martedì 14 maggio 2013
L’antigravità potrebbe essere la soluzione all’enigma dell’energia oscura
L’astrofisico italiano Massimo Villata sostiene la tesi secondo cui l’interazione tra materia e antimateria produrrebbe una forza opposta a quella gravitazionale, facendo a meno dell’energia e della materia oscura.
Il numero di questa settimana dell’influente rivista americana New Scientist è dedicato all’energia oscura, non esageratamente definito “il più grande mistero cosmico ancora irrisolto”.
Mentre infatti sull’altra componente ignota dell’universo, la materia oscura, le prove indiziarie si stanno accumulando al punto da convincere diversi scienziati dell’imminente risoluzione del mistero, sull’energia oscura si continua a non sapere nulla, da quando, era il 1998, in una storica conferenza, due gruppi di ricerca (premiati nel 2011 con il Nobel per la fisica) svelarono che l’universo stava accelerando la sua espansione sotto l’effetto di una forza sconosciuta che, a conti fatti, costituisce circa il 75% dell’universo. Sappiamo che questa forza, battezzata appunto “energia oscura”, si oppone alla forza gravitazionale che invece dovrebbe gradualmente rallentare l’espansione dell’universo iniziata con il Big Bang.
E sappiamo che Albert Einstein, senza saperlo, l’aveva predetta quasi un secolo fa, introducendo nelle sue equazioni della relatività generale applicata alla cosmologia un fattore, definito “lambda”, che controbilanciava la gravità.
Oggi la chiamiamo costante cosmologica: funziona, nelle equazioni. Ma non sappiamo a cosa corrisponda lì fuori, nell’universo. Repulsione gravitazionale Un’ipotesi eretica, ma supportata dalla matematica e dal metodo scientifico, giunge ora da un astrofisico italiano, Massimo Villata dell’Osservatorio di Torino, che in una pubblicazione sostiene la validità di un modello alternativo all’ipotesi dell’energia oscura.
Secondo questo modello, esisterebbe davvero una forza repulsiva, una forza antigravitazionale, nell’universo. Sarebbe l’effetto dell’interazione tra materia e antimateria e permetterebbe di spiegare l’accelerazione dell’espansione cosmica facendo a meno delle ipotesi dell’energia e della materia oscura.
Considerando che l’antimateria è stata scoperta negli anni ’30 del secolo scorso, verrebbe da chiedersi perché ancora non sappiamo come si comporti l’antimateria all’interno di un campo gravitazionale. Il problema sta nel fatto che la forza gravitazionale è, tra le quattro forze della natura, la più debole. Se quando inciampiamo e cadiamo a terra non la pensiamo allo stesso modo è perché ad attrarci verso terra è la forza gravitazionale esercitata da una massa enorme, quella dell’intero pianeta Terra.
Ma quando dobbiamo analizzare l’interazione gravitazionale tra due particelle, la cosa si fa difficilissima: tant’è che solo oggi, all’interno dell’acceleratore LHC di Ginevra, si è cominciato ad analizzare questa interazione, resa difficile ovviamente anche dal fatto che produrre l’antimateria è molto complicato e quel che si riesce a produrre si limita a poche anti-particelle. L’antigravità è l’energia oscura?
La maggioranza degli scienziati è convinta che anche l’antimateria, sottoposta alla gravità, si comporti come la materia, subendo cioè una forza attrattiva. Anche se un’antiparticella, come per esempio il positrone (l’opposto dell’elettrone), ha una carica e uno spin opposti alla sua particella-gemella, la massa è pur sempre quella. Non può esistere una massa negativa.
Quindi, poiché l’attrazione gravitazionale è diretta conseguenza della presenza di una massa, anche l’antimateria la subirà. Tutto vero, assicura Villata, quando si tratta di descrivere l’interazione gravitazionale tra due particelle di materia ordinaria o tra due particelle di antimateria. la fantascienza diventa realtà
scienze.fanpage.it
Il numero di questa settimana dell’influente rivista americana New Scientist è dedicato all’energia oscura, non esageratamente definito “il più grande mistero cosmico ancora irrisolto”.
Mentre infatti sull’altra componente ignota dell’universo, la materia oscura, le prove indiziarie si stanno accumulando al punto da convincere diversi scienziati dell’imminente risoluzione del mistero, sull’energia oscura si continua a non sapere nulla, da quando, era il 1998, in una storica conferenza, due gruppi di ricerca (premiati nel 2011 con il Nobel per la fisica) svelarono che l’universo stava accelerando la sua espansione sotto l’effetto di una forza sconosciuta che, a conti fatti, costituisce circa il 75% dell’universo. Sappiamo che questa forza, battezzata appunto “energia oscura”, si oppone alla forza gravitazionale che invece dovrebbe gradualmente rallentare l’espansione dell’universo iniziata con il Big Bang.
E sappiamo che Albert Einstein, senza saperlo, l’aveva predetta quasi un secolo fa, introducendo nelle sue equazioni della relatività generale applicata alla cosmologia un fattore, definito “lambda”, che controbilanciava la gravità.
Oggi la chiamiamo costante cosmologica: funziona, nelle equazioni. Ma non sappiamo a cosa corrisponda lì fuori, nell’universo. Repulsione gravitazionale Un’ipotesi eretica, ma supportata dalla matematica e dal metodo scientifico, giunge ora da un astrofisico italiano, Massimo Villata dell’Osservatorio di Torino, che in una pubblicazione sostiene la validità di un modello alternativo all’ipotesi dell’energia oscura.
Secondo questo modello, esisterebbe davvero una forza repulsiva, una forza antigravitazionale, nell’universo. Sarebbe l’effetto dell’interazione tra materia e antimateria e permetterebbe di spiegare l’accelerazione dell’espansione cosmica facendo a meno delle ipotesi dell’energia e della materia oscura.
