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mercoledì 29 aprile 2015

Virgilio il Mago


Il discorso sull'esoterismo a Napoli si fa molto interessante nel Medioevo normanno e angioino, quando si sviluppò, e vi trovò enorme credito, la teoria di Virgilio il Mago.

 I rapporti del grande poeta latino con Neapolis sono moltissimi; la città che ancora ne onora la tomba nel parco di Fuorigrotta che porta il suo nome, presenta due diverse direttrici "d'amore": quella colta che riguarda la sua prestigiosa opera letteraria, e quella popolare che lo venera quale Mago- Salvatore della città stessa; il "Liberatore" da varie iatture come, ad esempio, invasione di insetti o serpenti, con l'ausilio di particolari "incantesimi". 

La testimonianza più affascinante di questa "credenza" resta il nome di "Castel dell'Ovo" alla turrita struttura dell'isolotto di S. Salvatore, la greca Megaride, unita in seguito alla costa (artificialmente) dal Borgo Marinaro.


In effetti l'origine del nome resta alquanto misteriosa se non si analizza bene il "nome" stesso. 
 Per prima cosa gli studiosi di alchimia sanno che il termine uovo o meglio uovo filosofico è il nome "esoterico" dell' Athanor, il piccolo forno chiuso, il matraccio di metallo o di un particolare vetro nel quale avveniva la lenta trasmutazione degli elementi primari - zolfo e mercurio - in metallo "prezioso", L'oro alchemico. Operazione iniziatica che definiva, in effetti, una profonda mutazione dello spirito e dell'intelligenza dell'operatore.

 A Napoli, nel periodo medioevale, fiorisce una grande scuola ermetica che si occupa di alchimia. 
I processi di "liquefazione", "soluzione" e "calcinazione" sono favoriti da una particolare terra vulcanica offerta dal Vesuvio mentre la distillazione dell'acqua marina era ritenuta l'unico surrogato alla rugiada raccolta nella notte - l'acqua degli alchimisti - che doveva possedere un grado altissimo di "purezza cosmica". 

Megaride divenne presto, già nell'età classica, rifugio di eremiti che occuparono le piccole grotte naturali ed i ruderi delle costruzioni romane della grande domus luculliana che dalle pendici di Pizzofalcone giungeva all'isolotto di Megaride.


I monaci Basiliani riutilizzarono poi le possenti colonne romane per ornare la sala del loro "cenobio", come ancora si può notare visitando Castel dell'Ovo. 

E' noto che molte ricerche alchemiche avvenivano celate ai più proprio nel segreto di alcuni monasteri medievali ed è confermata la presenza sull'isolotto di monaci alchimisti. 
In un antico documento, si legge di un antico amanuense che aveva speso tutta la sua esistenza "... nello studio e nella trascrizione di Virgilio...". E le continue e appassionate ricerche operate da studiosi hanno testimoniato più volte la profonda "cultura virgiliana" della classe colta e religiosa napoletana tra il Medioevo angioino e il Rinascimento aragonese.
 Infatti si è già accennato a quell'amore particolare dei napoletani per il poeta mantovano.

 Virgilio, narrano molte cronache medioevali napoletane, entrò nel castello di Megaride e vi pose un uovo chiuso in una gabbietta che fece murare in una nicchia delle fondamenta, avvisando che alla rottura dell'uovo tutta la città sarebbe crollata.
 Altre versioni parlano di un uovo sigillato in una "caraffa" di cristallo sempre murata in un luogo segreto del castello con la stessa raccomandazione.


Così nasce il nome di "Castel dell'Ovo" che l'isolotto ha sempre conservato, e lo si evince sia dagli scritti antichi che da una radicata tradizione orale.

 L'ipotesi che ne deriva è questa: Virgilio apprende il metodo di "distillazione" da un seguace dei misteri orfici ancora operante nella campagna napoletana e si procura un recipiente adatto per distillare ed operare nel segreto di "laboratori" ospitati in ville patrizie di nobili che, ottemperando al volere di Mecenate Ottaviano, renderanno al Mantovano del tutto sereno il soggiorno napoletano. 
 Virgilio, che ha studiato proprio a Napoli alla scuola del epicureo Sirone ed ha nel cuore Esiodo e Lucrezio, si addentra sempre di più nella conoscenza segreta della natura iniziandosi ai culti di Cerere e Proserpina allora vivissimi a Neapolis.

 Ma allora Virgilio è veramente un "mago" prealchimista? 
 Perché Dante Alighieri, il più "iniziato" dei nostri poeti, affiliato per sua stessa ammissione alla setta dei Fedeli d'Amore a Firenze, iscritto alla corporazione de' medici e speziali che ha lasciato il più eccelso ed inquietante libro "esoterico" nella immortale Commedia, ha voluto come "guida" proprio Virgilio? 

