giovedì 3 aprile 2014
La pecora segue sempre il capo branco
In greco la pecora ha un nome che rivela molte cose. Viene detta pròbaton, che deriva dal verbo il cui significato è “procedere”, cioè «animale che cammina in avanti».
E’ un nome straordinario: l’animale non ha altra scelta, né altra funzione, che quella di procedere in avanti.
E’ tutto ciò che sa fare!
E l’arguzia dei Greci non si esaurisce qui, poiché essi rendono l’animale neutro e lo chiamano «la cosa che va avanti». Questa espressione illustra l’aspetto più negativo della pecora, che segue l’ariete campo branco dovunque esso vada.
Un detto comune afferma che se un lupo o un cane inseguono un ariete fino a farlo cadere in un precipizio, anche duecento o trecento pecore salteranno dietro di lui giù dal dirupo.
- L’eterno fanciullo, di Marie-Louise von Franz
La pecora viene usata nel libro come analogia per descrivere il comportamento umano nel suo insieme, cioè per rappresentare quella che viene chiamata psicologia di massa.
Il succo è questo: fino a quando un uomo agisce da solo è completamente indipendente e cosciente delle sue scelte. Ma se l’uomo entra in un gruppo, soprattutto se esteso, si sentirà spinto a comportarsi come un’unica entità con tutta la folla. La sua capacità di giudizio e i suoi impulsi saranno sostituiti da quelli della folla.
Discorso della servitù volontaria
La servitù volontaria "Vorrei soltanto capire come sia possibile che tanti uomini, tanti Paesi, tanta città, tante nazioni, a volte soppportino un solo tiranno, che non ha altra potenza se non quella che essi gli concedono, che non ha potere di nuocere, se non in quanto essi hanno la volontà di sopportarlo; che non saprebbe far loro alcun male, se essi non preferissero subirlo anziché contrastrarlo."
Etienne de La Boétie -
Étienne de La Boétie (Sarlat, 1º novembre 1530 – Germignan, 18 agosto 1563) è stato un filosofo, scrittore, politico e giurista francese.
CITAZIONI dal libro
Vorrei soltanto riuscire a comprendere come sia possibile che tanti uomini, tanti paesi, tante città e tante nazioni talvolta sopportino un tiranno solo, che non ha altro potere se non quello che essi stessi gli accordano, che ha la capacità di nuocere loro solo finché sono disposti a tollerarlo, e che non potrebbe fare loro alcun male se essi non preferissero sopportarlo anziché opporglisi. (pag. 4) … quel che avviene in tutti i paesi, ogni giorno, fra tutti gli uomini, ossia che uno solo ne opprima centomila privandoli della libertà, chi potrebbe mai crederlo se ne sentisse soltanto parlare e non ne fosse testimone? Se accadesse soltanto in paesi stranieri e in terre lontane, e ce lo venissero a raccontare, chi di noi non penserebbe che si tratta d'invenzione, di una trovata, e non della verità? Per di più, non c'è bisogno di combattere questo tiranno, né di toglierlo di mezzo; si sconfigge da solo, a patto che il popolo non acconsenta alla propria servitù. Non occorre sottrargli qualcosa, basta non dargli nulla
Sono dunque i popoli stessi che si lasciano incatenare, perché se smettessero di servire, sarebbero liberi.
È il popolo che si fa servo, che si taglia la gola da solo, che potendo scegliere tra servitù e libertà, rifiuta la sua indipendenza e si sottomette al giogo; che acconsente al proprio male, anzi lo persegue. (pag. 7) … i tiranni quanto più saccheggiano tanto più esigono; quanto più devastano e distruggono tanto più ottengono, quanto più li si serve tanto più diventano potenti, forti, per tutto annientare e distruggere. Ma se non si dà loro più niente, se non si presta loro obbedienza, senza bisogno di combatterli e di colpirli rimangono nudi e sconfitti, ridotti a un niente, proprio come il ramo che, non ricevendo più linfa e alimento dalla radice, inaridisce e muore.(pag. 8)
Eppure questo vostro padrone che vi domina ha soltanto due occhi, due mani, un corpo, niente di diverso da quanto possiede l'ultimo abitante del grande e sconfinato numero delle vostre città, eccetto i mezzi per distruggervi che voi stessi gli fornite
Decidete una volta per tutte di non servire più, e sarete liberi. (pag. 9-10)
Credo sia fuori dubbio che se vivessimo secondo i diritti che la natura ci ha dato e conformemente ai suoi insegnamenti, saremmo naturalmente sottomessi ai nostri genitori, soggetti alla ragione, e servi di nessuno come possiamo dubitare di essere tutti liberi per natura, dato che siamo tutti uguali?
