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martedì 10 marzo 2015

Scoperto il meccanismo che fa cambiare colore al camaleonte


I camaleonti cambiano rapidamente colore grazie ad un meccanismo “hi-tech” unico nel regno animale. 
Il segreto è nella particolare struttura della pelle di questi rettili, composta da due strati di cellule di forma diversa, e che si orientano in modo da riflettere la luce in modi differenti.
 Lo ha scoperto, e descritto sulla rivista Nature Communications, il gruppo dell’università di Ginevra coordinato da Michel Milinkovitch. 
Contrariamente a quanto succede in altri animali, che cambiano colore accumulando o disperdendo i pigmenti nelle cellule della pelle, per capire che cosa succede nei camaleonti bisogna scomodare la fotonica, ossia la disciplina che studia il comportamento della luce e la sua interazione con materiali di tipo diverso.


Trasformare il colore della pelle è, per i camaleonti, vitale per mimetizzarsi come per interagire con i loro simili.
 Questo è possibile grazie a un meccanismo mai visto finora nel regno animale e basato su un doppio strato di cellule della pelle, in ognuno dei quali le cellule hanno forme e comportamenti diversi. Le cellule dello stato superficiale si comportano in modo diverso a seconda che la pelle sia eccitata o rilassata e ricordano i cristalli fotonici. 
Questi sono strutture che esistono in natura (ad esempio negli opali o in alcune specie di farfalle) e che riescono a modificarsi, variando la velocità di propagazione della luce che li attraversa. 
Il secondo strato di cellule e’ la vera novità per gli zoologi: è il più profondo e sottile, è specializzato nel riflettere la luce solare nel vicino infrarosso e potrebbe avere soprattutto la funzione di tenere al caldo i camaleonti. (ANSA).




Fonte: blueplanetheart.it

Un'amicizia nata dalla sofferenza


Una storia commovente che giunge dal passato fino a noi, esattamente dal 2007, ambientata nel villaggio di Potok in Albania. 

Protagonisti un lupo, catturato e rinchiuso in un recinto minuscolo, e un asino vittima dello sfruttamento e della sofferenza.
 Chi ingabbiò il lupo decise fosse logico inserire un asino vivo nel suo box, una scelta data anche dall’avanzata età dello stesso non più sfruttabile ulteriormente.
 Due vittime della sofferenza imposta dall’uomo, trovatesi una di fronte all’altra in una condizione di inspiegabile sofferenza.
 Ma a dispetto delle convenzioni i due, anziché combattere e odiarsi, stabilirono un forte legame di amicizia.


Entrambi prostrati dalla condizione, decisero di fare fronte comune, forse comprendendo la condizione di reclusione imposta e di abuso. Le immagini dei due immobili nello stesso minuscolo recinto fecero velocemente il giro del mondo, anche nel tempo, fino ad arrivare ai giorni nostri. 
Un esempio lampante di come la diversità spesso non sia considerata tale, ma emerga l’empatia e la comprensione. 
Nella minuscola gabbia il lupo nascondeva il suo corpo sotto quello dell’asino, i due vicini si proteggevano a vicenda dagli occhi indiscreti dei loro nuovi proprietari.


La vicenda colpì fortemente l’opinione pubblica tanto da far partire una raccolta firme indirizzata agli organi governativi albanesi per la liberazione del lupo, quindi la salvezza dello stesso asino. 
Grazie all’impatto della protesta pubblica, il Ministro dell’Ambiente albanese impose il rilascio del lupo, mentre l’asino venne accolto in una fattoria con un verde pascolo dove potersi rilassare. 

In molti possono confermare di aver potuto assistere a svariati passaggi di un lupo che, in totale libertà, si avvicinava al recinto del pascolo per salutare e visitare l’asino.

 Come ha successivamente specificato il Ministero dell’Ambiente, la detenzione di un lupo è illegale, perché viola gli atti 20 , 21 e 23 della legge n. 9587 del 20.07.2006, dedicata alla conservazione delle biodiversità. 
Inoltre la detenzione di un animale selvatico come il lupo si scontra contro il regolamento dedicato alla protezione, la gestione della fauna selvatica e la caccia. 

