martedì 27 marzo 2018
Il Disco di Nebra è ancora un mistero
Nel 1999 – in un pertugio nella “Montagna di Mezzo” (Mittelberg), nei pressi di Nebra, in Germania – due tombaroli dissotterrarono, grazie ad un metal detector, numerosi reperti metallici risalenti al 1600 avanti Cristo.
Tra questi venne fuori un disco di bronzo intarsiato con lamine in oro, del diametro di 32 cm.
È un peccato che un manufatto così importante sia stato scoperto tramite scavi clandestini.
Adriano Gaspani, dell’Osservatorio Astronomico Inaf di Brera, spiega infatti che: «La base per una ricerca archeoastronomica di qualità è il rilievo topografico di precisione dei siti archeologici che si sospetta essere astronomicamente significativi, tenendo sempre ben presente che il dato archeologico deve essere tenuto nella massima considerazione».
Difatti, come spiega Gaspani in un ampio articolo da lui già dedicato al Disco di Nebra, non abbiamo alcuna certezza sulla posizione in cui il disco fu sotterrato.
Questo ci avrebbe permesso di verificare eventuali allineamenti astronomici, se presenti.
La produzione del disco è comunque stimata tra il 2000 e il 1700 a.C., quando a Babilonia Hammurabi scriveva il suo codice e in Egitto governavano gli “hyksos”, i Capi Stranieri.
Erano esattamente gli stessi anni in cui la Sardegna ribolliva letteralmente di bronzo fuso per mano di una popolazione guerriera e costruttrice di torri immortali.
Insomma, la scoperta delle leghe e in particolare del bronzo ha fatto fare un salto tecnologico “post-neolitico” mai visto che ha portato alla produzione di manufatti prevalentemente bellici: lance, asce, pugnali, scudi, armature e molto altro.
Inizialmente – dato che ad accompagnarlo c’erano appunto asce, scalpelli e pugnali – i due tombaroli pensarono al Disco di Nebra come alla decorazione centrale di uno scudo rotondo, forma tipica degli scudi del periodo.
Per loro, comunque, ciò che importava era il guadagno, e infatti cercarono subito di venderlo, finendo inesorabilmente nelle mani della giustizia.
Dopo vari passaggi di proprietà il Disco è entrato a far parte della collezione del vicino Museo di Halle e, dal 2013 è divenuto Patrimonio Mondiale dell’Unesco.
Ma perché il Disco di Nebra è tanto controverso e discusso?
Basta uno sguardo per capire che la sua funzione era, molto più che probabilmente, astronomica.
Gli “ingredienti” che compongono il “puzzle” del disco sono inequivocabili: stelle, Sole, Luna i più sicuri. Poi una serie di altri dettagli non secondari ed anzi, probabili indizi di misurazione astronomica.
Innanzitutto gli archi dorati laterali potrebbero raffigurare l’escursione massima di albe e tramonti solari tra i due solstizi di dicembre e di giugno ma che sembrerebbero essere stati applicati al disco solo in un secondo tempo.
Ancora più affascinante è il raggruppamento di stelle interpretato come quello delle Pleiadi, o Sette Sorelle.
A prima vista sembra infatti un gruppo di stelle buttato lì in modo quasi casuale, ma se guardiamo a rappresentazioni delle Pleiadi presso altre culture, anche lontanissime, troveremo somiglianze quasi sbalorditive
Sembra dunque che il disco sia la più antica rappresentazione del cielo notturno finora ritrovata.
Ma cosa rappresenta esattamente? E perché è stato prodotto? Gaspani su questo resta scientificamente prudente: «Non sappiamo se fosse un oggetto ornamentale, un oggetto magico-rituale utilizzato durante lo svolgimento di funzioni religiose, un oggetto didattico o altro.
Il dato di fatto è che si trattava di un oggetto di valore, lo testimonia l’utilizzo dell’oro per rappresentare gli astri».
Il mistero, dunque, resta. Tuttavia il Disco di Nebra rappresenta un caso emblematico di quanto una corretta ed approfondita conoscenza astronomica può aiutare ad interpretare fatti e situazioni storiche con grande precisione, o comunque è uno dei pochi metodi empirici e scientifici in grado di ampliare la rosa delle ipotesi in ambito archeologico.
Fonte: mondospazio.com
Risolto il mistero dello scheletro “alieno” ritrovato in Cile: è un feto umano
Un misterioso mini-scheletro scoperto nel Deserto di Atacama, nel Cile, ha rivelato ora a medici e archeologi tutti i suoi segreti.
Grazie a un’analisi forense e al test del Dna, un team dell’University of California a San Francisco e della Stanford University ha fatto luce sul reperto, da alcuni ritenuto alieno, ma anche sull’origine di rare patologie ossee.
Lo scheletro, rinvenuto in una borsa di pelle dietro una chiesa abbandonata, era intatto: una figura minuscola, lunga solo sei pollici (15,5 cm) con una strana testa allungata a forma di cono, 10 paia di costole e ossa simili a quelle di un bambino di otto anni.
Soprannominato affettuosamente “Ata“, lo scheletro si è fatto strada sul mercato nero dei reperti archeologici e poi è finito nelle mani di un collezionista in Spagna, che pensava potesse trattarsi dei resti di un extraterrestre.
L’analisi forense del genoma di Ata ha dimostrato senza ombra di dubbio che si tratta di resti umani, oltretutto moderni: un feto.
Ata ha infatti il Dna di una femmina umana moderna, con un mix di marker dei nativi americani e degli europei, abitanti della zona dove è stato rinvenuto.
Secondo i ricercatori risale a circa 40 anni fa. E il suo curioso fenotipo alieno può essere spiegato da una manciata di rare mutazioni genetiche – alcune conosciute, altre recentemente scoperte – legate al nanismo e ad altri disturbi ossei e della crescita.
Le scoperte, descritte su ‘Genome Research’, non si limitano a smentire le origini extraterrestri di Ata, ma spiegano come l’analisi del Dna oggi possa individuare la manciata di geni mutati molto probabilmente associati alla forma insolita del suo corpo.
“L’analisi è stata ancora più impegnativa, considerata la quantità molto limitata di informazioni sul campione – spiega Sanchita Bhattacharya, ricercatrice di bioinformatica all’Ucsf – e la mancanza di una storia familiare, che lo rende un caso unico“.
Bhattacharya ha usato l’Human Phenotype Ontology (Hpo), un database che collega i dati genomici ai fenotipi anomali, per far luce sull’origine dello scheletro.
L’immunologo e microbiologo Gary Nolan della Stanford University ha iniziato a indagare su Ata nel 2012, quando un amico gli raccontò che credeva di aver trovato un alieno.
Nolan vide che Ata, anche se era molto probabilmente un feto, aveva la composizione ossea di un bambino di 6 anni: soffriva dunque di un raro disturbo osseo.
Iniziò così le sue analisi, e per saperne di più, Nolan si è rivolto ad Atul Butte dell’Ucsf.
Ora lo studioso di Stanford è convinto che gli studi sui resti e sul precoce invecchiamento osseo potranno un giorno aiutare i pazienti con ossa fragili o invecchiamento osseo accelerato.
Ma Nolan spera anche che un giorno la piccola Ata possa tornare a casa e avere finalmente una sepoltura: non si tratta del visitatore da un pianeta lontano, ma di un feto sudamericano che non ha più di 40 anni.
“Sappiamo che era una bambina, morta probabilmente prima o subito dopo il parto.
Penso che dovrebbe tornare al suo Paese di origine ed essere sepolta secondo i costumi locali“, conclude Nolan.
Fonte: www.meteoweb.eu
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