web

venerdì 29 aprile 2016

Anping Bridge, il suggestivo ponte di pietre in Cina


Tra Jinjiang County e Nan'an County, a ovest della città di Fuzhou in Cina, c’è l’ Anping Bridge, un ponte costruito nel 12esimo secolo con enormi blocchi di pietra.
 L’Anping Bridge è conosciuto anche come ponte Wuli e fino al 1905 è stato il più lungo della Cina. 
Esso fu edificato tra il 1138 e il 1151 durante la dinastia Song e si compone di 331 campate di travi di granito che pesano 25 tonnellate ciascuna. 
 L’Anping Bridge è caratteristico perché visivamente è molto suggestivo, grazie anche alla pagoda di cinque piani, alla fine del percorso.






In origine era ancora più lungo, ma a causa dell’insabbiamento l’Anping Bridge è stato accorciato di circa 150 metri. 
Dei cinque padiglioni oggi ne rimane solo uno e il ponte è un sito storico protetto dal governo cinese, mentre nell’area circostante sono in corso i lavori per la costruzione di un parco pubblico.

 Dominella Trunfio

“Siate allegri, godetevi la vita”


Un team di archeologi ha scoperto nei giorni scorsi nella Turchia meridionale un antichissimo mosaico risalente all’epoca greca, datato al III° secolo a. C. quindi a 2.400 anni fa. 

Tutto è iniziato grazie ai lavori per realizzare la nuova funivia di Antiochia, antichissima città della Turchia meridionale, al confine con la Siria sulle rive del fiume Oronte, nell’estremità orientale del mar Mediterraneo.
 Antiochia oggi conta 350 mila abitanti ma in passato è stata una delle più grandi metropoli, fortemente influenzata prima dalla civiltà egizia e poi da quella ellenistica, in cui divenne una super potenza tra le più importanti del mondo sia dal punto di vista militare che economico e commerciale. 
Fu poi distrutta dal terremoto del 525 d.C. e quando, dopo 15 anni, venne conquistata dai persiani, iniziò un lento declino che ne ridimensionò l’importanza. 

 Ancora oggi, però, è uno dei luoghi più importanti per gli archeologi di tutto il mondo.
 Nei giorni scorsi l’ennesima straordinaria scoperta. Un bellissimo mosaico greco risalente a 2.400 anni fa secondo l’archeologo del Museo Archeologico di Hatay Demet Kara.


Nel mosaico si può osservare uno scheletro adagiato all’indietro con un boccale in mano e a fianco una brocca di vino e una pagnotta di pane.
 Intorno alla figura una scritta in greco antico che recita: “Siate felici, godetevi la vita”. 
 Gli esperti ritengono che il mosaico potesse decorare il pavimento di una sala da pranzo di un’abitazione di una famiglia nobile nel cuore di Antiochia. 
Sarebbe una copia più pregiata e raffinata dell’opera “Lo Scheletro Spericolato“, già nota perché scoperta da tempo in un’altra versione nell’area vesuviana seppur meno recente.
 Anzi. Probabilmente quella partenopea era proprio una copia di questo mosaico che potrebbe essere l’originale storico.

 Fonte: meteoweb.eu

giovedì 28 aprile 2016

I delfini hanno un linguaggio che li aiuta a risolvere i problemi insieme


«Anche se molte specie si sono dimostrate in grado di cooperare per raggiungere obiettivi comuni, il ruolo della comunicazione nella cooperazione ha ricevuto relativamente poca attenzione», parte da qui lo studio “Acoustic behavior associated with cooperative task success in bottlenose dolphins (Tursiops truncatus)”.che team di ricercatori di Dolphins Plus e dell’università del Southern Mississippi ha pubblicato su Animal Cognition e che sottolinea che «L’analisi della comunicazione tra i partner è fondamentale nel determinare se le azioni sono davvero cooperative piuttosto che fortuite o apprese tramite tentativi ed errori»

 I ricercatori statunitensi evidenziano che «I cetacei selvatici spesso producono suoni durante il foraggiamento cooperativo, il gioco, e l’accoppiamento, ma il ruolo di questi suoni a eventi cooperativi è in gran parte sconosciuto», per questo hanno studiato comunicazione acustica tra due tursiopi (Tursiops truncatus) maschi mentre collaboravano ad aprire un contenitore e dicono che le analisi dei fischi, degli “impulsi burst” e delle bi-fonazioni avvenuti in quattro contesti – senza contenitore, nessun animale che interagisce con il contenitore, un animale che interagisce con il contenitore, e due animali che interagiscono con contenitore – «ha rivelato che il livello complessivo di produzione di suono è significativamente aumentata durante le interazioni con contenitore. 