 Da: greenstyle.it

La macchina Enigma ,usata dai nazisti per cifrare messaggi

Già dal tempo degli antichi Greci, gli eserciti in guerra cifravano le loro comunicazioni, nel tentativo di mantenere segreti i loro piani di battaglia. 
Di conseguenza, mentre da una parte si inventavano nuovi e ingegnosi metodi per cifrare i propri messaggi, dall’altra i nemici tentavano di spezzare i nuovi codici.
 In tal modo, nel tempo, i codici ed i sistemi di cifratura sono diventati sempre più complessi e difficili da interpretare e si è così innescata una battaglia intellettuale tra gli inventori dei codici e quelli che li volevano infrangere.

 Il confronto tra le intelligenze non fu mai così serrato come durante la seconda guerra mondiale, quando i Tedeschi utilizzarono la famosa macchina Enigma – che ritenevano indecifrabile – per codificare i messaggi, mentre gli Alleati lavoravano a Bletchley Park per forzare il loro codice.


Fino alla seconda guerra mondiale, le forme più diffuse di crittografia usavano semplici tecniche di carta e matita.
 Ma gli addetti alla sicurezza di entrambi gli schieramenti, già durante la prima guerra mondiale, sentirono l’esigenza di un maggiore livello di segretezza, da conseguire con metodi più avanzati di cifratura.
 Sia gli Alleati che i paesi dell’Asse cercarono nuovi metodi per cifrare i messaggi – per trovare un procedimento che fornisse una sicurezza totale. 
Nel 1915, due ufficiali della marina olandese inventarono una nuova macchina per cifrare i messaggi. E questa è divenuta una delle più famose di tutti i tempi: la macchina cifrante Enigma. 

Arthur Scherbius, un uomo d’affari tedesco, la brevettò nel 1918 e cominciò a venderla alle banche e alle aziende. 
Il posto di Enigma nella storia, però, venne garantito nel 1924, quando le forze armate tedesche iniziarono ad utilizzarne una versione adattata alle esigenze militari per cifrare le loro comunicazioni. E continuarono a fare affidamento su questa macchina anche durante la seconda guerra mondiale, credendo che fosse assolutamente sicura.


Come funziona?

Quando un carattere di un testo in chiaro viene battuto sulla tastiera, una corrente elettrica attraversa i vari elementi codificatori e fa accendere una lettera del testo cifrato sul “pannello luminoso”. Ma ciò che rendeva Enigma così speciale era il fatto che ogni volta che una lettera veniva battuta sulla tastiera, le parti mobili della macchina ruotavano, cambiando la loro posizione in modo che una successiva pressione del tasto corrispondente alla stessa lettera quasi certamente sarebbe stata cifrata in altro modo. 
Ciò significa che non era possibile impiegare metodi tradizionali per tentare di forzare la famigerata cifratura. 
Per rendere le cose ancor più difficili, alcune parti mobili della macchina si potevano posizionare in diversi modi ed ogni regolazione produceva una stringa di lettere cifrate sempre diversa. A meno che non si conoscessero le esatte impostazioni della macchina, non sarebbe stato possibile decifrare i messaggi.


Che cosa doveva essere impostato? 
Innanzitutto i rotori. 
Questi trasmettevano gli impulsi elettrici inviati dalla tastiera alle lampadine indicanti la lettera cifrata (o decifrata) tramite un sistema di cavetti.
 Ogni macchina aveva in dotazione cinque rotori numerati, diversi tra loro, e solo tre di questi venivano utilizzati in ogni sessione, in ordini e posizioni diverse. 
Conoscere quali rotori usare e in quale ordine e posizione era il primo passaggio per l'impostazione della macchina. 
 La combinazione di rotori e posizioni di partenza erano determinanti per la decodifica del messaggio. 
Ogni volta che veniva premuta una lettera il primo rotore a destra girava di uno scatto. 
Quando il primo rotore aveva fatto un giro intero (26 scatti, tanti quanti le lettere dell'alfabeto internazionale) era il turno del secondo rotore, che faceva a sua volta uno scatto.
 Dopo 26 scatti del secondo rotore, anche il terzo si spostava di una lettera. 

