere stata abbracciata in vita sua solo da suo marito e da quell’uomo che tutti avevano visto. 

Avendo detto la verità, la donna riuscì a ritirare indenne la sua mano dal tremendo mascherone, benché fosse chiaramente colpevole di adulterio.


Il nome “Bocca della verità” comparve per la prima volta nel 1485 e la scultura rimase da allora costantemente menzionata tra le curiosità romane, venendo frequentemente riprodotta in disegni e stampe. 
Da questo se ne è dedotto che il monumento era in origine collocato all’esterno del portico della chiesa; fu poi spostata all’interno dello stesso con i restauri voluti da papa Urbano VIII Barberini nel 1631. 

Ancora oggi la Bocca della verità è visitabile a Roma all’ingresso della basilica di Santa Maria in Cosmedin. 

 Fonte: romaeredidiunimpero

giovedì 30 maggio 2019

La Sardegna e il popolo di Shardana, tra miti e ipotesi archeologiche


Tra le molte popolazioni mitiche proliferate in Italia in ogni tempo, si può forse inserire anche quella degli Shardana. 
 Di loro tutto è supposizione, tutto è mitizzato, niente certo o molto poco.
 In più, a quel poco che sappiamo di reale, sono stati aggiunti nel susseguirsi delle epoche altre teorie, resoconti di racconti pseudo –fantastici, testimonianze ritrovate presso altri popoli molto più conosciuti e documentati; insomma degli Shardana si sa poco ma si immagina molto …

 Tra le tante storie non documentate della loro origine c’è anche quella che furono uniti come popolo in Sardegna da Shard, anch’essa figura più che mitologica che alcuni addirittura presentano come un fratello di Ercole. 
 Eracle o Ercole è stato nell’antichità effettivamente molto presente come culto e (pare) anche personalmente nell’Italia meridionale, ce ne sono notevoli tracce documentate anche presso il popolo dei Sanniti , ma che avesse un fratello di nome Shard, quindi figlio di Alcmena, oltre al noto Ificle, non c’è n’è in verità traccia nella mitologia romana e greca o precedente.


Un’altra ipotesi nasce dagli scritti del I° secolo a.c. di Sallustio, secondo cui Sard sarebbe stato un figlio di Ercole venuto dalla Lidia con molti uomini per abitare in Sardegna, ma dalla mitologia classica non risulta che l’eroe greco abbia avuto figli con questo nome. 
Più mitologicamente corretta potrebbe essere invece l’affermazione di Diodoro Siculo quando scriveva che Ercole inviò il nipote Iolao e i suoi figli in Sardegna per fondare una colonia dopo aver portato a termine le dodici fatiche, tesi confermata anche da scritti Pseudo Aristotele.

 C’è di vero che la figura di Sard o Sardo, chiunque sia stato, è in ogni caso rimasta presente nella mitologia sarda al pari di un Dio che cambiò addirittura il nome dell’isola da Ichnusa a Sardegna. Puntualizzato questo, possiamo procedere all’analisi dei vari misteri che accompagnano gli Shardana, come ad esempio la forma degli elmi e delle imbarcazioni, così simili a quelli vichinghi, ma anche qui subito ci imbattiamo in una curiosità inspiegabile, perchè l’archeologia ha in realtà dimostrato che i tanto famosi elmi vichinghi con corna non esistevano o non venivano usati in battaglia, non ne sono mai stati trovati e sono presenti in pochissime illustrazioni. 

L’uso di questi elmi era forse riservato solo alle cerimonie, ne esistevano invece, (e questo è documentato) di questa fattura sulla testa dei guerrieri Shardana e sono moltissime le statuine in bronzo di varie misure ritrovate in Sardegna con queste vestigia guerriere. In verità di elmi cornuti se ne sono trovati in Italia anche in Liguria e presso i Sanniti stanziali nel Molise e Abruzzo.