I livelli di produzione di suono sono stati significativamente più alti anche durante i successi cooperativi che durante i successi da solista, suggerendo che il coordinamento degli sforzi, piuttosto che l’apparato stesso sia responsabile dell’aumento della fonazione. Il tipo di suono più comune durante successi della cooperazione sono stati segnali ad “impulsi burst”, simili alle registrazioni passate di eventi di cooperazione nei tursiopi». 

 La giovane biologa Holli Eskelinen, vice-direttrice per la ricerca di Dolphins Plus e il suo team hanno presentato a un gruppo di 6 delfini in cattività un contenitore chiuso pieno di cibo.
 Il contenitore poteva essere aperto solo simultaneamente tirando una corda alle due estremità.
 I ricercatori hanno condotto 24 test con il contenitore metallico, durante il quale erano presenti. tutti e 6 i tursiopi, solo 2 di loro non sono mai riusciti a risolvere il problema e a raggiungere il cibo.
 La coppia di tursiopi che ha avuto più successo è riuscita ad aprire il contenitore 20 volte di seguito in soli 30 secondi.


Negli altri 4 test, uno dei delfini è riuscito a risolvere il problema da solo, ma questo è stato molto più difficile e ha richiesto più tempo. 
 «Ma, – come scrive su New Scientist Robin Wylie – la vera sorpresa è arrivata dalle registrazioni delle vocalizzazioni fatte dai delfini hanno fatto durante l’esperimento.
 Il team ha scoperto che quando i delfini lavoravano insieme per aprire il contenitore, facevano più vocalizzazioni di quelle che facevano durante l’apertura del contenitore da soli o quando il contenitore non era presente o quando non c’era nessuna interazione con il contenitore in piscina».
 In particolare, i ricercatori sono stati in grado di dimostrare che l’aumento delle “chiacchiere” era direttamente correlato al compito di aprire il contenitore e non alle normali interazioni sociali tra i delfini. 
 Durante i test, quando uno dei tursiopi apriva il contenitore da solo, uno o più degli altri delfini erano presenti nelle vicinanze, monitorandone l’attività, ma in queste occasioni non c’è stato nessun aumento delle “chiacchiere” e il team di ricercatori ha concluso che «L’aumento degli scambi vocali durante l’apertura contenitore in comune è legato al compito stesso, e non alla presenza di un altro delfino».

 La Eskelinen ha detto che «Questa è la prima volta che possiamo dire in maniera definitiva che le vocalizzazioni dei delfini sono state utilizzate per risolvere un compito cooperativo». Diversamente dalla maggior parte delle vocalizzazioni dei delfini, i cosiddetti “impulsi burst” emessi dai delfini sono udibili agli esseri umani, «Sapevamo già che i delfini utilizzano gli “impulsi burst” durante l’interazione sociale e l’ecolocalizzazione – dice Leigh Torres , un ecologo marino della Oregon State University che non ha partecipato allo studio – questi nuovi risultati suggeriscono che gli “impulsi burst” possono avere un altro scopo sofisticato. 

Questo studio dimostra chiaramente che i delfini utilizzano la comunicazione vocale per risolvere insieme i problemi. 
I risultati puntano verso la possibilità di un linguaggio dei delfini che consente loro di risolvere i problemi in team».

 Fonte: greenreport.it

Fontane e camelie: la stupenda villa Aldobrandini riapre i cancelli nel cuore di Roma




Era stata chiusa nel 2013 per gli interventi di restauro e la messa in sicurezza, ma in questi giorni è tornata a risplendere nel cuore di Roma. 
 Parliamo di Villa Aldobrandini, il giardino pensile seicentesco, vicino al Rione Monti e in prossimità dei Mercati di Traiano. 

Acquisita dagli Aldobrandini, la Villa ospita antichi marmi e notevoli dipinti, ma è sicuramente la ricca vegetazione a dare un tocco in più a questo splendido giardino purtroppo poco conosciuto.
 Dal 1926, Villa Aldobrandini è proprietà dello Stato, proprio in quegli anni, durante i lavori di rimodernamento fu scoperto un vasto complesso archeologico. 

 Oggi i suoi cancelli si sono riaperti grazie alla Sovrintendenza Capitolina con il recupero delle antiche fontane da anni senza acqua, il rinnovo degli arredi, il ripristino dell’impianto di irrigazione, il rifacimento della pavimentazione e la sistemazione dei sentieri.