Considerando che l’antimateria è stata scoperta negli anni ’30 del secolo scorso, verrebbe da chiedersi perché ancora non sappiamo come si comporti l’antimateria all’interno di un campo gravitazionale. Il problema sta nel fatto che la forza gravitazionale è, tra le quattro forze della natura, la più debole. Se quando inciampiamo e cadiamo a terra non la pensiamo allo stesso modo è perché ad attrarci verso terra è la forza gravitazionale esercitata da una massa enorme, quella dell’intero pianeta Terra.
Ma quando dobbiamo analizzare l’interazione gravitazionale tra due particelle, la cosa si fa difficilissima: tant’è che solo oggi, all’interno dell’acceleratore LHC di Ginevra, si è cominciato ad analizzare questa interazione, resa difficile ovviamente anche dal fatto che produrre l’antimateria è molto complicato e quel che si riesce a produrre si limita a poche anti-particelle. L’antigravità è l’energia oscura?
La maggioranza degli scienziati è convinta che anche l’antimateria, sottoposta alla gravità, si comporti come la materia, subendo cioè una forza attrattiva. Anche se un’antiparticella, come per esempio il positrone (l’opposto dell’elettrone), ha una carica e uno spin opposti alla sua particella-gemella, la massa è pur sempre quella. Non può esistere una massa negativa.
Quindi, poiché l’attrazione gravitazionale è diretta conseguenza della presenza di una massa, anche l’antimateria la subirà. Tutto vero, assicura Villata, quando si tratta di descrivere l’interazione gravitazionale tra due particelle di materia ordinaria o tra due particelle di antimateria. la fantascienza diventa realtà
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Le prove del cannibalismo tra i primi coloni americani
Resti umani rinvenuti di recente testimonierebbero del "fiero pasto" consumato nella prima comunità insediatasi a Fort James, in Virginia, confermando alcuni resoconti storici dell'epoca.
Nulla a che vedere con misteriosi ed improbabili riti di fondazione che prevedevano cruenti spargimenti di sangue, animale o umano: i primi coloni americani (poche centinaia di individui giunti a partire dal 1607) che posero le proprie dimore in quel villaggio della Virginia che venne battezzato Jamestown, assai probabilmente ricorsero al cannibalismo come ultimo, disperato tentativo di sopravvivenza, stretti tra un ostile inverno e il terrore delle vicine popolazioni native.
La carestia che si era abbattuta sui territori tra il 1609 e il 1610 mise a dura prova il corpo e lo spirito dei padri fondatori di quello che sarebbe diventato il primo insediamento stabile del continente americano: oggi a raccontarcelo intervengono alcune prove archeologiche che testimonierebbero quanto già narrato dalle fonti scritte dell’epoca o di poco successive.
Gli antropologi e gli archeologi dello Smithsonian Museum of Natural History di Washington hanno infatti presentato i risultati del lavoro di analisi forense condotto su resti umani risalenti al XVII secolo e ritrovati nel 2012 nel corso degli scavi che da diversi anni interessano il nucleo più antico dell’insediamento coloniale, chiamato James Fort.
Frammenti ossei venuti alla luce da un deposito di rifiuti nel sottosuolo di un edificio risalente al 1608 e consistenti in una tibia ed un cranio che mostrerebbe gli evidenti segni di un aggressione: compito dei ricercatori è stato stabilire a chi appartenessero i resti e se eventualmente recassero i segni di un’uccisione o, addirittura, del cannibalismo.
I resoconti storici, in effetti, tornano più di una volta su episodi legati allo stato di estrema povertà e assenza di risorse che avrebbe spinto i primi abitanti di James Fort a ricorrere alla carne umana come “fiero pasto”: nel tentativo di ottenere una concreta prova di tali episodi, William Kelso, direttore archeologico del Jamestown Rediscovery Project ha richiesto la consulenza scientifica di Doug Owsley, a capo della sezione di antropologia del museo di storia naturale di Washington.
È stato così possibile ricostruire non solo l’identità dell’individuo ma anche il suo possibile aspetto constatando, soprattutto, come effettivamente il corpo venne sottoposto ad un vero e proprio “scannamento”: in particolare, i segni di quattro fendenti inferti con mano piuttosto debole all’altezza della fronte starebbero ad indicare un primo tentativo fallito di aprirne il cranio; probabilmente in un momento successivo, la parte posteriore risulta essere stata spaccata con i colpi più fermi e forti provenienti da una mannaia o da una piccola accetta.
Evidentemente, coloro i quali infierirono sul cadavere erano interessati a mangiarne il cervello, ma anche parti più in vista del volto, come le guance; tagli ottenuti grazie ad uno strumento affilato, visibili sui lati e sotto la mandibola, sarebbero da attribuirsi ad un tentativo di eliminare i tessuti dalla faccia e dalla gola per ricavarne altra carne per nutrirsi e placare una fame diventata probabilmente “ferina”. Lo scheletro, del quale si possiede in effetti appena il 10%, era di una fanciulla alla quale i ricercatori hanno attribuito il nome di Jane: grazie alle analisi condotte sui suoi poveri e scarsi resti, gli studiosi sono stati in grado di ricostruire diversi aspetti della sua breve vita che vide i propri esordi nell’Inghilterra e finì all’incirca 14 anni dopo per cause che è stato impossibile stabilire.
È verosimile ipotizzare, tuttavia, che l’assalto al cadavere avvenne quasi immediatamente dopo la morte, secondo il Professor Owsley: «Il tentativo di rimuovere il cervello è qualcosa che va fatto molto rapidamente poiché il materiale cerebrale non si preserva bene e a lungo», ha spiegato.
Gli esami isotopici condotti sui denti e sulle ossa hanno consentito di ricostruire una possibile dieta della ragazza che fu ricca di proteine, denunciando un’estrazione sociale elevata, in accordo con i tempi in cui l’accesso alla carne era un privilegio riservato a pochissimi individui (o, in alternativa, è probabile che fosse stata domestica a servizio di qualche personaggio benestante).
La ragazza, inoltre, avrebbe vissuto molto poco tempo a Fort James, prima di morire per cause naturali o per mano di ignoti.