 Di certo Napoli l'amò moltissimo, e lo ritenne prima di S. Gennaro protettore a tutto tondo tant'è che, anche se morto a Brindisi nel 19 a.C., onora da sempre la "tomba" napoletana.


Fonte: tanogabo.it

Il drago di Komodo


Nel XIX secolo i marinai e i pescatori delle isole di Flores e Sumbawa narravano spesso storie fantastiche di uomini e animali assaliti e sbranati da grandi draghi che vivevano nella piccola isola di Komodo, un lembo di terra caratterizzato da una superficie di appena 600 chilometri quadrati e situato nell'Arcipelago della Sonda.
 D'altra parte, molti dei nativi delle due isole indonesiane erano così sicuri dell'esistenza dei giganteschi draghi – o "Boeja darat", cioè coccodrilli di terra – che non avevano nemmeno il coraggio di approdare sulle coste di Komodo. 

 Evidentemente un fondamento di verità esisteva nelle "leggende" raccontate dagli abitanti di Flores e Sumbawa, e ciò indusse Peter A. Ouwens, direttore del Giardino botanico di Buitenzorg (Giava), a organizzare nel 1912 una spedizione nell'isola stessa, con l'intento primario di osservare e catturare qualche esemplare del mitico rettile che tanto timore incuteva alle popolazioni locali.
 Ouwens riuscì nell'impresa: le sue minuziose ricerche, condotte in varie località di Komodo, gli fruttarono infatti quattro individui del supposto drago. 
Questo era in realtà un varano di dimensioni imponenti e apparteneva a una specie nuova per la scienza, cui fu assegnato appunto il nome di Varanus komodoensis.
 Il clamore suscitato negli ambienti scientifici dalla notizia relativa alla scoperta del drago di Komodo fu grande, e nel 1926 anche lo staff del Museo di Storia Naturale di New York decise di organizzare una spedizione a Komodo, al fine di studiare la biologia del grande varano e di catturare alcuni esemplari della specie medesima.
 La spedizione - a cui parteciparono Dunn, uno dei più noti erpetologi degli Stati Uniti, il cacciatore indocinese Defosse, il quale aveva il compito di prendere i varani utilizzando delle trappole particolari, e la fotografa Burden - fu autorizzata e appoggiata dal governo olandese, che in quegli anni reggeva amministrativamente le isole dell'Arcipelago della Sonda, e permise di compiere tutta una serie di osservazioni originali sull'ecologia e sull'etologia della specie.
 Grazie alla cattura di dodici esemplari morti e due vivi, fu inoltre possibile intraprendere studi approfonditi sull'anatomia e sulle caratteristiche morfologiche e cromatiche del gigantesco sauro della piccola isola indonesiana.


Il Varano di Komodo o Drago di Komodo è il più grande sauro vivente e può raggiungere lunghezze superiori ai due metri. Morfologicamente assimilabile a una lucertola di grandi dimensioni, ha la lingua biforcuta, la pelle squamosa tendente all'azzurrognolo, è carnivoro e molto aggressivo. 
 Questa specie, come suggerisce il nome, vive principalmente sull'isola di Komodo, in Indonesia, e in altri arcipelaghi vicini. Questo enorme rettile è il più grande quadrupede squamato e misura mediamente 2,5-3 m di lunghezza e arriva a pesare anche 100-135 kg.
 L'esemplare più grande conosciuto misurava 3,13 m di lunghezza e pesava quasi 166 kg.
 Questo animale carnivoro si nutre anche di uova, che spesso razzia dai nidi di altri rettili, come i coccodrilli. Può vivere fino a 30 anni. Per attaccare e divorare le loro prede, e cioè i cervo rusa e i suini selvatici, i draghi di Komodo si servono delle fortissime unghie ricurve e dei robusti denti con margine posteriore seghettato. 
La tattica tipica di caccia consiste nel mordere la preda ed attendere che questa muoia nel giro di poche ore.
 Le modalità con cui avviene la consumazione del pasto sono estremamente interessanti: dopo aver ucciso un grande mammifero, il gigantesco rettile comincia a divorarlo a partire dalla regione anale, affondando ripetutamente i denti aguzzi nel corpo della vittima e strappando con forza grandi brani di carne; in un secondo tempo il varano apre la gabbia toracica del mammifero e ne divora completamente il contenuto. 
Terminato il banchetto, al quale spesso partecipano diversi individui, ciò che rimane della preda è soltanto una carcassa interamente svuotata..