E ancora il restauro di marmi antichi, delle basi che sorreggono le statue del giardino e il recupero degli elementi architettonici deteriorati dei padiglioni.
 Il Servizio giardini si è invece occupato della parte botanica, per anni vittima di incuria e vandalismo.
 Villa Aldobrandini ospita infatti numerose specie di alberi e fiori, tra cui le camelie piantate da oltre cento anni.


In area archeologica gli interventi - che non sono ancora conclusi - hanno permesso la messa in sicurezza di murature e aree a rischio. Il giardino pensile è stato poi dotato di un sistema di videosorveglianza per evitare che gli spiacevoli episodi passati si ripetano. 

 Un’altra parte di verde storico riconsegnato alla città, per il quale l’Amministrazione si sta attivando per trovare un’adozione. 
La proposta è stata già avanzata alla Banca d’Italia che ha mostrato la disponibilità ad accoglierla, ha dichiarato Sabrina Alfonsi, presidente del Municipio Roma I Centro durante l’inaugurazione. 

L'auspicio adesso è questo bell'angolo della Capitale non torni nel degrado.

 Dominella Trunfio

mercoledì 27 aprile 2016

Kiribati, viaggio sull’isola che non ci sarà


Viaggio sull’isola che non ci sarà. Per vedere. Toccare. Scoprire. 
E un giorno poter descrivere ai proprio nipoti quel lembo di terra su cui, a dire degli scienziati, già incombe la data di scadenza.

 14.769 chilometri: sono quelli percorsi da Andrea Angeli, architetto bresciano di 32 anni, e Alice Piciocchi, milanese di 31 anni con in tasca una laurea in design industriale, che zaino in spalla hanno ruotato il mappamondo e si sono diretti a Kiribati, nazione della Micronesia a rischio d’estinzione. 

 «Secondo molti studiosi il destino di quel Paese è segnato - spiega Andrea -. Non si sa se tra 20, 50 o 100 anni, ma l’innalzamento dell’oceano e le alluvioni causate dai cambiamenti climatici faranno sì che le isole saranno sommerse.
 Siamo partiti per documentare: un’esplorazione durata due mesi, finanziata con il crowdfunding, per raccogliere testimonianze, degli uomini e della natura».

 Repubblica indipendente dal 1979, Kiribati si sviluppa a cavallo dell’equatore su 32 atolli, di cui solo venti abitati, sparpagliati su una vastissima area di oltre 3,5 milioni di chilometri quadrati di Pacifico a nord delle Fiji. 
E proprio nelle Fiji, a Vanua Levu, l’ex presidente Anote Tong ha acquistato dalla Chiesa Anglicana venti chilometri quadrati di terreno, prospettando un esodo di massa per i centomila abitanti, nell’eventualità che le previsioni dei climatologi si avverassero.




«Prima di organizzare il viaggio ho scritto al premier in persona, raccontando della nostra spedizione - racconta Alice -. 
La sua segreteria ci ha risposto nel giro di pochi giorni, e arrivati sul posto abbiamo avuto l’occasione di andare a visitare qualche ministro. 
Ci hanno confermato che il progetto di traslocare la nazione è ancora in essere e stanno verificandone la fattibilità.
Ci aspettavamo una popolazione in preda al panico e spaventata dal futuro: in verità ci siamo trovati in mezzo a uomini e donne che stanno vivendo un periodo molto confuso, dove passato e presente faticano a convivere. Dove l’equilibrio tra tradizione e innovazione è fragile e contraddittorio».

 La pesca e la copra, la polpa essiccata del cocco, sono tra le fonti principali di reddito. 
Poco turismo, piccoli negozi tra i quali iniziano a spuntare i primi discount, scarsa acqua potabile e lattine di Coca Cola mostrate come trofei, uomini a piedi scalzi che ostentano tablet e smartphone.
 E ancestrali credenze che punteggiano la quotidianità di chiunque: guaritori che leggono le foglie, donne che con il loro canto attirano le balene a riva, «tetia borau», ovvero «lettori di nuvole» in grado di interpretare il cielo come fosse un libro aperto, e ritualità di magia bianca e nera che vanno a braccetto con i dettami delle tante Chiese presenti nel territorio.






«L’avvento di Internet, l’influenza di nazioni vicine come le Fiji o le Isole Marshall, la presenza di persone che si spostano verso l’Australia o la Nuova Zelanda per poi ritornare dopo qualche anno a Kiribati, sta dando al progresso un’accelerazione non controllata. Non hanno in mano gli strumenti per gestire quello che sta accadendo. 
Della loro ipotetica «fine del mondo» non sono però particolarmente preoccupati: da tremila anni vivono un rapporto inscindibile con l’acqua e con la terra, il mare che fornisce il pesce e la terra che offre il cocco e lo spazio per allevare qualche animale. Non riescono nemmeno a contemplare l’idea che la natura si possa ribellare».