 La tipica spada, lo scudo rotondo con dentro le altre spade, l’elmo con corna sormontato da un ovale o un cerchio, tipici dei guerrieri sardi, possono bastare per far identificare il popolo Shardana con quello sardo della civiltà nuragica?


L’archeologia egiziana ha riportato alla luce iscrizioni, documenti, graffiti in cui i guerrieri Shardana erano raffigurati in ogni dettaglio della loro tenuta guerriera e in effetti era molto simile a quella dei bronzetti ritrovati in Sardegna. 

Famosi per la loro combattività, gli Shardana sembra che amassero molto scorrazzare nel Mare Mediterraneo in cerca di popoli da razziare e perfino gli allora potentissimi imperi egiziani ne fecero le spese più volte.

 I primi scritti che lo testimoniano si trovano in documenti della XVIII° dinastia egizia del 1350 a.c., ma anche nei testi ugaritici ritrovati in Siria dove appunto la città di Ugarit fu distrutta da questi “popoli del mare”. 
Tra loro si fa preciso riferimento agli Šrdn/Srdn-w, descritti come pirati e mercenari.


Ramses II° nel 1278, poi il figlio Meremphta, poi Ramses III° sconfissero invasioni e saccheggi dei “popoli del mare” e pare che ogni volta arruolassero nelle proprie file i valorosi guerrieri Shardana catturati; nel 1274 alla battaglia di Qadesh, questi guerrieri fecero addirittura parte della guardia personale del faraone.

 Quando poi i “popoli del mare” sconfissero Ramses III° , acquisirono il possesso di parte del territorio di Palestina dove si insediarono. 
E’ certo che anche gli Shardana vi si stabilirono, non si parla invece, presso gli Egizi, della loro provenienza dalla Sardegna. 


 A questo punto si potrebbe anche citare la versione, invero molto improbabile, secondo la quale il popolo Shardana, venuto chissà da dove e posta base in suolo palestinese, sarebbe stato guidato da un certo Shardan (che dovrebbe essere tradotto come “salvato dalle acque”) verso la libertà quando, dopo essere entrato a far parte delle tribù presenti in Palestina, si sarebbe ritrovato sotto il dominio dei faraoni. 

Questo racconto che ricorda molto la storia di Mosè, è stato spesso accostato ad ogni popolazione mitica che si rispetti come altri già conosciuti che vedremo poi, gli Shardana non fanno eccezione e sono stati anche loro ricoperti di miti già sfruttati e narrati per altri popoli.


Al contrario, l’ipotesi archeologica che il popolo degli Shardana sia originario della Sardegna è recente e si basa soprattutto sulla possibile sovrapposizione delle rappresentazioni dei guerrieri nei graffiti egizi pervenute a noi e la gran quantità di sculture di varie misure in bronzo trovate in Sardegna.

 Se questo corrispondesse a verità ci sarebbe stata una popolazione che centinaia di anni prima del X°secolo a.c., partendo dalla Sardegna, avrebbe costruito un impero marinaro nel Mediterraneo con basi dall’Asia minore alle coste della Spagna, all’Africa settentrionale, alla costa tirrenica. 

 E’ documentato che furono espertissimi navigatori e combattenti di mare, dotati di navi molto ben progettate per il loro tempo. 
Tra le piccole sculture in bronzo pervenuteci, ce ne sono molte ispirate a soggetti di navi che poi si sono rivelate anche lampade votive. 
La forma ricorda molto quella dei “Drakkar” vichinghi, con la prua adorna di testa animale dalle lunghe corna, ma presenta invece un albero che ha sulla sommità uno stravagante disco con delle corna, certo inadatto a sostenere vele. 

L’assiduità di questa rappresentazione tenderebbe ad escludere che questa particolarità sia dovuta all’uso eventuale di lampada e rafforzerebbe l’idea che effettivamente le navi avessero qualcosa che ancora oggi resta un mistero.