Il Varano di Komodo ha costantemente una lingua di color rosso-sangue, colorazione dovuta alla naturale lacerazione dei tessuti gengivali durante la masticazione. 
Ciò crea una coltura ideale per germi patogeni, pericolosi in caso di infezioni conseguenti ai morsi, morsi particolarmente penetranti in virtù del fatto che sono tesi a sbranare le prede anziché ingoiarle intere come la maggior parte dei rettili.
 Questa, almeno, la ricostruzione tipica del comportamento dei Draghi di Komodo sino ad oggi, quando alcuni ricercatori dell’Università di Melbourne si sono presi la briga di analizzare il veleno che secernono le loro ghiandole. 
 La scoperta è sensazionale: ad uccidere le prede dei Draghi non sono solo le ferite cagionate da artigli e denti aguzzi, ma anche un veleno dalla tossicità sinora sconosciuta.
 Utilizzando alcune strumentazioni medicali per la diagnosi per immagini, un gruppo di ricercatori guidato da Bryan Fry (University of Melbourne) ha scoperto che il Varanus komodoensis, ha il più complesso apparato ghiandolare per la produzione del veleno finora riscontrato nei rettili, un sistema molto simile a quello adottato da uno dei suoi discendenti più prossimi: il Megalania prisca, l’animale velenoso più grande mai vissuto estintosi circa 40mila anni fa.
 Combinando le due caratteristiche, il Varano di Komodo riesce infatti a ridurre al minimo il numero di contatti con la propria preda, una condizione fondamentale per poter cacciare anche animali con una stazza fino a 10 volte superiore alla sua. 
 Il varano affonda rapidamente i propri denti nella carne della preda e contemporaneamente rilascia il veleno, che contribuisce a peggiorare le condizioni della ferita e a immobilizzare il malcapitato animale.
 Le tossine che lo compongono sono in grado di far abbassare la pressione delle prede causando una dilatazione dei loro vasi sanguigni e portandole così al collasso. 
Tale caratteristica sembra confermare le numerose osservazioni finora compiute sulle battute di caccia del Varano di Komodo.
 Una volta ferite, le prede del varano generalmente non si dimenano e diventano insolitamente calme. Tale comportamento è compatibile con un collasso dovuto a un crollo della pressione sanguigna. 
Gli animali feriti dal varano tendono inoltre a perdere molto rapidamente il loro sangue, un’altra caratteristica compatibile con la composizione del veleno di questo spietato rettile, che contiene alcune tossine anticoagulanti e dunque utili per fluidificare il sangue impedendo la cicatrizzazione dei tessuti feriti nelle prede.

 A causa della caccia intensa cui sono stati sottoposti dall'uomo, molti dei mammiferi predati dal drago di Komodo sono oggi rappresentati, in tutte le isole abitate dal rettile in questione (Komodo, Rinca, Padar, Gili Mota, Owadi Sami e Flores), da popolazioni di modeste dimensioni. 
Ovviamente, la rarefazione delle prede ha inciso in maniera estremamente negativa sulla consistenza numerica delle popolazioni di questo varano, tanto che attualmente si pensa che nelle isole indonesiane precedentemente citate non siano presenti più di 6000 esemplari della specie.
 La situazione è particolarmente grave a Padar e nella parte occidentale di Flores: in queste isole, infatti, gli incendi provocati dall'uomo per distruggere vaste aree di savana e la massiccia presenza di cani randagi, unitamente alla scomparsa dei grandi mammiferi, hanno causato in anni recenti il rapido ed allarmante declino delle locali popolazioni di drago di Komodo. 

 Essendo in pericolo di estinzione, la specie - inclusa nella Appendice I della Convenzione di Washington (CITES) e, dal 1975, nel Red Data Book compilato dall'IUCN - è oggi rigidamente protetta in tutti i territori insulari ricordati in precedenza, grazie anche all'Ordinance on the Protection of Wild Animals del governo indonesiano.
 Due delle sei isole abitate da tale entità (Rintja e Padar) sono state inoltre dichiarate riserve naturali, e quindi dovrebbero essere, per il futuro, integralmente "esenti" da scompensi faunistici provocati dall'uomo.


L'accoppiamento avviene tra maggio e agosto, le uova sono deposte a settembre.
 La femmina depone le uova nel terreno o in buchi negli alberi.
 Il nido contiene normalmente 20 uova che hanno un periodo di incubazione di 7 mesi ed è sorvegliato dalla madre. Tuttavia dopo la nascita il cucciolo è senza difese per cui la mortalità infantile è molto alta.
 Generalmente i primi anni di vita del Drago di Komodo li passa tra gli alberi (2 anni circa) dove ha più possibilità di sopravvivere.
 Il drago di Komodo raggiunge la maturità sessuale dopo cinque anni. 
Recentemente è stata dimostrata la partenogenesi facoltativa del drago di Komodo.
 In Inghilterra infatti una femmina di varano tenuta in cattività in uno zoo inglese si è riprodotta in questo modo, cioè senza l'ausilio del seme maschile.

 Fonte: http://criptosito.altervista.org/
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