Grazie alle cronache dell’epoca, infatti, è noto da tempo come il cannibalismo abbia costituito la risorsa estrema dei primi abitanti delle coste della Virginia, in particolare durante il periodo chiamato starving time, quando una violenta carestia si abbatté sulla colonia di Jamestown nell’inverno a cavallo tra il 1609 e il 1610.
Dei 500 abitanti che formavano la piccola e giovane comunità ne sopravvissero appena una sessantina, al costo altissimo di doversi nutrire prima dei propri cavalli, dei propri cani e dei propri gatti; poi vennero mangiati i topi, i serpenti e il cuoio delle scarpe. Nel corso dell’inverno, James Fort rimase assediato dai nativi Powhatan (la grande e potente tribù celebre soprattutto grazie al personaggio di Pocahontas): le riserve di cibo che erano giunte con una flotta nell’agosto del 1609 (forse su una nave dove la stessa Jane viaggiava) si erano rivelate in buona parte deteriorate e non consentirono ai coloni di affrontare i mesi successivi; la precedente siccità aveva reso la terra profondamente arida. Alla fine, si arrivò a mangiare gli stessi esseri umani: il caso di Jane non fu probabilmente un episodio del tutto straordinario, in quel momento. Il presidente della colonia, John Smith, era partito nel settembre del 1609: il resoconto di quanto accadde a Jamestown fu dunque opera del reggente George Percy che registrò atti e stati d’animo della indicibile disperazione dell’epoca, durante quel rigido inverno che decimò la popolazione del piccolo villaggio: suo è l’accenno alle pratiche di cannibalismo, extrema ratio di un manipolo di miserabili perduti al di là dell’Oceano, fuggiti al vecchio mondo ed approdati in una realtà ostile e terribile, dalla quale solo in pochissimi uscirono vivi e, alcuni di essi, con il ricordo dell’orrore consumato durante i mesi più oscuri.
Nulla a che vedere con misteriosi ed improbabili riti di fondazione che prevedevano cruenti spargimenti di sangue, animale o umano: i primi coloni americani (poche centinaia di individui giunti a partire dal 1607) che posero le proprie dimore in quel villaggio della Virginia che venne battezzato Jamestown, assai probabilmente ricorsero al cannibalismo come ultimo, disperato tentativo di sopravvivenza, stretti tra un ostile inverno e il terrore delle vicine popolazioni native.
La carestia che si era abbattuta sui territori tra il 1609 e il 1610 mise a dura prova il corpo e lo spirito dei padri fondatori di quello che sarebbe diventato il primo insediamento stabile del continente americano: oggi a raccontarcelo intervengono alcune prove archeologiche che testimonierebbero quanto già narrato dalle fonti scritte dell’epoca o di poco successive.
Gli antropologi e gli archeologi dello Smithsonian Museum of Natural History di Washington hanno infatti presentato i risultati del lavoro di analisi forense condotto su resti umani risalenti al XVII secolo e ritrovati nel 2012 nel corso degli scavi che da diversi anni interessano il nucleo più antico dell’insediamento coloniale, chiamato James Fort.
Frammenti ossei venuti alla luce da un deposito di rifiuti nel sottosuolo di un edificio risalente al 1608 e consistenti in una tibia ed un cranio che mostrerebbe gli evidenti segni di un aggressione: compito dei ricercatori è stato stabilire a chi appartenessero i resti e se eventualmente recassero i segni di un’uccisione o, addirittura, del cannibalismo.
I resoconti storici, in effetti, tornano più di una volta su episodi legati allo stato di estrema povertà e assenza di risorse che avrebbe spinto i primi abitanti di James Fort a ricorrere alla carne umana come “fiero pasto”: nel tentativo di ottenere una concreta prova di tali episodi, William Kelso, direttore archeologico del Jamestown Rediscovery Project ha richiesto la consulenza scientifica di Doug Owsley, a capo della sezione di antropologia del museo di storia naturale di Washington.
È stato così possibile ricostruire non solo l’identità dell’individuo ma anche il suo possibile aspetto constatando, soprattutto, come effettivamente il corpo venne sottoposto ad un vero e proprio “scannamento”: in particolare, i segni di quattro fendenti inferti con mano piuttosto debole all’altezza della fronte starebbero ad indicare un primo tentativo fallito di aprirne il cranio; probabilmente in un momento successivo, la parte posteriore risulta essere stata spaccata con i colpi più fermi e forti provenienti da una mannaia o da una piccola accetta.
Evidentemente, coloro i quali infierirono sul cadavere erano interessati a mangiarne il cervello, ma anche parti più in vista del volto, come le guance; tagli ottenuti grazie ad uno strumento affilato, visibili sui lati e sotto la mandibola, sarebbero da attribuirsi ad un tentativo di eliminare i tessuti dalla faccia e dalla gola per ricavarne altra carne per nutrirsi e placare una fame diventata probabilmente “ferina”. Lo scheletro, del quale si possiede in effetti appena il 10%, era di una fanciulla alla quale i ricercatori hanno attribuito il nome di Jane: grazie alle analisi condotte sui suoi poveri e scarsi resti, gli studiosi sono stati in grado di ricostruire diversi aspetti della sua breve vita che vide i propri esordi nell’Inghilterra e finì all’incirca 14 anni dopo per cause che è stato impossibile stabilire.
È verosimile ipotizzare, tuttavia, che l’assalto al cadavere avvenne quasi immediatamente dopo la morte, secondo il Professor Owsley: «Il tentativo di rimuovere il cervello è qualcosa che va fatto molto rapidamente poiché il materiale cerebrale non si preserva bene e a lungo», ha spiegato.
Gli esami isotopici condotti sui denti e sulle ossa hanno consentito di ricostruire una possibile dieta della ragazza che fu ricca di proteine, denunciando un’estrazione sociale elevata, in accordo con i tempi in cui l’accesso alla carne era un privilegio riservato a pochissimi individui (o, in alternativa, è probabile che fosse stata domestica a servizio di qualche personaggio benestante).