 Benché i segni già si vedano: frequenti tifoni, alberi che muoiono bruciati dal sole, l’acqua potabile diventata improvvisamente più salata. 
Un ambiente naturale a rischio, anche a causa dei comportamenti degli indigeni, come l’atavica abitudine di andare a defecare in mare o di seppellire i morti in cortile, spesso vicino ai pozzi. 
O, ancora, la moderna usanza di gettare davanti all’abitazione le confezioni di plastica di caramelle o patatine così da dimostrare ai vicini uno status di benessere superiore, fregandosene delle regole di raccolta dei rifiuti.


«Prima di andarmene ho chiesto al padre della famiglia che ci aveva ospitato cosa avrebbe portato con sé in una sorta di Arca di Noè verso il nuovo mondo. 
Mi ha risposto che le sue uniche proprietà sono la capacità di pescare, di tessere reti e di lavorare il cocco.
 Capacità che altrove sarebbero state inutili: quindi lui non avrebbe mai abbandonato la sua bwuia, la sua capanna. 

Questo, in fondo, è lo spirito di Kiribati».

 Fonte: lastampa.it

martedì 26 aprile 2016

William Shakespeare, chi era davvero il grande poeta?


Scaltro e ignorante paesanotto, socio di una fortunata associazione letteraria, o geniale autore dei drammi e dei sonetti che resero grande la letteratura inglese elisabettiana?
 Sono passati 400 anni dalla sua morte, eppure i misteri che avvolgono William Shakespeare (nato nell'aprile del 1564 a Stratford-upon-Avon e morto il 23 aprile 1616) continuano a infiammare accademici e studiosi.
 E il fatto che su di lui esistano solo pochissimi documenti non fa che aumentare la curiosità: il figlio del guantaio di Stratford-upon-Avon fu davvero l’autore di opere immortali come Romeo e Giulietta, il Mercante di Venezia, Otello? 
O il Dante d’Inghilterra è solo quella che lo scrittore Henry James definì nel 1903 “la più grande e più riuscita frode che sia mai stata realizzata nei confronti di un mondo paziente”?

 La più fedele alle fonti resta la lapidaria biografia del critico letterario settecentesco George Steevens: 
“Nacque a Stratford-upon-Avon, si fece là una famiglia, andò a Londra, fece l’attore e lo scrittore, tornò a Stratford, fece testamento e morì”. 
Il resto solo ipotesi. 
Persino il suo volto resta un mistero: i dipinti e le sculture che lo raffigurano furono realizzati solo dopo la sua morte, da artisti che mai l’avevano conosciuto. 
Con una sola eccezione: il busto sul suo monumento funebre, fatto costruire dal genero nella chiesa della Santissima Trinità a Stratford, tra il 1616 e il 1622.


Shakespeare vi appariva accigliato, con barba e baffi all’ingiù, le mani appoggiate su un sacco di grano. 
O almeno questo è ciò che si vede nei due disegni che ritraggono l’originale prima che venisse modificato, nel 1720, quando i critici ne avevano fatto il più importante autore della letteratura inglese. Allora il poeta assunse i lineamenti dell’uomo raffinato con il pizzetto che conosciamo: nella mano destra gli fu messa una penna d’oca, nella sinistra un foglio di carta. 

 Eppure il William dei documenti giudiziari e commerciali, gli unici finora rinvenuti, era molto più simile al rozzo commerciante barbuto: all’Università di Aberystwyth (Galles) si è scoperto che comprava grano durante le carestie per rivenderlo a caro prezzo, che era un usuraio e un evasore fiscale. 
 Questa mancanza di spirito filantropico è confermata dal suo testamento: nell’atto William non nomina alcun patrimonio librario, né fa accenno alle sue opere.
 Si concentra invece sui beni materiali, destinando alla moglie Anne Hathaway “il secondo letto con il mobilio”.
 Da qui nascono le speculazioni sul matrimonio infelice di Shakespeare. 
Chi vuol difendere l’onore del poeta, ricorda che all’epoca in una casa inglese il primo letto era quello degli ospiti, il secondo quello maritale: l’eredità sarebbe stata quindi un romantico ricordo della loro unione. 
Come il sonetto 145, in cui il verso “hate away”, letteralmente “lontano dall’odio”, richiamerebbe il cognome della moglie, cui sarebbe dedicato.
 Le malelingue invece notano che quando la coppia si sposò (1582), Anne era già incinta della primogenita Susannah e che, forse, il suo era stato un matrimonio riparatore.
 Sappiamo poi che, dopo l’ulteriore nascita di due gemelli (1585), Shakespeare lasciò Stratford: pare lo avesse fatto per sfuggire al processo intentatogli da un signorotto che lo aveva pizzicato mentre cacciava di frodo (o, forse baciava la figlia del guardacaccia) nella sua proprietà.
 Comunque siano andate le cose, è da questo momento che si perdono le sue tracce: come trascorse i cosiddetti “anni perduti”, tra il battesimo dei figli e la sua comparsa sulle scene londinesi (1592)? 