A nessuno può venire in mente che la natura, che ci ha fatti tutti uguali, abbia costretto qualcuno in servitù.
Ne consegue quindi che la libertà è un diritto naturale, e a mio avviso bisogna aggiungere che siamo nati non solo padroni della nostra libertà, ma anche inclini a difenderla. (pag. 10-12)
Ebbene quale sventura ha potuto snaturare tanto l'uomo e fargli perdere il ricordo del suo stato originario e il desiderio di riacquistarlo?
Certamente tutti gli uomini, almeno finché hanno in sé qualcosa di umano, per lasciarsi assoggettare hanno bisogno o di esservi stati costretti o di essere stati ingannati. (pag. 13-14)
Per sua natura l'uomo è e vuole essere libero; ma la sua natura è anche fatta in modo tale da prendere facilmente la piega che le viene data dall'educazione.
Diciamo allora che tutte le cose diventano naturali per l'uomo quando vi viene educato e vi si abitua, ma che gli è propriamente connaturato solo ciò a cui lo colloca la sua indole semplice e non alterata.
Quindi la causa prima della servitù volontaria è l'abitudine. (pag. 19)
In effetti questa è la tendenza naturale della plebaglia.
Non vi è uccello che si lasci più facilmente prendere nella pania, o pesce che per ingordigia del verme abbocchi all'amo più prontamente di quanto tutti i popoli si facciano adescare dalla servitù, solo che ne abbiano il minimo sentore.
È sorprendente come cedono sull'istante alla minima lusinga.
Teatri, giochi, commedie, spettacoli, gladiatori, animali esotici, medaglie, esposizioni di dipinti e altre droghe di questo genere costituivano per i popoli antichi l'esca della servitù, il prezzo della libertà, lo strumento della tirannide.
Con questi mezzi, questi sistemi, questi allettamenti, gli antichi tiranni stordivano i loro sudditi sotto il giogo.
Così quei popoli inebetiti, trovando gradevoli simili passatempi, divertiti dai vani piaceri che venivano fatti balenare davanti ai loro occhi, si abituavano a servire in modo sciocco. (pag. 24)
Non sono gli squadroni a cavallo né le schiere di fanti, né le armi a difendere il tiranno. Da principio si fa fatica a crederlo, ma è così
È accaduto sempre che cinque o sei uomini siano diventati i confidenti del tiranno, o perché si sono fatti avanti da soli o perché sono stati chiamati da questi per diventare complici delle sue crudeltà, compagni dei suoi piaceri, ruffiani della sua lussuria, soci nello spartirsi i frutti delle sue ruberie.
Questi sei profittatori ne hanno altri seicento sotto di loro, che si comportano nei loro riguardi come essi fanno col tiranno.
A loro volta i seicento ne hanno sotto di loro altri seimila
Dietro costoro la fila prosegue interminabile, e chi volesse divertirsi a dipanare questa matassa vedrebbe che non sono seimila, ma centomila, milioni le persone che rimangono legate al tiranno con questa fune e si mantengono ad essa
Insomma, tra favori e vantaggi, protezioni e profitti ottenuti grazie ai tiranni, si arriva al punto che quanti ritengono vantaggiosa la tirannia sono quasi altrettanto numerosi di quelli che preferirebbero la libertà. (pag. 30)
Così il tiranno assoggetta gli uni servendosi degli altri, e viene difeso da uomini da cui dovrebbe difendersi, se valessero qualcosa Eppure, vedendo questi individui che servono il tiranno per trarre vantaggio dal loro potere e dalla servitù del popolo, spesso mi stupisce la loro malvagità e talvolta mi fa pena la loro stupidità; perché, a dire il vero, avvicinarsi a un tiranno cos'altro significa se non allontanarsi dalla propria libertà e afferrare, per così dire, a due mani e abbracciare la propria servitù?