La ragazza, inoltre, avrebbe vissuto molto poco tempo a Fort James, prima di morire per cause naturali o per mano di ignoti.
Grazie alle cronache dell’epoca, infatti, è noto da tempo come il cannibalismo abbia costituito la risorsa estrema dei primi abitanti delle coste della Virginia, in particolare durante il periodo chiamato starving time, quando una violenta carestia si abbatté sulla colonia di Jamestown nell’inverno a cavallo tra il 1609 e il 1610.
Dei 500 abitanti che formavano la piccola e giovane comunità ne sopravvissero appena una sessantina, al costo altissimo di doversi nutrire prima dei propri cavalli, dei propri cani e dei propri gatti; poi vennero mangiati i topi, i serpenti e il cuoio delle scarpe. Nel corso dell’inverno, James Fort rimase assediato dai nativi Powhatan (la grande e potente tribù celebre soprattutto grazie al personaggio di Pocahontas): le riserve di cibo che erano giunte con una flotta nell’agosto del 1609 (forse su una nave dove la stessa Jane viaggiava) si erano rivelate in buona parte deteriorate e non consentirono ai coloni di affrontare i mesi successivi; la precedente siccità aveva reso la terra profondamente arida. Alla fine, si arrivò a mangiare gli stessi esseri umani: il caso di Jane non fu probabilmente un episodio del tutto straordinario, in quel momento. Il presidente della colonia, John Smith, era partito nel settembre del 1609: il resoconto di quanto accadde a Jamestown fu dunque opera del reggente George Percy che registrò atti e stati d’animo della indicibile disperazione dell’epoca, durante quel rigido inverno che decimò la popolazione del piccolo villaggio: suo è l’accenno alle pratiche di cannibalismo, extrema ratio di un manipolo di miserabili perduti al di là dell’Oceano, fuggiti al vecchio mondo ed approdati in una realtà ostile e terribile, dalla quale solo in pochissimi uscirono vivi e, alcuni di essi, con il ricordo dell’orrore consumato durante i mesi più oscuri.
Earth Houses: le "case degli Hobbits" costruite in perfetta armonia con la natura
Che cosa sono le Earth Houses? Si tratta di costruzioni parzialmente sotterranee comunemente chiamate "case di terra", ma più tecnicamente denominate come "case ipogee contemporanee". La loro struttura in calcestruzzo viene inserita all'interno del terreno, in modo che esso stesso possa contribuire al mantenimento della temperatura ideale negli ambienti domestici.
I costi per la realizzazione di una Earth House molto simile alla casa di un Hobbit potrebbero essere davvero contenuti ed aggirarsi attorno ai 4000 euro. Proprio per questo è diventata famossissima la coppia gallese, con un reddito annuo stimabile attorno agli 8000 euro, che è riuscita nell'impresa di costruire la propria Earth House ecosostenibile con materiali di recupero a fronte di una spesa irrisoria rispetto ai costi ben noti delle comuni abitazioni. La loro storia ha fatto il giro del web e la loro casa diventata la casa degli Hobbits per antonomasia.
Essendo ben cosciente di non potersi permettere di sostenere il pagamento di un mutuo, la coppia ha deciso di avvalersi dell'aiuto della propria famiglia e di alcuni amici per la costruzione della propria casa immersa nel verde. Il risultato è stata la realizzazione di una casa ecologica e ad impatto minimo, parzialmente sotterranea e ricoperta da porzioni di prato e corteccia, che è stata battezzata con il nome di Low Impact Woodland Home.
LA BCE USA DATI FALSI E ORDINA: “SUBITO GIÙ SALARI E STIPENDI”
La Banca Centrale Europea continua ad impartire ordini sull’Austerity nonostante negli ultimi mesi sia il Fmi che il duo Reinhart e Rogoff siano stati smascherati ed abbiano ammesso i propri errori.
Lo stesso nuovo presidente, Saccomanni e Giovannini grandi estimatori delle misure che hanno causato l’attuale crisi.
Se è (fosse?) un vero politico denuncerebbe immediatamente l’inganno alla luce del sole
Il periodo storico 1990-2008 è alle nostre spalle, ineluttabilmente, ma mentre altri eserciti hanno difeso le proprie roccaforti qui, in Europa, epicentro – come sempre, da un secolo – Berlino, le battaglie sono state tutte perse.
Ora, si sta perdendo la guerra, perché sono giunte due disfatte irrimediabili.
PRIMA DISFATTA L’Imperatore del Mondo Finanziario, il Fondo Monetario Internazionale, si ritira dalla lotta dell’Austerità, ad inizio anno, nonostante sia la sua lotta. Olivier Blanchard e Daniel Leigh, i colonnelli sul fronte, affermano che “hanno sbagliato i conti“. Proprio così: hanno consigliato una strategia ma poi, come scolaretti con le tabelline, si accorgono che i consigli che hanno dato per anni, e che hanno condotto alle manovre lacrime e sangue nel Sud Europa, erano basati su errori da loro stessi commessi.
Da Keynes Blog: “Secondo Blanchard e Leigh i moltiplicatori fiscali non sono stati modesti come previsto (0,5) ma significativamente più elevati (1,5).
Questo significa che una contrazione fiscale di 1 euro (ovvero un taglio della spesa pubblica, ndr) ha creato una depressione di 1,5 euro invece che solo 0,5.
Già nel 2009, tuttavia, il fondo aveva sottoposto al G20 una nota in cui si affermava che i moltiplicatori potevano essere compresi tra 0,3 e 1,8 per i tagli alla spesa e tra 0,3 e 0,5 per gli aumenti delle imposte (si noti che coerentemente con la teoria keynesiana, i moltiplicatori delle tasse misurati sono minori di quelli della spesa pubblica)”.