 Le alternative ipotizzate dagli studiosi sono diverse: si aggregò a una delle compagnie teatrali capitate a Stratford intorno al 1587, cominciando così la sua carriera da attore, o impiegò quel tempo per farsi una cultura (sempre ammesso sapesse scrivere, come obiettano alcuni esperti che hanno studiato a fondo la sua firma)? «Più probabilmente, arruolatosi volontariamente o coscritto, dovette attendere la fine delle ostilità tra l’Inghilterra e i Paesi cattolici prima di trovarsi una qualsiasi occupazione a Londra, si presume nel 1589», afferma Corrado Panzieri, studioso di Shakespeare.
 Come scrisse nel XVIII secolo uno dei suoi biografi, l’inglese Robert Shiels, William “era un giovane ridotto sul lastrico, che si guadagnava da vivere a Londra prendendosi cura dei cavalli dei gentiluomini che si recavano a teatro”.
 Shiels però aggiunge che, colpiti dalla sua parlantina, alcuni attori lo avrebbero raccomandato ai gestori del teatro, dandogli l’occasione di calcare finalmente le scene e di ottenere la fama, “più come scrittore che come attore”.
 Nella capitale sarebbe rimasto fino al 1613, ma allora perché non intrattenne con i colleghi letterati scambi epistolari, allora diffusi quanto lo sono ora i post di Facebook? E perché alla sua morte nessuno scrisse un elogio funebre in sua memoria?
 Viene proprio da chiederselo: Shakespeare fu davvero il celebrato autore elisabettiano? 
Troppi dati non tornano, dicono gli esperti di ieri e di oggi. 
E infatti, fin dalla metà dell’Ottocento, gli studiosi hanno pensato di intravvedere fior di papabili autori nascosti dietro quel nome: fra i più famosi il filosofo Francis Bacon, lo scrittore Christopher Marlowe, il colto Edward de Vere conte di Oxford, la contessa Mary Sidney di Pembroke (sorella del poeta Philip) e persino la regina Elisabetta. 
Tutti inglesi, ovviamente. 
Tranne l’ultimo e attualmente più gettonato candidato: John Florio, letterato di origini italiane, docente a Oxford, con incarichi di prestigio alla corte della regina d’Inghilterra.


«La verità è che certezze non ce ne sono, ma una congerie di nuove informazioni ricavate dallo studio di documenti d’archivio, fa ritenere che chi scrisse quelle opere non fu Shakespeare. 
Potrebbe essere stato invece John Florio che, avvalendosi degli appunti, dei racconti e dei testi portati dall’Italia dal padre Michelangelo e grazie alla collaborazione della cerchia di colti parenti e amici e di altri drammaturghi emergenti, avrebbe creato le opere che oggi vengono attribuite al poeta di Stratford», dice Panzieri, cofondatore dell’Istituto di studi floriani di Milano e autore di una biografia sui Florio, in corso di pubblicazione. 
 Lo confermerebbero le tracce lasciate fra le righe delle tragedie shakespeariane: i neologismi inventati da John per le traduzioni inglesi delle opere italiane; l’ambientazione nelle nostre città e nei luoghi al di fuori dell’Inghilterra frequentati dal padre; le storie romanzate di personaggi che il colto fiorentino aveva conosciuto. Jane Grey, per esempio, regina d’Inghilterra per 9 giorni e allieva di John quando insegnava letteratura italiana presso la famiglia reale, ispirò a Michelangelo un racconto del 1561 da cui il figlio avrebbe tratto Romeo e Giulietta.