Non è sufficiente che gli obbediscano, devono compiacerlo rompendosi le ossa, tormentandosi e distruggendosi per curare i suoi interessi; devono amare ciò che egli ama, sacrificare i propri gusti ai suoi, violentare la propria indole sino a spogliarsi della propria personalità
Quale condizione è più miserabile del vivere così, senza avere nulla di proprio, dipendendo da un altro per il proprio benessere, la propria libertà, il proprio corpo, la vita stessa? (pag. 31-32)
Colui che tanto vi domina non ha che due occhi, due mani, un corpo, non ha niente di più dell’uomo meno importante dell’immenso ed infinito numero delle nostre città, se non la superiorità che gli attribuite per distruggervi.
Da dove ha preso tanti occhi, con i quali vi spia, se non glieli offrite voi? Come può avere tante mani per colpirvi, se non le prende da voi? I piedi con cui calpesta le vostre città, da dove li ha presi, se non da voi? Come fa ad avere tanto potere su di voi, se non tramite voi stessi? Come oserebbe aggredirvi, se non avesse la vostra complicità? Cosa potrebbe farvi se non foste i ricettatori del ladrone che vi saccheggia, complici dell’assassino che vi uccide e traditori di voi stessi?
Seminate i vostri frutti, affinché ne faccia scempio.
Riempite ed ammobiliate le vostre case, per rifornire le sue ruberie. Allevate le vostre figlie perché abbia di che inebriare la sua lussuria. Allevate i vostri figli, perché, nel migliore dei casi, li porti alla guerra e li conduca al macello, li faccia ministri delle sue bramosie, ed esecutori delle sue vendette.
Vi ammazzate di fatica perché possa trattarsi delicatamente nei suoi lussi e voltolarsi nei suoi piaceri sporchi e volgari. Vi indebolite per renderlo più forte e rigido nel tenervi la briglia più corta.
E di tutte queste indegnità, che neanche le bestie potrebbero accettare o sopportare, voi potreste liberarvi se provaste, non dico a liberarvene, ma solo a volerlo fare.
Siate decisi a non servire più, ed eccovi liberi. Non voglio che lo scacciate o lo scuotiate, ma solo che non lo sosteniate più, e lo vedrete, come un grande colosso al quale è stata tolta la base, piombare giù per il suo stesso peso e rompersi. (2014, pag. 36) Impariamo dunque una buona volta, impariamo a far bene, leviamo gli occhi al cielo, sia per il nostro onore, sia per amore della virtù, sia ancora, volendo parlare con cognizione di causa, per l'amore e l'onore di Dio onnipotente, fedele testimone delle nostre azioni e giusto giudice delle nostre colpe.
Dal canto mio sono convinto, e non credo di sbagliare, poiché non vi è cosa più contraria all'infinita liberalità e bontà di Dio della tirannia, che laggiù all'inferno egli riservi qualche pena particolare per i tiranni e i loro complici. (pag. 37)
Le illustrazioni satiriche di Pawel Kuczynski
Sfruttamento minorile, crisi economica, lobby, ambiente e diritti animali.
Tocca tutti questi temi, e molti altri, l'arte satirica dell'illustratore polacco Pawel Kuczynski, che usa la cara buon vecchia ironia per ritrarre l'attualità della realtà sociale, politico e culturale.
A prima vista, le sue illustrazioni possono sembrare divertenti, ma dopo un'attenta analisi rivelano agli occhi dello spettatore i grandi problemi del nostro mondo.
Ogni sua creazione, infatti, nasconde un significato emblematico ben preciso, mirato a "denunciare" aspetti sociali o politici dell'era contemporanea.
È un'unione tra Goia e Forattini, per certi versi: le sue opere stuzzicano l'opinione pubblica e suscitano nell'osservatore attente riflessioni.
Nato nel 1976, Pawel è un grafico polacco ormai ben noto nell'ambiente della pittura e dell'Arte Contemporanea.