In pratica ogni volta che vi hanno martellato i santissimi dicendo: “Occorre ridurre la spesa pubblica per rilanciare lo sviluppo e l’occupazione”, hanno mentito, si sono sbagliati. Eppure sono ancora lì: la non santa trinità della Troika li vede sempre al vertice del triangolo d’occupazione.
SECONDA DISFATTA ED ESERCITO NEOLIBERISTA IN ROTTA Ma da sola quella sconfitta non basta, dopo El Alamein arriva la batosta: ormai siamo alla ritirata di Russia, dopo la mattanza di Stalingrado. La notizia ha fatto il giro del mondo, ma qui nella periferia dell’Impero si preferisce parlare di francescoboccia e nunziadegirolamo.
Altri due generali dell’Austerità mondiale hanno perso la loro battaglia, perché hanno sbagliato – scientemente – tutti i calcoli. Non sapevano usare Excel, come un soldato che non sappia usare una bussola.
Carmen Reinhart e Kenneth Rogoff rappresentano il più inquietante caso di indirizzo di politiche anti-popolari su scala mondiale basato su assunzioni del tutto inventate (oltre che con pesanti coinvolgimenti personali).
Nel loro studio “This Time is Different” i due studiosi di Harvard affermavano, in pratica, che attraverso la loro ricerca potevano assicurare che gli Stati con un rapporto debito/Pil superiore al 90% erano destinati al declino, al contrario di quelle nazioni nelle quali, sempre per l’assunzione farlocca del punto 1 (meno spesa pubblica=più sviluppo) quel dato era basso.
Delirio matematico-economico travasato in bigonci che i camerieri eletti o tecnocratici hanno trasformato in politica lacrime e sangue: tasse, tagli, povertà, lacrime di coccodrillo.
Purtroppo non abbiamo anime che reagiscano con la passione e la competenza di Mike Norman, almeno nel ponte di comando.
1 CLAMOROSO ALLA BANCA CENTRALE EUROPEA Nel Rapporto Annuale 2012 della Bce, di cui la stampa italiana ha sbrigativamente trattato nei giorni scorsi, si leggono le solite trite litanie. Gli enricoletta manco li pensano. Il cuore del dispaccio di guerra è a pagina 73.
Titolo: “Ulteriore risanamento dei conti pubblici è atteso nel 2013“. Ma come? E le fregnacce di Blanchard e di R&R? Possibile che Draghi non le abbia lette? Va bè. Andiamo avanti. “In rapporto al PIL, le entrate dovrebbero aumentare di 0,5 punti percentuali, mentre la spesa diminuirebbe di 0,3 punti. Si prevede che il debito pubblico dell’area dell’euro in rapporto al PIL continui ad aumentare, di 2,0 punti percentuali al 95,1 per cento, con valori superiori al 100 per cento in cinque paesi (Belgio, Irlanda, Grecia, Italia e Portogallo)”.
Tra minore spesa e maggiori tasse c’è un trasferimento di risorse da famiglie e imprese agli Stati dello 0,8% del Pil. E così “Il risanamento dei conti pubblici deve proseguire“. Ma come? Vediamo ancora: “Nonostante i progressi realizzati finora, occorre proseguire sulla via del risanamento per ripristinare la sostenibilità a lungo termine del debito nell’area dell’euro. Per quanto il risanamento possa dare luogo a un deterioramento temporaneo della crescita economica, se ben disegnato esso conduce a un miglioramento permanente dei saldi strutturali, con un impatto favorevole sulle traiettorie del rapporto debito/PIL“. Si faccia attenzione a questa affermazione: deterioramento “temporaneo” (viene da ridere), ovvero meno lavoro, meno consumi, meno “vita”, con impatto favorevole sulle traiettorie del debito/Pil.
Ma chi se ne frega di un dato astratto? Qualcuno mangia il rapporto debito/Pil? Alt. Qui arriva la menzogna scritta nero su bianco. Andiamo a capo. “Le evidenze empiriche mostrano che livelli persistentemente elevati del rapporto debito pubblico/PIL (intorno o superiori al 90 per cento) incidono negativamente sulla crescita economica”. Una menzogna ribadita dopo che è stata dimostrata falsa dagli stessi autori che l’hanno divulgata. Ma come è possibile? Continua: “Oltre ad avere un effetto diretto di spiazzamento dell’investimento privato, essi si associano a premi per il rischio sul debito pubblico più elevati, i quali comportano a loro volta tassi di interesse maggiori, con ripercussioni avverse per gli investimenti e altri ambiti dell’attività economica sensibili all’andamento dei tassi di interesse (tutto ciò non avviene ad esempio nel vicino Regno Unito, o non ha relazione ad esempio a quanto avviene fra Spagna e Italia, ma evidentemente c’è il dovere di sbagliare, a Strasburgo, ndr)”. “Il risanamento delle finanze pubbliche può favorire la crescita economica nel breve periodo” (poco fa si è scritto che aveva un impatto deleterio nel breve periodo, ndr) (…) “Accrescere la flessibilità dei mercati del lavoro, dei prodotti e dei servizi migliorerebbe in misura decisiva la capacità di tenuta delle economie dell’area dell’euro”. Ecco cosa si intende. Pagina 66, titolo: “Sono necessari ulteriori sforzi per continuare il processo di riequilibrio”. Il tutto per creare il “mercato comune” liberal-comunista: “Una sensibile, effettiva riduzione del costo del lavoro per unità di prodotto (…) è particolarmente urgente nei paesi dove l’elevata disoccupazione rischia di divenire strutturale e la concorrenza è debole“.
Ok. Claro. Sì, parlano di noi. Ancora, alla faccia di Blanchard e R&R: “(per aumentare la competitività) richiederà il contenimento della spesa e una maggiore efficienza di quest’ultima, in particolare nelle aree dell’istruzione, della sanità, della pubblica amministrazione e delle infrastrutture (…)”.