A questo punto le teorie archeologiche più ardite si spingono oltre la fantasia e si arriva a congetturare che gli Shardana, abilissimi navigatori, si fossero spinti oltre le “Colonne d’Ercole” e abbiano risalito le coste europee fino alla penisola scandinava dove, i loro elmi adorni di corna sarebbero rimasti così impressi nella mitologia dei popoli autoctoni fino a diventare l’effige dei valorosi guerrieri vichinghi. 

Quindi, gli Shardana, dopo essere stati i portatori di uno stile di vita guerriero efferatamente predatore, sarebbero ridiscesi diffondendosi in Europa, per poi scomparire a poco a poco mescolandosi con le popolazioni dei vari luoghi, rimanendo presenti alla fine solo nell’isola di Shardana , ovvero in Sardegna.
 Ma la provenienza autoctona sarda degli Shardana è comunque tutta da provare, sembra infatti stridere il confronto con altri reperti di età nuragica che dimostrano usi e costumi molto diversi. 

L’innegabile corrispondenza di vestiario nelle rappresentazioni bronzee però tende a scartare l’ipotesi che non ci sia stata una congruenza, così si è ipotizzato che gli Shardana potessero essere un popolo proveniente dal Mediterraneo orientale insediatosi in Sardegna nel XIII° secolo a.c., chissà per quale motivo, forse in fuga da una rovina o più probabilmente per muovere guerra all’ Egitto e infine stanziatosi dove già era presente la popolazione nuragica.

 In questo caso non sarebbe stata la Sardegna a dare nome al questo popolo, ma il popolo Shardana a dare il nome di Sardegna alla sua nuova patria ed anche gli scritti e parte dei miti già citati troverebbero corrispondenza.


E’ certo che nel 929 a.c., il dominio dei popoli del mare, di cui non è ancora chiara la parte riservata agli Shardana, era ben esteso in tutto il Mediterraneo, ma si narra che proprio in quell’anno iniziò il suo declino, in realtà rovinoso e fulmineo.

 Fonti non accreditate recitano che il vulcano sottomarino Marsili situato a 140 km a nord della Sicilia e a circa 150 km ad ovest della Calabria, esplose causando uno tsunami che sommerse parte della Sardegna e delle coste italiane, il popolo Shardana ne fu distrutto, e non raggiunse più l’espansione precedente.
 Si è addirittura avanzata l’ipotesi che il mito di Atlantide sia nato da quell’evento. 


 Mitologia, congetture, ipotesi sono talmente legate a questo popolo che se ne potrebbe parlare per giorni, ma la verità è forse percepibile, oppure si può arrivare almeno a scartare le ipotesi più fantasiose, con il buon senso e la ricerca. 
E’ infatti poco probabile che il vulcano Marsili abbia avuto una tale eruttiva prorompenza: situato a grandissima profondità, non avrebbe mai potuto provocare un cataclisma del genere, allora come oggi. 
E’ probabile quindi che il regno dei popoli del mare,(di cui facevano parte anche gli Shardana pervenuti chissà da dove fino in Sardegna), sia finito perché fagocitato dalle altre popolazioni autoctone e dal crescente dominio greco nel Mediterraneo.


 E’ però un dato di fatto che la Sardegna attorno al X° secolo a.c. abbia conosciuto una civiltà molto sviluppata e intensa, prova ne sono anche le grandi sculture nuragiche dette “Giganti di Mont’e Prama” antecedenti ai bronzi, tra le più antiche sculture a tutto tondo rinvenute nell’area mediterranea dopo quelle egizie. 

 Fonte: mcarte.altervista.org

mercoledì 29 maggio 2019

Laguna rosa di Torrevieja: in Spagna lo spettacolare lago salato rosa


Rosa, di un rosa forte e intenso: a sud della provincia di Alicante, in Spagna, si dispiega agli occhi dei visitatori un fenomeno naturale unico. 
È l’incredibile laguna rosa di Torrevieja, 1.400 ettari rientranti nel Parco Naturale di Lagunas de la Mata e Torrevieja.
 Di questa splendida riserva naturale in Costa Blanca, infatti, fanno parte i due bellissimi laghi salati tra i più grandi d’Europa ed entrambi collegati al mare da canali: oltre alla laguna di Torrevieja, è da visitare anche la laguna La Mata, di un colore blu-verde, altro spettacolo della natura.