Ma se furono i Florio a scrivere le opere, Shakespeare che c’entra? Gli italiani, suggeriscono gli studiosi, volevano mantenere l’anonimato: il padre, uomo di chiesa che aveva abbracciato il riformismo di Lutero, perché temeva ancora le persecuzioni dei cattolici; il figlio, uomo di prestigio a corte, perché all’epoca era considerato sconveniente firmare le opere del teatro popolare.
 Ed ecco cosa c’entra William. 
«Per venderle e rappresentarle avevano bisogno di un socio come Shakespeare: un tipo volitivo, concreto e intraprendente, già inserito nelle compagnie teatrali», nota l’esperto.
 La loro collaborazione però non sarebbe rimasta segreta: il drammaturgo Robert Greene, offeso dalle arie che si dava quel prestanome, denunciò in un libello l’arroganza di “un corvo appena venuto alla ribalta, che (...) benché sia in tutto e per tutto uno Johannes Factotum (per alcuni il soprannome di Florio), si crede il solo Shake-scene (“scuoti-scena”) del paese intero”.

 Un segreto di Pulcinella, insomma, forse ancora sepolto fra i 340 volumi e gli scritti dei Florio. 
John, infatti, lasciò tutto in eredità al conte William III di Pembroke, ma tuttora gli eredi si rifiutano di aprire le porte della loro biblioteca agli studiosi. Forse, per continuare a difendere il falso mito letterario d’Inghilterra.

 Maria Leonarda Leone per Focus 281

Il mito della caverna del filosofo greco Platone (V sec. a.C.)


Dentro una caverna buia e fredda sono incatenati dei prigionieri. Sono incatenati in modo così stretto che non possono girarsi e neppure muovere la testa e quindi non riescono nemmeno a guardarsi tra loro.
 Alle loro spalle c’è un muro. 
Loro non lo vedono, ma c’è. E dietro il muro passano delle persone tenendo in alto delle statue, facendole sporgere al di sopra del muro, che però copre i portatori. 
Ancora più in là, oltre il muro e i portatori, arde un grandissimo fuoco. 
 I prigionieri sono incatenati lì fin da piccoli e, per quello che ne sanno, il mondo è tutto lì. 
Sanno di non essere soli perché sentono le voci di altre persone, con cui parlano, ma non le vedono e quindi non sanno come sono fatte. 
Vedono però altro: vedono le sagome degli oggetti portati alle loro spalle, oltre il muro, perché il grande fuoco ne proietta le ombre. Vivono quindi in uno spaventoso mondo di finzione, in una specie di grande teatro delle ombre, ma da cui non possono uscire, e non sanno nemmeno che si tratta solo di un teatro.
 Credono che sia il mondo. E, credendo che sia il mondo, la processione di ombre occupa tutti i loro discorsi.
 Quelli che vedono meglio nel buio passano per acuti e intelligenti, perché colgono più dettagli nelle ombre, e magari sembrano capire che la processione ha un suo ordine e una sua logica. 

 Ma un giorno a uno dei prigionieri vengono sciolte le catene. Viene costretto a guardarsi attorno. 
Che cosa vede?
 Vede i suoi compagni, ancora incatenati; poi vede il muro e gli oggetti che vengono trasportati al di sopra di esso; poi vede il fuoco, la cui luce basta probabilmente ad accecarlo, visto che i suoi occhi si erano abituati a una tenebra che sembrava non finire mai. Ma non basta. 
 A un certo punto, l’uomo liberato viene condotto fuori dalla caverna. 
La luce lo frastorna, ne rimane abbagliato. 
Ma pian piano i suoi occhi si abituano e inizia a vedere per davvero.
 Vede per esempio un cane, mentre lui, nella sua vita sotterranea, prima che venisse liberato, aveva visto solo l’ombra della statua di un cane. Ora vede un cane vero e proprio. E così vede ogni cosa finalmente nel suo vero aspetto.
 E conosce la vera luce, quella del sole.


In un primo momento, l’uomo liberato soffre. 
Soffre perché è confuso, non capisce più che cosa sia vero e che cosa sia falso, soffre perché è accecato dalla luce, soffre perché capisce di essersi ingannato per tanto tempo. 
Una volta abituatosi alla luce, però, si sente meglio e più consapevole. 
Pensando ai suoi vecchi compagni, ne ha pena, e considera ridicolo il mondo in cui credono di vivere, e le lodi che attribuivano a chi di loro scorgeva più dettagli nelle ombre e credeva di intuire una logica nella processione delle ombre. 
Forse ride di loro, ma è un riso amaro, perché gli fanno pena. Decide quindi di ritornare nelle tenebre della caverna per cercare di liberarli o almeno di spiegare loro come stanno le cose. 
Certo preferirebbe starsene all’aria aperta e non affrontare quelle tenebre paurose e quei brutti ricordi, ma sente di doverlo fare.