E inoltre, incredibilmente: “Le strategie di risanamento dei conti pubblici dovrebbero essere incentrate sul rigoroso rispetto degli impegni già assunti nell’ambito del Patto di stabilità e crescita e del fiscal compact (per l’Italia circa 50 mld di euro l’anno per 20 anni, ndr). Tutti i paesi sottoposti a procedure per i disavanzi eccessivi devono assicurare il pieno conseguimento degli obiettivi di bilancio (…) Laddove ciò non avvenga, occorrerebbe adottare misure procedurali tempestive nell’ambito della procedura per i disavanzi eccessivi al fine di evitare che il consolidamento sia indebitamente ritardato e che venga compromessa fin dall’inizio la credibilità della nuova governance rafforzata per le finanze pubbliche“.
Ditelo a enricoletta.
2 CLAMOROSO SILENZIO DELLA STAMPA ITALIANA Insomma, Mario Draghi ripete a pappardella le raccomandazioni dimostrate errate (quando non peggio) del Fmi, continua a farne strumento di ricatto politico per centinaia di milioni di cittadini. Non c’è un giornalista che lo faccia notare. Prendo Barbara Corrao del Messaggero, la quale scrive “che la Bce ricorda che un rapporto debito/Pil oltre il 90% danneggia lo sviluppo”. Ma è tutto così, copia e incolla, anche a La Stampa, Repubblica, Rai.it, e via discorrendo.
3 PEGGIO, SEMPRE PEGGIO, A BERLINO NON HANNO PIETA’ Quanto letto sopra è lo zucchero. In Germania, infatti, vogliono che il caffè sia amarissimo, indigesto, e non vogliono neppure che si dia il minimo sollievo al malato: altro che Stati Uniti d’Europa, siamo agli Stati Leghisti d’Europa.
4 LETTA SE CI SEI BATTI UN COLPO Dunque la Banca Centrale Europea, sottratta al controllo democratico, dà indicazioni a stati ex sovrani di diminuire il costo di salari e stipendi basandosi su affermazioni dimostrate come false. Si auspica che il nostro nuovo Presidente del Consiglio, consapevole di errori tanto evidenti, chieda la verifica delle competenze degli estensori del rapporto, la rimozione del Presidente Mario Draghi per responsabilità oggettiva e apra immediatamente un tavolo europeo di verifica della congruità di tutti i documenti economici approvati su queste basi e il loro annullamento. Impossibile, forse. Lui non è un cuor di leone ma con Enrico Giovannini che in tv dice il contrario di quel che è scritto nei documenti ufficiali da lui firmati e con Fabrizio Saccomanni che affermava che “le misure di austerity porteranno ad una crescita attraverso la riduzione dei tassi di interesse”, c’è poco da sperare. Anzi, niente.
FONTE: http://www.rivieraoggi.it/
Una grande maestra di vita
Purtroppo la sofferenza è sempre stata presente nelle nostre vite, ma se gli attribuiamo un significato vediamo che possiamo considerarla una grande maestra di vita che può insegnarci grandi cose su di noi e, sulle altre persone e sul mondo intero. E queste cose contribuiranno a rendere più realistica e meno illusoria la nostra interpretazione e visione del mondo: non possiamo restiamo infantilmente aggrappati alle nostre illusioni e ai nostri sogni egoistiche di quando eravamo bambini! Non lasciamoci sopraffare dal dolore, proviamo ad accantonarlo apriamo il cuore alle piccole emozioni quotidiane, facciamo piccole cose che ci fanno stare bene con noi stessi, anche le più stupide, e prendiamo un contatto con noi stessi.
Il forte di Qaitbey – Alessandria
La fortezza medievale Fort Qaitbey è stata costruita nel secolo XV sull’isoletta di Pharos, sulle rovine dell’antico Faro di Alessandria. Nel 1480 il sultano mamelucco Qaitbey decise di riutilizzare le sue fondamenta ancora solide per costruire una fortezza costiera contro i turchi, che minacciavano l’Egitto. Essa gode di un’ottima posizione, all’estremità di una stretta lingua di terra protesa nel Porto Orientale.
Quello che resta oggi del forte non è del tutto fedele alla sua struttura originale, in quanto subì un pesante bombardamento navale da parte degli inglesi, in seguito al quale fu in gran parte ricostruito. Esso si raggiunge percorrendo una strada rialzata, luogo molto amato dai pescatori alessandrini. Attraverso un posto di controllo si entra nel cortile circostante, che oltre ad un piccolo bar-ristorante, presenta alcune gallerie e sale da esplorare. Punto di maggior interesse resta però il suo torrione centrale nel quale si entra passando attraverso una porta costruita da grosse lastre di granito, probabilmente recuperate dall’antico Faro. E’ da tempo che la fortezza non ha più funzioni militari, oggi ospita un piccolo museo navale. All’interno, su tre piani, si apprezzano diversi manufatti e reperti marittimi, tra cui alcuni oggetti appartenuti alla flotta di Napoleone, affondata a largo di Alessandria dall’ammiraglio Nelson nel 1798.
Una parte della fortezza era adibita a moschea e per ben quattro secoli i bastioni furono sovrastati dal minareto, fino a quando non venne abbattuto dalla marina inglese. Si tratta della più antica moschea di Alessandria, ma non è più dedicata al culto.
L’ipogeo di Hal Saflieni e il circolo Brochtorff nelle isole dell’arcipelago maltese
Nell’ambito del fenomeno megalitico hanno assunto particolare rilievo le strutture templari e quelle ipogeiche delle isole dell’arcipelago maltese ascrivibili al Neolitico (4100 a. C. – 2500 a. C., date calibrate), che costituiscono, tuttora, un unicum sia per la tipologia della struttura architettonica, sia per l’iconografia artistica: quest’ultima consta non solo di motivi ornamentali analoghi a quelli delle tombe megalitiche francesi ed irlandesi, ma anche di una statuaria destinata a rappresentare eminentemente la figura della Dea madre che giocava un ruolo di preminente importanza nella civiltà agraria del Neolitico maltese. È, tuttavia, sorprendente la concentrazione di strutture megalitiche nell’arcipelago maltese dove sono venuti alla luce trenta complessi templari e due strutture ipogeiche; quest’ultime erano destinate ad accogliere sepolture collettive.