Dal rosa incredibile, che a volte tende al fucsia e che lascia senza fiato, le acque di Torrevieja sono in realtà il risultato di un fenomeno naturale unico prodotto da un batterio capace di rilasciare un pigmento rosato in acque ad alta concentrazione salina: nel caso della laguna rosa, 350 grammi per litro d’acqua, avvicinandosi di molto a ciò che accade nel Mar Morto.


Più precisamente, il colore rosa è dato dai pigmenti dei batteri Halobacterium, tipici degli ambienti salini estremi, ma anche da un’alga, la cosiddetta Dunaliella Salina, responsabile del colore rosso vivo del lago.

 Acque splendide da ammirare e fotografare: in esse, infatti, non ci si può immergere per motivi ambientali, per salvaguardare gli ecosistemi della laguna e anche per ragioni di sicurezza.


Anche se non ci si può tuffare nelle acque rosa, ad attendervi è uno dei percorsi a piedi o in bicicletta tra fenicotteri e più di 100 tipi di uccelli acquatici e marini.
 E non solo, da queste parti si ha a disposizione una autentica spa naturale: l’acqua che evapora è infatti ricca di sali minerali e di iodio in grado di rigenerare l’apparato respiratorio.


E, a conclusione di questo percorso spa, vi è il bagno di fango: sul fondale della laguna, anziché sabbia, troverete del fango nero che, se cosparso sul corpo, purifica la pelle e giova ai muscoli e alle articolazioni. 


 Germana Carillo

martedì 28 maggio 2019

L'incredibile visione a colori dei pesci abissali


Più in profondità vive una creatura acquatica, più primitivo sarà il suo sistema visivo: finora questo era uno dei pochi punti fermi di chi studia i pesci abissali, che sono impossibili da prelevare dal loro habitat naturale (per via della differenza di pressione, o anche per le conseguenze sulla vescica natatoria) e sono perciò poco conosciuti. 


Ci sbagliavamo: secondo uno studio pubblicato su Science, pesci che nuotano a profondità non raggiunte dalla luce solare vantano un set di geni extra per la codifica dell'opsina, una proteina presente nei bastoncelli (un tipo di fotorecettori della retina) sensibile alla luce fioca. 
Nell'uomo, questa proteina consente di distinguere le sagome in bianco e nero in situazioni di oscurità. Ma in diverse specie di pesci abissali sembra essere espressa in una varietà tale che consente di vedere a colori, distinguendo tra molteplici lunghezze d'onda anche nelle condizioni in cui noi vedremmo "nero".

 In generale, l'ultima luce si percepisce in acqua a circa 1.000 metri di profondità.
 Sotto quel limite è buio profondo, eppure gamberi, polpi, pesci e altre creature che vivono in zone più profonde sono in molti casi bioluminescenti. 
A che cosa serve segnalare così la propria presenza, se nessuno lo vede?


Per approfondire la questione alcuni scienziati dell'Università di Basilea, in Svizzera, hanno studiato le proteine della retina dei pesci abissali, analizzando i genomi di un centinaio di specie - inclusi quelli di sette pesci abissali dell'Atlantico il cui DNA era già stato codificato.

 La maggior parte di questi animali mostrava uno o due tipi di geni che codificano per l'opsina, come gran parte dei vertebrati. Tuttavia, quattro specie di pesci ne avevano almeno cinque, e una di queste, la spinosa d'argento (Diretmus argenteus) ne esibiva addirittura 38, 14 dei quali espressi ed attivi: una caratteristica completamente inedita per una creatura vivente, che oltretutto nuota a 2.000 metri di profondità.