 Il sistema di cavi all'interno del rotore: i cavetti deviavano gli impulsi elettrici da una lettera a un'altra. 
Passando attraverso i rotori, gli impulsi seguivano perciò un percorso determinato dalla configurazione della macchina che portava all'illuminazione della lettera finale sul quadro delle lampadine. 
 Ogni rotore aveva 26 possibili posizioni di partenza: per decifrare un messaggio era dunque necessario conoscere la posizione di partenza dei tre rotori scelti per la macchina che aveva cifrato la comunicazione.
 Sulla mascherina frontale Enigma aveva poi un quadro di spine (chiamato killer crittografico). 
Utilizzando dei normali ponticelli elettrici era possibile creare ulteriori difficoltà all'eventuale intercettatore, perché si invertivano gli impulsi corrispondenti per alcune coppie di lettere.
 Anche l'impostazione dei ponticelli doveva essere nota al ricevente per decifrare un messaggio. 
 Tutte queste impostazioni facevano sì che un messaggio potesse essere codificato da Enigma in 150.000.000.000.000 (150 milioni di milioni) di possibili combinazioni diverse.


Come facevano due macchine, la mittente e la destinataria, a essere allineate? 
Serviva una guida. 
La foto qui sopra mostra un documento originale della Luftwaffe: la guida che veniva consegnato mensilmente ai reparti dell'esercito. Ogni riga corrisponde alle impostazioni giornaliere della macchina: ogni giorno a mezzanotte infatti la codifica cambiava.
 Erano indicati i rotori da usare, in quale ordine e con quale impostazione di partenza, e la posizione dei ponticelli. 
Senza questa guida la decifrazione era impossibile. 

 IL LAVORO A BLETCHLEY PARK


Nell’agosto del 1939 i Britannici costituirono la scuola dei codici e dei cifrari a Bletchley Park nel Buckinghamshire.

 Le persone chiamate a lavorare al progetto, erano esperti in molti settori diversi.
 C’erano esperti nella violazione dei codici, ufficiali dei servizi segreti, matematici, scienziati, esperti di parole crociate, giocatori internazionali di scacchi, attrici e perfino astrologi.
 Fortunatamente per gli addetti britannici alla decodifica dei messaggi cifrati, negli anni che precedettero la guerra, in Polonia si erano già sperimentate varie tecniche per forzare Enigma.
 Poco prima dell’invasione tedesca della Polonia, il loro lavoro venne condiviso con gli alleati britannici. 
Il governo della Polonia fu il primo a impiegare i matematici come decrittatori e le menti logiche dei matematici dimostrarono proprio quello che era necessario sapere per affrontare Enigma
 Questo vantaggio essenziale dei Polacchi, unito alle abilità per la risoluzione di problemi e le capacità intuitive delle reclute di Bletchley, portarono alla decifratura del codice Enigma all’inizio del 1940: una tecnica particolare, per decifrare Enigma, aveva avuto finalmente successo. 

I decrittatori britannici lavorarono in squadre, 24 ore su 24, per tutta la durata della guerra, usando carta e matita, come pure nuove tecnologie meccaniche appena inventate per elaborare specifiche impostazioni di Enigma, per ogni singolo giorno. Inconsapevolmente gli stessi Tedeschi aiutarono i Britannici a decifrare Enigma. 
Per esempio: I messaggi spesso cominciavano con lo stesso testo di apertura – molti cominciavano con la parola Spruchnummer (messaggio numero), e molti messaggi dell’aeronautica cominciavano con la frase An die Gruppe (al gruppo).
 Messaggi cifrati spesso riportavano informazioni di routine come rapporti sul tempo e frasi quali Kienebesondere Ereignisse (niente da segnalare). 
I messaggi spesso terminavano con Heil Hitler!

 I Tedeschi spesso trasmettevano più di una volta lo stesso messaggio, con una diversa versione di cifratura.
 Queste disattenzioni fornirono ai decifratori gli indizi, denominati cribs (mangiatoie), sul modo in cui Enigma era stato impostato quel giorno. 
Questi cribs erano essenziali per forzare i cifrari.
 Per esempio, senza un crib, ancora oggi si sarebbero impiegati parecchi mesi per decifrare un testo lungo una pagina formato A4, utilizzando un PC moderno, con procedimenti di verifica e di controllo degli errori. 
 Tuttavia, i cribs da soli non erano sufficienti.
 I decrittatori di Bletchley Park svilupparono nuove procedure e algoritmi per la determinazione della messa a punto di Enigma e svilupparono anche dispositivi di calcolo elettronico per implementare questi metodi. 
 Oggi gli storici ritengono che il lavoro dei decrittatori a Bletchley Park abbia ridotto la guerra di due anni.