Con un pizzico di sensibilità che nasce da una forte critica sociale, l'artista riflette sulla vita mostrando le assurdità e le contraddizioni della specie umana in modo generale, riuscendo a colpire, però, una parte di ognuno di noi.
"Mi considero un osservatore di tutto quello che succede intorno a me e credo che gli artisti possano trasformare tutto", ha detto l'illustratore.
Pawel si è laureato appena 35enne presso l'Accademia di Belle Arti di Poznan come grafico.
Gli sono stati riconosciuti finora 92 premi in vari concorsi nazionali e internazionali.
Non per ultimo il premio "Eryk", nel 2005, offerto dall'associazione polacca dei fumettisti.
Le sue opere girano il mondo e sono state esposte in numerose mostre sia in madre patria che all'estero.
Illustrazioni di Pawel Kuczynski
Fonte : http://www.greenme.it/
Craco uno dei tanti gioielli italiani che cade in rovina
Craco (Graculum in latino) è un comune italiano di 762 abitanti della provincia di Matera in Basilicata.
Negli anni sessanta, il centro storico ha conosciuto un'evacuazione che lo ha reso una vera e propria città fantasma.
Tuttavia, questo fenomeno ha contribuito a rendere particolare l'abitato di Craco, che per tale caratteristica è diventato una meta turistica ed un set cinematografico per vari film.
Erberto, di probabile origine normanna, ne fu il primo feudatario tra il 1154 e il 1168.
La struttura del borgo antico risale a questa epoca, in cui le case sono arroccate intorno al torrione quadrato che domina il centro. Nel 1276 Craco divenne sede di una Universitas.
Durante il regno di Federico II, Craco fu un importante centro strategico militare.
Il torrione infatti domina la valle dei due fiumi che scorrono paralleli, il Cavone e l'Agri, via privilegiata per chi tentava di penetrare l'interno.
La torre di Craco, insieme ad altre fortificazioni ed avamposti della zona, come la Petrolla, di rimpetto a Craco, erano barriera di protezione per città al tempo ricche quali Pandosia e Lagaria, entrambe al di là dell'Agri, entrambe prospicienti la Siritide.
Nel XV secolo, la città si espanse intorno ai quattro palazzi: Palazzo Maronna, vicino alla torrione, con bell'ingresso monumentale in mattoni, e con grande balcone terrazzato.
Palazzo Grossi, vicino alla Chiesa Madre, ha un alto portale architravato, privo di cornici.
I piani superiori sono coperti da volte a vela e decorati con motivi floreali o paesaggistici racchiusi entro medaglioni. Parte delle finestre e dei balconi conservano ringhiere in ferro battuto.
Palazzo Carbone, edificio della fine del Quattrocento, ha un ingresso monumentale. Nel Settecento, il palazzo fu rinnovato ed ampliato.
Palazzo Simonetti. Moti rivoluzionari e brigantaggiomodifica
Nel 1799 Innocenzo De Cesare, studente a Napoli, rientrò a Craco, e capeggiò il movimento della "borghesia rurale", movimento rivoluzionario della Repubblica partenopea che si proponeva, con sommosse e tumulti in tutta la regione, di rompere i rapporti feudatari che caratterizzavano l'agricoltura del tempo.
A Craco, la rivolta fu sedata nel sangue, a Palazzo Carbone.
Come gran parte dei centri lucani, anche Craco non fu estranea al brigantaggio.
Durante il decennio napoleonico, bande di briganti comandate da capimassa come Domenico "Rizzo" Taccone, Nicola "Pagnotta" Abalsamo e Gerardo "Scarola" Vota, sostenute dal governo borbonico in esilio, attaccarono Craco il 18 luglio 1807, depredando e uccidendo i notabili filofrancesi e dando libero sfogo a vendette personali.
L'8 novembre 1861, nel pieno della reazione borbonica poco dopo l'unità d'Italia, l'armata brigantesca di Carmine Crocco e José Borjés, dopo aver occupato e devastato Salandra, si diresse verso Craco.
Crocco raccontò nelle sue memorie che incontrarono «a mezza via una processione di donne e fanciulli con a capo il curato con la croce.