Studiando le sequenze di amminoacidi dei vari tipi di opsina, gli scienziati sono riusciti a capire a quali lunghezze d'onda il pesce risultava più sensibile. E hanno scoperto che la spinosa sa captare diverse sfumature del blu e del verde, i colori della bioluminescenza, anche grazie a 24 mutazioni genetiche che affinano le opsine prodotte e le rendono specializzate ciascuna per un ristretto intervallo dello spettro luminoso. 

 Ognuna di queste opsine potrebbe essere specializzata nel percepire i segnali bioluminescenti che avvertono della presenza di cibo, che mandano segnali di pericolo o codificano comportamenti sociali. 

L'abbondanza di geni per le opsine si riflette nella strana composizione della retina di questo pesce, che ha bastoncelli di dimensioni e forme diverse, talvolta disposti l'uno sull'altro, per catturare diverse lunghezze d'onda. 


 Le quattro specie di pesci muniti di più opsine appartengono a diverse famiglie, e questa è la prova che la sensibilità della vista si è evoluta in modo indipendente, in risposta alle condizioni ambientali. 


 Fonte: focus.it

lunedì 27 maggio 2019

Nel 2021 riaprirà il Corridoio Vasariano


Dal 2021 il Corridoio Vasariano, ovvero i 760 metri sospesi che collegano Palazzo Pitti agli Uffizi e poi a Palazzo Vecchio, sarà aperto al pubblico, così 500mila turisti avranno la possibilità di visitare quello che viene considerato come il corridoio più famoso del mondo. I lavori costeranno 10 milioni di euro e dureranno 18 mesi per garantire la messa in sicurezza del Corridoio Vasariano, il più celebre nel panorama mondiale.


 Una volta aperto, sarà visitabile su prenotazione per un massimo di 125 persone alla volta. 
 Il corridoio potrà essere percorso in una sola e unica direzione, ovvero partendo dagli Uffizi, passando per Palazzo Pitti, fino al Giardino di Boboli e Ponte Vecchio.


 Come sappiamo, il corridoio fu ideato da Giorgio Vasari e costruito nel 1565 su volere del granduca Cosimo I de’ Medici, in occasione delle nozze del figlio Francesco insieme a Giovanna d'Austria. Ma in generale, passando sopra case e negozi, il corridoio permetteva ai granduchi di muoversi liberamente dall’allora residenza, Palazzo Pitti, fino ai palazzi del Governo, gli Uffizi e Palazzo Vecchio.


Adesso il bando di gara di Invitalia dovrà essere assegnato e subito dopo, inizieranno i lavori che costeranno 10 milioni di euro, già finanziati dal ministero e da fondi europei che garantiranno uscite di sicurezza, accessibilità per le persone disabili, illuminazione a basso consumo energetico, videosorveglianza e climatizzazione. Previsti anche interventi di consolidamento strutturale e di restauro degli interni: dagli intonaci al pavimento.


Dunque il corridoio non sarà più un percorso visitabile solo nei grandi eventi e durante le visite istituzionali e sarà pronto secondo il direttore delle Gallerie degli Uffizi, Eike Schmidt, nel 2021. 

"Sarà una passeggiata democratica accessibile con vista sul cuore di Firenze", spiega Schmidt. 

 La collezione di autoritratti che era tradizionalmente in mostra sarà sostituita da una selezione di antiche statue e iscrizioni, affreschi cinquecenteschi che originariamente decoravano le pareti esterne del Corridoio. 
Nel progetto è previsto anche un nuovo ingresso, mentre al piano terra sarà allestita la biglietteria.


Un’altra novità del progetto sono i due memoriali: uno realizzato in corrispondenza di via Georgofili per vedere il punto in cui esplose l’ordigno nel 1993 e l’altro subito dopo Ponte Vecchio per ricordare la devastazione nazista del 1944.



Dominella Trunfio
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