 Ora i suoi occhi, abituati alla luce, non sono più una guida sicura nell’oscurità. 
Arrivato nella sua vecchia prigione, i suoi occhi, deboli, non gli permettono nemmeno di scorgere le ombre.
 Racconta ai suoi compagni la verità e cerca di liberarli, ma questi, notando quanto poco sa delle ombre, che per loro sono l’unica verità, non gli danno retta, e lo considerano un folle. E la storia del mondo di sopra sembra loro pazzesca e assurda. 
Probabilmente la verità li turba, e odiano il loro compagno. 
Alcuni lo uccidono, ansiosi di dimenticare le sue parole e di rimanere nel loro mondo di ignoranza.


Cosa vuole suggerire Platone con il mito della caverna? 
Una delle interpretazioni più note paragona il mito della caverna di Platone alle vicende di Socrate. Il filosofo ateniese riuscì a risalire la strada verso la verità ma venne ucciso per aver tentato di portarla agli uomini, che hanno preferito rimanere incatenati alle loro certezze. 
 La luce del sole potrebbe rappresentare il ‘bene’ o il ‘divino’ come oggetto di ricerca dell’umanità. 
Per un filosofo potrebbe essere difficile tornare alla realtà dopo aver scorto ciò che va oltre. 

 Il mito della caverna rispecchia ciò che succede nella realtà di oggi.
 Ad esempio ecco l’ipotesi che le ombre degli oggetti proiettate sul muro della caverna possano essere paragonate alle immagini della televisione e che i prigionieri siano dunque degli esseri umani ormai dipendenti da esse.
 Cosa ne pensate? 
Guardare dei programmi televisivi può allontanarci dalla realtà? 
A nostro parere è necessario distinguere tra la possibilità di guardare la Tv come svago e la vera e propria dipendenza che può causare apatia.


Uno strumento come il televisore non è di per sé né positivo né negativo, dato che tutto dipende da come lo si utilizza e da quali trasmissioni scegliamo di guardare o da quanto tempo trascorriamo davanti ad esso.
 Guardare la televisione (o passare davvero troppo tempo su internet) diventa un modo per distaccarci dalla realtà e per accantonare i nostri problemi? 
Ecco, in questo caso forse dovremmo ripensare alle nostre abitudini, evitare di anestetizzarci di fronte ad uno schermo e piuttosto provare a guardarci dentro e sfruttare il tempo che abbiamo a disposizione per trovare una soluzione a ciò che ci affligge.

 Fonti:
 greenme.it
 centrostudiricerche.wordpress.com

Palácio Nacional da Pena Sintra o Castello da Pena


Il Palácio Nacional da Pena – o semplicemente Palácio da Pena o Castelo da Pena – è un palazzo/castello, situato sulle colline della città portoghese di Sintra, paese del centro, vicino a Lisbona, fatto costruire dopo il 1840 da Maria II di Braganza(1819 –1853), come regalo di nozze per il marito, re Ferdinando II del Portogallo (conosciuto anche come Ferdinando II di Sassonia-Coburgo-Gotha; 1819 – 1885), sulle rovine di un convento gerolamitano del ‘400 e progettato dall’architetto e barone tedesco Ludwig von Eschwege. 

E ‘l’esempio più completo e importante di architettura portoghese del Romanticismo .

 Costruito circa 500 metri sul livello del mare il palazzo è sotto la tutela dell’UNESCO, è stato inserito nel Patrimonio dell’Umanità (come tutto il centro storico di Sintra) nel 1995, e il 7 luglio 2007 è stato eletto una delle 7 meraviglie del Portogallo.





La costruzione terminò nel 1885 (anno della morte del re) e il palazzo fu aperto al pubblico dopo la proclamazione della Repubblica nel 1910, ovvero una volta divenuto proprietà dello stato.


Una strada sinuosa attraversa un bosco che sembra incantato e ci conduce sino a questo castello del Portogallo.
 Tutto a un tratto si ha la sensazione di essere finiti nel bel mezzo di una di quelle favole con tanto di principe azzurro e bella addormentata. 
Talmente decorato con arabeschi, figure mostruose e motivi vegetali, questo palazzo ricorda davvero il castello delle fiabe. Nelle giornate di sole, le tonalità pastello, giallo, rosa e viola, con cui è dipinto esternamente questo edificio, si accendono, come se risplendesse.
 E mentre nel cielo svettano le torri e le guglie orientaleggianti da ‘mille e una notte’, attraverso gli atrii e i camminamenti, vari stili architettonici s’inseguono e si confondono.