Venivano a chiedere clemenza per il loro paese e clemenza fu accordata, poiché non si verificarono che piccoli disordini difficili ad evitarsi con tanta gente e più semplicemente con gente di tal natura».
Secondo altre versioni, sembra che i disordini avvenuti a Craco non fossero del tutto marginali, tant'è che Borjès annotò nel suo diario: «riuniamo la truppa poi abbiam fatto strada verso Cracca (Craco), ove noi siam giunti a tre ore di sera: la popolazione intera ci è venuta incontro; e malgrado di ciò, avvennero non pochi disordini». Sui fatti di Craco e sulla situazione esistente dopo l’uscita del paese delle bande in marcia verso Aliano, ne parlò anche Giuseppe Bourelly, militare del regio esercito che partecipò alla repressione del brigantaggio in Basilicata, il quale sugli avvenimenti di quelle giornate riporta: «Intanto il Maggiore Cappa del 50° di linea informato che Borjés con la sua banda minacciava invadere Miglionico, Grassano e Grottole, radunava in Altamura tutte le truppe ch’erano pronte e si metteva in marcia per Miglionico.
Da questo paese andò a Pisticci e da qui si portò a Craco che trovò saccheggiato e nel massimo disordine».
In questo periodo si distinse un brigante crachese chiamato Giuseppe Padovano, alias "Cappuccino", ex soldato borbonico datosi alla macchia.
A causa di una frana di vaste proporzioni, nel 1963 Craco fu evacuata e l'abitato trasferito a valle, in località Craco Peschiera. Allora il centro contava oltre 2000 abitanti.
La frana che ha obbligato la popolazione ad abbandonare le proprie case sembra essere stata provocata da lavori di infrastrutturazione, fogne e reti idriche, a servizio dell'abitato.
Paese fantasma Ad onta di questo esodo forzato, Craco è rimasta intatta, trasformandosi in un paese fantasma.
Nel 2010, il borgo è entrato nella lista dei monumenti da salvaguardare redatta dalla World Monuments Fund.
Il comune, nella realizzazione di un piano di recupero del borgo, ha istituito, dalla primavera del 2011, un percorso di visita guidata, lungo un itinerario messo in sicurezza, che permette di percorrere il corso principale del paese, fino a giungere a quello che resta della vecchia piazza principale, sprofondata in seguito alla frana.
Nel dicembre 2012, è stato inaugurato un nuovo itinerario, che permette di addentrarsi nel nucleo della città fantasma.
Monumenti e luoghi d'interesse Numerosi turisti salgono a Craco per vedere le rovine del paese fantasma e per avventurarsi tra i vicoli e i dintorni.
Il terreno argilloso e brullo coesiste con quello marnoso: su uno sperone di marna calcificata dal tempo sorge il torrione, che per i Crachesi è il "castello".
Olivi secolari misti a cipressi antichi sono dal lato del paese verso lo Scalo, quest'ultimo sulla ferrovia calabro lucana da questo lato divelta e abbandonata.
Le contrade "Canzoniere": prende il nome da un'antica taverna posta lungo un tratturo una volta molto frequentato. La storia vuole che a gestire la taverna fosse una donna affascinante che riduceva in suo potere i malcapitati sedotti dalla sua avvenenza: la maliarda li uccideva e li metteva sotto aceto, facendone il piatto forte della sua osteria.
"San Lorenzo": un'antica fontana a volta, sulla via verso il Cavone dove palme alte convivono con gli olivi sullo sfondo di masserie, arroccate e nel contempo aperte al territorio, come quelle "Galante" e "Cammarota", con il loro svolgersi su due livelli, gli archi che reggono la scala esterna e i terrazzi che sembrano spalti a difesa di non improbabili attacchi. "Sant'Eligio": protettore dei maniscalchi trova in Craco un tributo che va al di là della semplice menzione toponomastica, con la sua cappella affrescata, forse del Cinquecento, con le sue scene di santi intorno a un Cristo che pur crocifisso resta Pantocratore.
Le prime tracce delle origini di Craco sono alcune tombe, che risalgono all'VIII secolo a.C. Come altri centri vicini, è probabile che abbia offerto riparo ai coloni greci di Metaponto, quando questi si sono trasferiti in territorio collinare, forse per sfuggire alla malaria che imperversava nella pianura.