Tra i più famosi violatori di codici di Bletchley Park c’era un matematico dell’università di Cambridge, Alan Turing che molti già allora consideravano un genio.
 Svolse un ruolo guida nel forzare il più complesso cifrario dell’Enigma navale (denominato shark - squalo) e contemporaneamente definì i principi che sono alla base del moderno calcolatore.
 Malgrado il loro notevole lavoro, tuttavia, per molto tempo nessuno dei decifratori di codici della seconda guerra mondiale ha ricevuto pubblici riconoscimenti, come sarebbe stato giusto.
 Per garantire la sicurezza britannica, la forzatura di Enigma è rimasto un segreto, molto protetto, per tutta la durata della guerra e per i successivi 30 anni. 
Alla gente che aveva lavorato a Bletchley Park è stato proibito di parlare di quello che avevano fatto e, di conseguenza, il loro contributo determinante per la soluzione della guerra è stato completamente dimenticato.
 Ma in questi ultimi 30 anni molte informazioni sull’incredibile storia di Bletchley Park sono state rese note. 
Tragicamente tuttavia, per qualcuno i ringraziamenti arrivano troppo tardi. Alan Turing si suicidò prima che gli fosse pubblicamente riconosciuta la sua straordinaria parte nella guerra e prima che i suoi contributi alla scienza della cifratura e decifrazione fossero completamente capiti.

 Il governo britannico ha ancora in funzione un reparto di decifrazione alla “Direzione del Ministero delle Comunicazioni” (GCHQ) in Cheltenham.
 Fa sempre affidamento sui matematici per le loro abilità e per la loro capacità logica nella soluzione dei problemi: GCHQ vanta la più alta concentrazione di matematici puri del paese. 
Gli odierni codici segreti sono molto più sofisticati della cifrante Enigma e la loro resistenza risiede nell’impossibilità di scomporre i grandi numeri in fattori, così oggi, con i timori per il terrorismo globale, il ruolo dei nostri decrittatori di codici risulta tanto importante quanto quello svolto durante la seconda guerra mondiale.

 Fonti: http://areeweb.polito.it/
           http://www.focus.it/

Un fossile suggerisce che in passato la necropoli di Giza era sommersa dal mare


Il paesaggio della necropoli di Giza, comprese le piramidi e la Sfinge, mostra segni di erosione che secondo alcuni ricercatori suggeriscono che in passato l’intera area è stata sommersa dal mare. 
 Il ritrovamento di un fossile sembrerebbe confermare questa teoria.  
La scoperta si deve all’archeologo Sherif El Morsi, il quale ha lavorato nella piana di Giza per oltre due decenni.
 Nel 2013, in collaborazione con la ricercatrice Antoine Gigal, fondatrice di Giza for Humanity, ha pubblicato i risultati della sua controversa ricerca.


La ricerca di Morsi nasce dalle intuizioni del dottor Robert M. Schloch, uno dei primi ricercatori a suggerire che le strutture della piana di Giza siano più antiche di quanto si pensi.
 Nei primi anni ’90, Schloch suggerì che i modelli di erosione trovati sulla Sfinge e sulle rocce circostanti mostravano un’età molto più antica rispetto alla datazione ufficiale, collocandola tra il 9000 e il 5000 a.C. 
 Morsi ha idealmente continuato il lavoro di Schloch andando più a fondo nella questione.
 Durante una delle sue documentazioni fotografiche dei modelli di erosione nella Piana di Giza, l’archeologo ha fatto una scoperta che potrebbe indicare che l’intera zona è stata una volta sommersa dalle acque del mare.
 «Durante il mio servizio fotografico, sono quasi inciampato in un blocco di pietra», racconta Morsi in un articolo pubblicato su Gigal Research. 
«Con mia grande sorpresa, il rigonfiamento sulla superficie mostrava le sembianze di un esoscheletro pietrificato di quello che sembrava essere un echinoidea (riccio di mare), una creature che vive in acque marine poco profonde».