Con ogni probabilità, lo straordinario sviluppo del megalitismo era da scrivere, ad un tempo, all’abilità tecnica degli abitanti ed alla presenza, in loco, di materiali di facile lavorazione quali il calcare corallino e il calcare a globigerine, di cui i costruttori potevano avvalersi per l’edificazione dei monumenti.
È dato notare che, nel suddetto arcipelago, era diffuso l’uso di scavare tombe nella roccia che, nelle fasi più arcaiche della civiltà neolitica, presentavano una forma semplicissima, ma nelle fasi successive assunsero un aspetto sepolcrale complesso, caratterizzato da elementi tipici dell’architettura templare, data la stretta connessione del culto della fertilità con quello dei morti; ne costituisce un’ulteriore conferma il fatto che le strutture ipogeiche di Hal Saflieni (Malta) e di Brochtorff (Gozo) fossero ubicate in prossimità dei templi.
All’interno di quest’ultimi furono rinvenuti oggetti che costituirono una testimonianza eloquente del culto che vi si svolgeva e che era destinato alla propiziazione della Dea Madre preposta alla fertilità agraria; fra le statuette femminili che presentavano una accentuazione, talora esagerata, dei tratti connessi con la fecondità (seno, glutei), è da menzionare un esemplare del complesso di Tarxien, poiché si tratta di una statua di notevoli dimensioni che raggiunge l’altezza di 3 metri.
Degna di menzione risulta la struttura “labirintica" di Hal Saflieni che, benché presenti analogie con il contemporaneo circolo Brochtorff dell’isola di Gozo, sembra costituire ancora un unicum, per la sua estensione (copre una superficie di circa 500 metri quadrati e raggiunge una profondità di 11 metri), per la complessità dell’architettura e per i reperti in essa rinvenuti.
L’ipogeo di Hal Saflieni fu scavato nel tenero calcare a globigerine per mezzo di cunei e bastoni da scavo e le sue pareti erano state levigate con lame e raschiatoi in selce, la suddetta struttura, ascrivibile al Neolitico fu elaborata nell’arco di oltre un millennio, cosicché è lecito pensare che la destinazione dei tre piani di cui era formata, potesse mutare nel tempo. Il complesso constava di 33 ambienti che espletavano una funzione funeraria e cultuale; quest’ultima si svolgeva soprattutto nei locali del secondo livello, le cui stanze presentavano una tipologia architettonica analoga a quella dei templi in superficie. Gli ambienti del primo piano, databili al Neolitico Medio I-II (4100 a. C. – 3600 a. C.), sono venuti completamente alla luce in questi ultimi tempi, in seguito alla demolizione delle sovrastanti abitazioni dell’ipogeo. Infatti, la scoperta del monumento (1902) avvenne in circostanze casuali da parte di operai che, impegnati nell’edificazione di alcune case, scavarono un pozzo per l’acqua piovana e individuarono i locali del primo piano dell’ipogeo, che utilizzarono come luogo di discarica, arrecando danni ingentissimi. Al termine dei lavori, quando le case erano state costruite, il direttore del Museo Archeologico fu informato dell’esistenza del sotterraneo complesso cultuale-funerario del neolitico. Quest’ultimo presentava, nei tre livelli, una graduale evoluzione architettonica.
La forma del trilite d’ingresso, unitamente all’aspetto delle pareti delle camere che non erano state levigate e che mostrano ancora abbondanti tracce di ocra rossa (l’ocra rossa era il simbolo del sangue, della vita e della rinascita e ricollegabile al culto dei morti), attestava che il primo piano era da ascrivere alla fase più arcaica. Quest’ultimo, data la presenza di depositi di sepoltura, ossa e frammenti ceramici, sembrava spelare la preminente funzione sepolcrale alla quale era connessa quella cultuale.
Pare innegabile che fosse tributato un culto alla Dea Madre, ne costituisce una testimonianza eloquente il reperimento di una statuetta priva della testa e di due testine che, con ogni probabilità, venivano inserite sul collo delle statuette acefale (rinvenute anche nei templi maltesi) a primavera, quando il principio vitale (testa) avrebbe ricomposto l’integrità della Dea preposta a favorire il sorgere della vegetazione.
L’aspetto cultuale, presente soltanto in forma embrionale nel primo piano, si evolse fino ad acquistare tratti più nitidi e meglio definiti nel secondo;
l’architettura delle camere che riproduceva la struttura megalitica dei templi in superficie unitamente ai reperti archeologici dalle evidenti implicazioni religiose, denotava la funzione di “tempio sotterraneo” espletata dal secondo piano.
Ascrivibili al Neolitico Tardo I – III (fasi Gigantija – 3666 a. C. – 3300/3000 a. C. e Saflieni – Tarxien 3300/3000 a. C. – 2500 a. C.), periodo in cui furono eretti, nell’arcipelago maltese, imponenti templi megalitici in onore della Dea Madre, i grandi ambienti del secondo livello dell’ipogeo – le cui pareti e i soffitti mostravano, tra l’altro, raffinate decorazioni in ocra rossa – rappresentavano perfettamente i templi in superficie data la presenza, inoltre,di un “sancta sanctorum”.
In quest’ultimo, con ogni probabilità, doveva svolgersi il rito della ierogamia che implicava l’unione sacra tra il sacerdote e la sacerdotessa, simulacri, rispettivamente, del dio e della dea; tale rito, destinato a garantire la continuità dei cicli agrari e correlato con il culto della dea Madre, pareva attestato dal reperimento di statuette femminili nude e di un oggetto che rappresentava il simbolo fallico
(tali reperti vennero alla luce anche nelle strutture templari dell’arcipelago maltese).