Craco fu successivamente un insediamento bizantino. Nel X secolo monaci italo-bizantini iniziarono a sviluppare l'agricoltura della zona, favorendo l'aggregamento urbano nella regione.
La prima testimonianza del nome della città è del 1060, quando il territorio fu sottoposto all'autorità dell'arcivescovo Arnaldo di Tricarico, che chiamò il territorio Graculum, ovvero piccolo campo arato.
Negli anni sessanta, il centro storico ha conosciuto un'evacuazione che lo ha reso una vera e propria città fantasma.
Tuttavia, questo fenomeno ha contribuito a rendere particolare l'abitato di Craco, che per tale caratteristica è diventato una meta turistica ed un set cinematografico per vari film.
Erberto, di probabile origine normanna, ne fu il primo feudatario tra il 1154 e il 1168.
La struttura del borgo antico risale a questa epoca, in cui le case sono arroccate intorno al torrione quadrato che domina il centro. Nel 1276 Craco divenne sede di una Universitas.
Durante il regno di Federico II, Craco fu un importante centro strategico militare.
Il torrione infatti domina la valle dei due fiumi che scorrono paralleli, il Cavone e l'Agri, via privilegiata per chi tentava di penetrare l'interno.
La torre di Craco, insieme ad altre fortificazioni ed avamposti della zona, come la Petrolla, di rimpetto a Craco, erano barriera di protezione per città al tempo ricche quali Pandosia e Lagaria, entrambe al di là dell'Agri, entrambe prospicienti la Siritide.
Nel XV secolo, la città si espanse intorno ai quattro palazzi: Palazzo Maronna, vicino alla torrione, con bell'ingresso monumentale in mattoni, e con grande balcone terrazzato.
Palazzo Grossi, vicino alla Chiesa Madre, ha un alto portale architravato, privo di cornici.
I piani superiori sono coperti da volte a vela e decorati con motivi floreali o paesaggistici racchiusi entro medaglioni. Parte delle finestre e dei balconi conservano ringhiere in ferro battuto.
Palazzo Carbone, edificio della fine del Quattrocento, ha un ingresso monumentale. Nel Settecento, il palazzo fu rinnovato ed ampliato.
Palazzo Simonetti. Moti rivoluzionari e brigantaggiomodifica
Nel 1799 Innocenzo De Cesare, studente a Napoli, rientrò a Craco, e capeggiò il movimento della "borghesia rurale", movimento rivoluzionario della Repubblica partenopea che si proponeva, con sommosse e tumulti in tutta la regione, di rompere i rapporti feudatari che caratterizzavano l'agricoltura del tempo.
A Craco, la rivolta fu sedata nel sangue, a Palazzo Carbone.
Come gran parte dei centri lucani, anche Craco non fu estranea al brigantaggio.
Durante il decennio napoleonico, bande di briganti comandate da capimassa come Domenico "Rizzo" Taccone, Nicola "Pagnotta" Abalsamo e Gerardo "Scarola" Vota, sostenute dal governo borbonico in esilio, attaccarono Craco il 18 luglio 1807, depredando e uccidendo i notabili filofrancesi e dando libero sfogo a vendette personali.
L'8 novembre 1861, nel pieno della reazione borbonica poco dopo l'unità d'Italia, l'armata brigantesca di Carmine Crocco e José Borjés, dopo aver occupato e devastato Salandra, si diresse verso Craco.
Crocco raccontò nelle sue memorie che incontrarono «a mezza via una processione di donne e fanciulli con a capo il curato con la croce.
Venivano a chiedere clemenza per il loro paese e clemenza fu accordata, poiché non si verificarono che piccoli disordini difficili ad evitarsi con tanta gente e più semplicemente con gente di tal natura».