Secondo Morsi, il fossile sarebbe la prova che la Piana di Giza ha subito una catastrofica inondazione, rimanendo per qualche tempo sommersa dalle acque del mare.
 Il sito dove si trova la Piramide di Micerino, in particolare, potrebbe essere stata un’antica laguna quando il livello del mare copriva la Necropoli di Giza, compresa la Sfinge e le Piramidi. Tuttavia, analizzando il fossile, alcuni scienziati hanno suggerito che l’echinoidea stessa è stata esposta ad erosione, dunque potrebbe già far parte della roccia calcarea originale formatasi circa 30 milioni anni fa.
 Come spiega The Epoch Times, Morsi ha contestato queste conclusioni, convinto che la creatura si è pietrificata in un tempo relativamente più recente, spiegando che si tratta di un grosso esemplare ben conservato, a differenza dei piccoli campioni che in genere si trovano nei blocchi di calcare.
 «Possiamo vedere chiaramente le condizioni originarie e i dettagli minuti della perforazione dell’esoscheletro», spiega Morsi, «il che significa che questa creature marina deve essersi pietrificata in tempi recenti.
 Non mostra le caratteristiche della maggior parte dei fossili risalenti a 30 milioni di anni fa. I depositi di sedimenti ne hanno riempito la parte cava».


Secondo Morsi, l’inondazione deve essere stata piuttosto significativa, raggiungendo un livello massimo di 75 metri sul livello attuale del mare, creando un litorale che attraversa il recinto della Piramide di Chefren, vicino alla Sfinge, fino ad arrivare alla Piramide di Micerino.
 L’erosione riscontrata sulle rocce mostra i tipici segni causati dalle onde e dal riflusso delle maree.
 Inoltre, siti come la Sfinge, il Tempio della Sfinge e i primi 20 livelli della Grande Piramide mostrano sedimenti di materiale alluvionale tipici dei fondali poco profondi e delle lagune.
 Il ritiro delle acque crea un effetto spugnoso nella roccia.


L’echinoidea scoperta da Morsi ha un diametro di circa 8 centimetri.
 Per raggiungere tale dimensione, in genere questo organismo marino impiega circa 15 anni.
 Inoltre, la quantità di sedimenti e depositi alluvionali, nonché la qualità dell’erosione nelle zone meno profonde, richiederebbero diversi secoli, suggerendo che la zona è rimasta sommersa per diverso tempo. 
 Tuttavia, rimane difficile determinare l’anno esatto delle inondazioni.
 Secondo i dati forniti dal CSIRO Marine and Atmospheric Research, negli ultimi 140 mila anni, i livelli del mare hanno oscillato per più 120 metri, seguendo la crescita e il ritiro delle grandi calotte durante i cicli glaciali. 


 Fonte: ilnavigatorecurioso.it

venerdì 6 marzo 2015

La Fuente Magna


Uno dei reperti archeologici più controversi trovati in Sud America è certamente il Vaso Fuente Magna, un grande recipiente in pietra, simile ad una ciotola per eseguire libagioni e riti purificatori.

 Il manufatto venne consegnato nel 1960 dalla famiglia Manjon al municipio di La Paz.
 Il Fuente Magna, infatti, venne scoperto anni prima da un contadino in un terreno di proprietà della famiglia nei pressi di Chua, a circa 70 km da La Paz, vicino al Lago Titicaca.
 Il manufatto è rimasto nel deposito del “Museo de los metales preciosos” per 40 anni.

 Il reperto è tutt’ora oggetto di un accesso dibattito tra i ricercatori, in quanto presenta delle incisioni che sfidano l’attuale conoscenza della storia antica del nostro pianeta. 
 Nella parte esterna della ciotola sono presenti alcune incisioni zoomorfe simili a quelle riscontrate nel sito di Tiahuanaco, mentre all’interno sono presenti figure zoomorfe o antropomorfe, a seconda dell’interpretazione. 
 Inoltre, sempre al suo interno, il vaso presenta due testi differenti, uno scritto in “quellca ”, l’antica lingua dei Pukara, precursori della civiltà di Tiahuanaco, e l’altro scritto in caratteri cuneiformi, in quello che è stato individuato come proto-sumero!