È il trionfo di quei revival artistici così tipici del gusto romantico ottocentesco e che tanto piacevano a Don Fernando II, re del Portogallo e principe di Sassonia. 
Fu lui a ordinare che il Palacio da Pena, residenza reale estiva, racchiudesse in sé tutti gli stili succedutisi nel corso dei secoli in Portogallo e in Germania.
 Quello che ne deriva è un grande miscuglio architettonico che lascia a bocca aperta e che prosegue all’interno del palazzo.
 Così, per esempio, dal salotto della famiglia reale, in perfetto stile vittoriano, si accede alla sala araba, in cui sono rievocate atmosfere moresche, mentre la sala indiana, interamente rivestita da rilievi in stucco, si apre sul cosiddetto soggiorno in papier maché, per via della tecnica proveniente dall’Estremo Oriente con cui è decorato.














castlesintheworld

venerdì 22 aprile 2016

La Spada nella Roccia di San Galgano


Il mito arturiano rivive in Italia, nell’abbazia di San Galgano, situata in provincia di Siena, nel comune di Chiusdino, risalente al 1218. 
Si tratta di un’imponente struttura che emana una profonda sacralità e senso d’isolamento.

 L’abbazia, priva di copertura, raggiunse sino al XIV secolo, anche grazie al sostegno economico di Federico II, noto alchimista e ricercatore del Graal, una ricchezza ed un rispetto notevole, tale da essere contesa tra il Papato e la Repubblica di Siena ma purtroppo, dopo tanto splendore, avvenne una grande decadenza, e fu persino adibita a magazzino di materiali edili e trasformata nel rudere che è oggi.


Proprio in questo luogo, dal fascino sempre vivo, si trova un’antica spada, conficcata saldamente in una roccia, proprio come la mitica Excalibur di re Artù, che ha davvero molto di leggendario, la cui storia è legata al destino di Galgano Guidotti, giovane dissoluto vissuto nel XII, poi divenuto San Galgano. 
Sappiamo che il suo processo di canonizzazione, svoltosi a Montesiepi dal 4 al 7 agosto 1185, 4 anni dopo la morte del sant’uomo, fu presieduto dal Cardinale-Vescovo di Santa Sabina, Konrad von Wittelsbach, il quale, in qualità di legato papale, ascoltò la deposizione di 20 testimoni, tra cui la madre stessa di Galgano e gli eremiti che lo avevano conosciuto.


San Galgano nacque a Chiusdino nel 1148 da un nobile del luogo, Guido, e da Dionisia.
 Forse apparteneva alla famiglia dei conti Gherardeschi o a quella dei Pannocchieschi.
 Il nome “Galgano”, sebbene possa richiamare alla mente il nome di Galvano, uno dei cavalieri della Tavola Rotonda, era abbastanza diffuso nella Toscana del Medio Evo e persino uno dei più importanti vescovi di Volterra del XII secolo si chiamava Galgano Pannocchieschi. 

A causa dell’agiatezza e della vanità, Galgano ebbe un carattere pomposo ed altero, sino a che, nel 1179, trovandosi a Siena, in un negozio di panni di lana, addormentatosi accidentalmente, gli apparve in sonno l’angelo Michele e sua madre, cui l’angelo chiese di arruolare il figlio nella corte celeste , rapendolo con sé.
 In un altro sogno, a Galgano apparve nuovamente l’angelo Michele che gli ingiunse di seguirlo su un monte, dove, in una cappella rotonda , Gesù, Maria e gli Apostoli lo indirizzarono alla vita eremitica.
 Galgano si pose allora sotto la guida spirituale dei monaci di Malavalle, in Maremma, che lo invitarono a maturare il convincimento di ritirarsi in solitudine. Sua madre, opponendosi, tentò di distoglierlo da questa intenzione, facendolo fidanzare con Pollisena, una fanciulla di Civitella, in Maremma. 
Recatosi a conoscerla, verso i primi dei dicembre del 1180, l’arcangelo Michele gli sbarrò dolcemente la strada, prese le briglie del cavallo e lo accompagnò sul colle di Montesiepi, che il giovane scelse quale propria Tebaide.


Come segno di rinuncia perpetua alla guerra, Galgano conficcò la sua spada di cavaliere nel terreno; gesto che per i cavalieri del Medioevo aveva un alto significato spirituale: la spada capovolta, infatti, ricordava la croce.


Un posto altamente suggestivo, quello dell’abbazia di San Galgano.. spettacolare di sera, in cui ci si perde sotto la copertura di un cielo stellato.



Fonte: meteoweb.eu
Related Posts Plugin for WordPress, Blogger...