Secondo altre versioni, sembra che i disordini avvenuti a Craco non fossero del tutto marginali, tant'è che Borjès annotò nel suo diario: «riuniamo la truppa poi abbiam fatto strada verso Cracca (Craco), ove noi siam giunti a tre ore di sera: la popolazione intera ci è venuta incontro; e malgrado di ciò, avvennero non pochi disordini». Sui fatti di Craco e sulla situazione esistente dopo l’uscita del paese delle bande in marcia verso Aliano, ne parlò anche Giuseppe Bourelly, militare del regio esercito che partecipò alla repressione del brigantaggio in Basilicata, il quale sugli avvenimenti di quelle giornate riporta: «Intanto il Maggiore Cappa del 50° di linea informato che Borjés con la sua banda minacciava invadere Miglionico, Grassano e Grottole, radunava in Altamura tutte le truppe ch’erano pronte e si metteva in marcia per Miglionico.
Da questo paese andò a Pisticci e da qui si portò a Craco che trovò saccheggiato e nel massimo disordine».
In questo periodo si distinse un brigante crachese chiamato Giuseppe Padovano, alias "Cappuccino", ex soldato borbonico datosi alla macchia.
A causa di una frana di vaste proporzioni, nel 1963 Craco fu evacuata e l'abitato trasferito a valle, in località Craco Peschiera. Allora il centro contava oltre 2000 abitanti.
La frana che ha obbligato la popolazione ad abbandonare le proprie case sembra essere stata provocata da lavori di infrastrutturazione, fogne e reti idriche, a servizio dell'abitato.
Paese fantasma Ad onta di questo esodo forzato, Craco è rimasta intatta, trasformandosi in un paese fantasma.
Nel 2010, il borgo è entrato nella lista dei monumenti da salvaguardare redatta dalla World Monuments Fund.
Il comune, nella realizzazione di un piano di recupero del borgo, ha istituito, dalla primavera del 2011, un percorso di visita guidata, lungo un itinerario messo in sicurezza, che permette di percorrere il corso principale del paese, fino a giungere a quello che resta della vecchia piazza principale, sprofondata in seguito alla frana.
Nel dicembre 2012, è stato inaugurato un nuovo itinerario, che permette di addentrarsi nel nucleo della città fantasma.
Monumenti e luoghi d'interesse Numerosi turisti salgono a Craco per vedere le rovine del paese fantasma e per avventurarsi tra i vicoli e i dintorni.
Il terreno argilloso e brullo coesiste con quello marnoso: su uno sperone di marna calcificata dal tempo sorge il torrione, che per i Crachesi è il "castello".
Olivi secolari misti a cipressi antichi sono dal lato del paese verso lo Scalo, quest'ultimo sulla ferrovia calabro lucana da questo lato divelta e abbandonata.
Le contrade "Canzoniere": prende il nome da un'antica taverna posta lungo un tratturo una volta molto frequentato. La storia vuole che a gestire la taverna fosse una donna affascinante che riduceva in suo potere i malcapitati sedotti dalla sua avvenenza: la maliarda li uccideva e li metteva sotto aceto, facendone il piatto forte della sua osteria.
"San Lorenzo": un'antica fontana a volta, sulla via verso il Cavone dove palme alte convivono con gli olivi sullo sfondo di masserie, arroccate e nel contempo aperte al territorio, come quelle "Galante" e "Cammarota", con il loro svolgersi su due livelli, gli archi che reggono la scala esterna e i terrazzi che sembrano spalti a difesa di non improbabili attacchi. "Sant'Eligio": protettore dei maniscalchi trova in Craco un tributo che va al di là della semplice menzione toponomastica, con la sua cappella affrescata, forse del Cinquecento, con le sue scene di santi intorno a un Cristo che pur crocifisso resta Pantocratore.
Le prime tracce delle origini di Craco sono alcune tombe, che risalgono all'VIII secolo a.C. Come altri centri vicini, è probabile che abbia offerto riparo ai coloni greci di Metaponto, quando questi si sono trasferiti in territorio collinare, forse per sfuggire alla malaria che imperversava nella pianura.
Craco fu successivamente un insediamento bizantino. Nel X secolo monaci italo-bizantini iniziarono a sviluppare l'agricoltura della zona, favorendo l'aggregamento urbano nella regione.
La prima testimonianza del nome della città è del 1060, quando il territorio fu sottoposto all'autorità dell'arcivescovo Arnaldo di Tricarico, che chiamò il territorio Graculum, ovvero piccolo campo arato.
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