Uno dei primi studiosi che si dedicò alla decifrazione delle incisioni sul Vaso Fuente fu l’archeologo boliviano Max Portugal Zamora, il quale eseguì alcuni piccoli lavori di restauro. 
Tuttavia, il suo sforzo di tradurre la misteriosa scrittura incisa all’interno del vaso fu coronato dall’insuccesso.
 Bisognerà attendere la fine del XX secolo perché il Fuente Magna torni ad interessare la curiosità degli studiosi. 

Nel 2000, gli archeologi Freddy Arce, boliviano, e Bernardo Biados, argentino, si sono recati a Chua, località situata a nord del lago Titicaca, per chiedere informazioni ad alcuni nativi di lingua Aymara al fine di scoprire la vera origine del vaso Fuente.

 In un primo momento, i due ricercatori non riuscirono ad ottenere più informazioni di quante già possedevano, né riuscirono a reperire i discendenti della famiglia Manjon che sembravano scomparsi nel nulla. 
 Dopo numerosi tentativi, finalmente incontrarono un anziano nativo di 92 anni, un certo Maximiliano, il quale, dopo aver visto una foto, riconobbe il Fuente Magna etichettandolo in spagnolo come “el plato del Chanco”, ovvero la ciotola utilizzata per dar da mangiare ai suini.

Maximiliano spiegò che la ciotola si trovava nel villaggio molti anni fa e che nessuno la riteneva importante fino a quando un uomo non la portò via, forse dietro pagamento.
 Successivamente, il manufatto fu ceduto al municipio di La Paz. Sembra incredibile che uno degli oggetti più importanti di tutta la storia umana sia stato utilizzato come ciotola per nutrire i maiali. Arce e Biados cominciarono uno studio approfondito del manufatto, giungendo alla conclusione che probabilmente si trattava di un oggetto utilizzato in tempi antichi nell’ambito di cerimonie religiose di purificazione.
 I ricercatori scattarono altre foto dell’oggetto che mandarono al famoso epigrafista americano Clyde Ahmed Winters, il quale decifrò le enigmatiche iscrizione incise all’interno del vaso, riconoscendone caratteri proto-sumerici. 

 Come riporta l’articolo di Yuri Leveratto, la traduzione dell’iscrizione suona così:

 «Avvicinati nel futuro ad una persona dotata di grande protezione nel nome della grande Nia. Questo oracolo serve alle persone che vogliono raggiungere la purezza e rafforzare il carattere. La Divina Nammu (o Namma) diffonderà purezza, serenità, carattere. Usa questo talismano (la Fuente Magna), per far germogliare in te saggezza e serenità. Utilizzando il santuario giusto, il sacrario unto, il saggio giura di intraprendere il giusto cammino per raggiungere la purezza e il carattere. Oh sacerdote, trova l’unica luce, per tutti coloro che desiderano una vita nobile». 

 Secondo la mitologia sumera, Nammu (o Namma) è la dea sumera della creazione. Nel mito della creazione babilonese Enûma Elish, basato su un precedente mito sumero, Nammu è la dea primordiale del mare che diede vita al paradiso, alla terra e ai primi dei.



Gli altri simboli incisi sul vaso, ritenuti essere scritti in lingua quellca, l’antica lingua scritta della civiltà Pukara, non furono decifrati. 
All’esterno del manufatto figurano bassorilievi attribuiti alla cultura di Tiahuanaco: un pesce ed un serpente.


Il punto che però confonde i ricercatori è capire come sia possibile trovare iscrizioni proto-sumeriche su un manufatto trovato nei pressi del lago Titicaca, a circa 3800 metri sul livello del mare e a migliaia di chilometri dall’area geografica dove sorsero e vissero i Sumeri.

 L’ipotesi più plausibile, ma tutta da dimostrare, è che i Sumeri fossero in grado di compiere navigazioni transoceaniche.
 È noto che i Sumeri navigassero i fiumi Tigri ed Eufrate, ma le abilità marittime di questo antico popolo sono meno attestate.
 È possibile che uno dei porti utilizzati dai navigatori sumeri si trovasse sull’isola di Bahrain, dove recenti scavi hanno portato alla luce i resti di un porto commerciale in funzione nel terzo millennio a.C. 

 Sono molto meglio attestate le conoscenze sulla navigazione dei Fenici e Cartaginesi, i quali circumnavigarono l’Africa già nel primo millennio prima di Cristo. 
Leveratto ritiene possibile che questi popoli di navigatori abbiano ereditato le loro conoscenze dai Sumeri. 
 Secondo Bernardo Biados, infatti, i Sumeri circumnavigarono l’Africa nel terzo millennio prima di Cristo, spingendosi fino a Capo Verde, dove non riuscirono a proseguire verso nord a causa dei venti contrari.
 I naviganti furono costretti a procedere verso ovest alla ricerca di venti favorevoli, tanto da spingersi fino alle coste del Brasile. 
Da questo punto hanno esplorato l’intero continente risalendo gli affluenti del Rio delle Amazzoni. 

 In questo modo, i Sumeri potrebbero aver raggiunto le Ande, probabilmente intorno al 3 mila a.C., entrando in contatto con la civiltà Pukara.
 È possibile che la civiltà sumera abbia in qualche modo influenzato i popoli antichi del Sud America, sia dal punto di vista religioso che del linguaggio. E, in effetti, alcuni linguisti hanno trovato molte somiglianze tra le lingue proto-sumeriche e l’aymara.  Tornando a casa, alcuni navigatori sumeri portarono con sé alcune foglie di cocco, che poi saranno ritrovate anche nelle mummie di alcuni faraoni egiziani.
 Dunque, il Fuente Magna attesterebbe l’esistenza di traversate transoceaniche già nel terzo millennio a.C., circostanza che sarebbe confermata anche dal Monolito di Pokotia.


La conferma a queste ipotesi potrebbe arrivare da un’approfondita ricerca interdisciplinare che dovrebbe coinvolgere studi genetici, archeologici, linguistici ed epigrafici.
 Solo così sarà possibile ridisegnare una mappa reale delle straordinarie capacità dei nostri antenati che ancora non riusciamo pienamente ad afferrare.


 Fonte: http://www.ilnavigatorecurioso.it

L'Everest e' coperto di rifiuti ed escrementi umani


L'Everest è coperto di rifiuti e escrementi umani.
 Si tratta di ciò che resta dopo le arrampicate. 
Sta diventando un serio problema ambientale, dato che provoca inquinamento e minaccia la diffusione di malattie. 

 A renderlo noto è l'associazione per la protezione delle montagne nel Nepal.
 La quantità di feci e di urine che interessano l'Everest dopo che centinaia di guide e scalatori spendono alcune settimane sulle pendici è davvero improponibile e problematica. 
Il Governo del Nepal ha la necessità di chiedere a scalatori e escursionisti di provvedere a mantenere l'ambiente pulito.
 Centinaia di scalatori si avventurano sull'Everest ogni anno nel periodo migliore, tra marzo e maggio, spostandosi tra i campi allestiti tra 5000 e oltre 8000 metri di altezza.




I campi di sosta hanno tende e alcune attrezzature essenziali, ma non hanno toilet. 
Ecco allora che gli escursionisti si trovano ad arrangiarsi scavando buche nella neve.
 Il campo base è attrezzato con contenitori per i rifiuti che poi vengono trasportati altrove e correttamente smaltiti ma non sarebbe così man mano che ci si avvicina alla cima dell'Everest. 

Dawa Steven Sherpa, che ha guidato spedizioni di pulizia sull'Everest nel 2008, ha suggerito che alcuni alpinisti potrebbero portare con sé in viaggio dei sacchetti igienici da utilizzare nei campi superiori.
 La questione deve essere affrontata, dato che viene descritta come un pericolo per la salute e per l'ambiente.
 Il Governo lo scorso anno ha già richiesto agli scalatori di ridurre i propri rifiuti presso il campo base di 8 kg. 
Ma come risolvere il problema negli altri campi? 
Per il momento pare che le squadre di Climbing dovranno lasciare un deposito di 4000 dollari prima di partire, che perderanno se non si comporteranno in conformità con le norme per i rifiuti.

 Sarà possibile mantenere l'Everest più pulito? 

 Marta Albè

I resti di un'antica civiltà precolombiana sono stati rinvenuti nella foresta della Mosquitia: potrebbe trattarsi della leggendaria Ciudad Blanca del Dio Scimmia


Antiche leggende del Centro America raccontano della Ciudad Blanca (Città Bianca), qualche volta chiamata Città del Dio Scimmia, nascosta da qualche parte in Honduras, nella regione della Mosquitia, la più grande foresta pluviale a nord dell'Amazzonia.

 Le leggende sono però adesso qualcosa di più che racconti tramandati di generazione in generazione: una spedizione guidata da Chris Fisher, antropologo della Colorado State University, ha infatti trovato i resti di una misteriosa civiltà proprio nella Mosquitia. 
 Come di consueto nel caso di importanti ritrovamenti, l'esatta posizione del sito archeologico è top secret, per evitare saccheggi. Ciò che trapela dal dipartimento di antropologia dell'università è che si tratta di una delle aree più inaccessibili e incontaminate del Centro America, sul versante orientale dell'Honduras.

 Dell'antica città sono venuti alla luce finora pochi frammenti: il team di ricerca, composto da archeologi honduregni oltre che statunitensi, ha trovato blocchi di pietra, apparentemente tagliati a mano, e 52 oggetti parzialmente sotterrati che sono, forse, indizio di un rituale.
 Gli studiosi confidano di fare ulteriori scoperte scavando più in profondità. 
 Tra i reperti più interessanti c'è quello che è stato battezzato il giaguaro mannaro: «Una figura che sembra indossare una specie di casco», commenta Fisher, che potrebbe rappresentare uno sciamano in stato di trance nel mondo degli spiriti.


Della Città Bianca parlò il conquistador Hernàn Cortés nelle sue scorribande cinquecentesche e forse la sorvolò anche Charles Lindbergh nel 1927, ma nessuno la trovò mai, perciò la sua esistenza è finora rimasta confinata nella mitologia.

 Oggi si stima che l'ignota civiltà precolombiana, cui gli studiosi non hanno ancora dato un nome, abbia prosperato nella Mosquitia dal 1000 d.C. al 1400, per poi scomparire per cause ancora da chiarire.
 L'isolamento della città è stato tale che, secondo Fischer e i suoi colleghi, dall'epoca dell'abbandono (circa 600 anni fa), nessuno ci ha mai messo più piede.
 Questa tesi è supportata anche dalla straordinaria diversità biologica che caratterizza l'intera zona e dal fatto che molti animali hanno dimostrato, con il loro comportamento curioso e disinvolto, di non aver mai visto prima un essere umano.


Lo straordinario ritrovamento non è il frutto di una caccia alla cieca o di un evento fortunoso. 
Il primo indizio risale al 2012, durante una ricognizione aerea di una valle a forma di cratere della Mosquitia, e sulla base di quello gli sforzi dei documentaristi Steve Elkins e Bill Benenson hanno poi permesso di localizzare il sito.
 Grazie alla collaborazione con il Center for Airborne Laser Mapping della University of Houston, che ha contribuito alle ricerche con la tecnologia Lidar (Laser Imaging Detection and Ranging, la stessa usata da Google per Street View), è stato possibile mappare la foresta pluviale e identificare i segni lasciati dalla civiltà scomparsa, come le tracce di un intervento umano sulle sponde del fiume e le cicatrici lasciate sul terreno da antichi edifici.  La spedizione ha poi confermato le interpretazioni avanzate sulle immagini Lidar. 

Il lavoro dei ricercatori è però solo agli inizi.
 La Città Bianca, se di questa si tratta, potrebbe rivelare una verità ancora più grande: secondo gli studiosi potrebbe infatti trattarsi solo del primo di una serie di insediamenti perduti, che dimostrerebbero l'esistenza di una grande civiltà che ha presidiato il territorio del Centro America a est dei Maya, rimasta finora sconosciuta per cause ancora tutte da capire.


fonte: www.focus.it
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