La funzione sepolcrale espletata da questo piano era da ascrivere alla fase finale della sua frequentazione; d’altra parte, la mancanza di strutture architettoniche destinate a separare gli spazi riservati al culto da quelli riservati alla deposizione dei defunti, poteva escludere l’uso contemporaneo delle due funzioni, poiché l’aria, a diversi metri di profondità, sarebbe stata irrespirabile per chi dovesse svolgere le pratiche cultuali.
Al Neolitico Tardo III (3300/3000 a. C. – 2500 a. C.) erano da ascrivere gli ambienti del terzo piano che non presentavano elementi dell’architettura megalitica templare. Tuttavia, pareva ravvisarsi una primaria funzione cultuale anche in questi locali, data la presenza, nelle cellette più riposte del “labirinto”, di un “bacino sacro” destinato ad accogliere le offerte per la Dea Madre; inoltre, i dischi in ocra rossa dipinti sulle pareti, forse il simbolo del sole, erano ricollegabili al culto della fertilità. Il carattere sacrale pareva ulteriormente convalidato da una prova iniziatica che avrebbero dovuto superare i frequentatori dell’ipogeo, prova che implicava un pericolosissimo salto per chi dovesse raggiungere il terzo piano: infatti, vi era un considerevole dislivello dovuto all’omissione volontaria dell’ultimo gradino nella scala che collegava il secondo al terzo piano.La funzione sepolcrale era da attribuire, anche nel livello inferiore del monumento, alla fase finale della sua frequentazione.
L’ipogeo di Hal Saflieni costituisce l’esempio più eclatante delle fasi evolutive del “megalitismo maltese” e della connessione del culto della fertilità con quello dei morti; un tratto culturale, quest’ultimo, che ha caratterizzato ogni civiltà agraria del Neolitico.
Pandino – La reggia di campagna di Regina della Scala
Non c’è dubbio che quello di Pandino sia un castello, e ne abbia tutte le caratteristiche. Tuttavia, più che a funzioni difensive, deve la propria origine al desiderio di Regina della Scala di avere una comoda e fastosa residenza extraurbana che le ricordasse il paesaggio natio in riva all’Adige.
Pandino, costruito tra il 1354 e il 1361, è il modello quasi perfetto, del castello visconteo di pianura: una costruzione quadrata, con quattro torri di uguale forma agli angoli e quattro corpi di fabbrica. Questi delimitano un cortile anch’esso quadrato, contornato da un portico archi acuto al pianterreno e una loggia architravata al primo piano. Uno schema geometricamente perfetto, perfino negli aspetti meno visibili, come l’orientamento delle facciate, rigorosamente secondo i punti cardinali.
Ma, più che un castello, è una raffinata villa signorile, costruita in questa forma perché all’epoca non se ne sapevano concepire altre. Lo dimostrano le ampie bifore delle facciate, incongrue in un edificio da guerra per chi voglia godere della campagna.
Tra i Visconti di Milano e gli Scaglieri di Verona esisteva qualcosa di simile a un moderno “asse” politico, militare e culturale che, nonostante le frizioni e talvolta gli scontri tra le due dinastie, le legava a filo doppio.
Questo legame venne cementato da vari matrimoni dinastici, in particolare da quello di Regina della Scala con Bernabò Visconti, potentissimo signore di Milano, che per la moglie ebbe immenso affetto e stima, al punto da farne quasi il suo rappresentante nelle terre orientali della signoria.
Per lei costruì chiese in città, ristrutturò il suo palazzo milanese, fece erigere vari castelli in campagna e da qui Regina sovrintendeva al suo vasto territorio. Da parte loro i signori di Verona ispirarono la costruzione del proprio castello cittadino all’esempio delle fortificazioni viscontee.
Nella seconda metà del Quattrocento gli Sforza, succeduti ai Visconti come duchi di Milano, rimaneggiarono tutto il sistema difensivo dello stato milanese.
Nell’ambito di questa riforma, che portò a una ristrutturazione di tutto lo scacchiere difensivo dell’Adda, in contrapposizione alle conquiste veneziane, rafforzarono sia le mura di Pandino sia il castello. A quest’ultimo venne infatti addossati, in corrispondenza dei due ingressi, due bassi ma soliti torrioni dotati di ponte levatoi e di apparato a sporgere. Così in controtendenza rispetto all’evoluzione architettonica e militare che vide molti castelli trasformarsi in villa, Pandino assistette alla trasformazione di un palazzo signorile in struttura militare.
Il castello andò in disuso dopo la caduta della dinastia sforzesca, fino a diventare una residenza rurale. Il governo di Milano nel 1840 dovette addirittura fermare l’avanzata demolizione dovuta al riutilizzo dei materiali da costruzione. Dopo alcuni anni in cui fu adibito a vari usi, il castello è stato riscattato dall’amministrazione comunale nella seconda metà del Novecento e attentamente restaurato, raggiungendo oggi un eccellente grado di conservazione e manutenzione.
Regina della Scala non lasciò traccia di se solo nei suoi castelli, ma anche nella toponomastica milanese. Fu lei infatti a far costruire a Milano una chiesa che in onore della sua committente si chiamò Santa Maria della Scala.
La chiesa andò con il tempo distrutta; ma sul luogo sorse poi il teatro di corte, che dalla chiesa mediò il proprio nome di Teatro della Scala.
In questo modo il ricordo della nobildonna veronese gira tuttora per il mondo a indicare una delle grandi glorie di Milano.
I signori di Milano, in particolare i Visconti, estesero il loro dominio su gran parte dell’Italia settentrionale e centrale. Ma il fulcro della loro potenza, il ‘nocciolo’ duro che garantiva la sopravvivenza e il benessere della dinastia, era il territorio compreso tra il Ticino e l’Adda e tra le Alpi e il Po, con al centro Milano. Per renderlo impenetrabile a ogni nemico venne costruita lungo questi confini una nutrita serie di castelli, che costituivano una concatenazione di ‘scacchieri fortificati’ di presidio. Ogni via di approccio a Milano veniva così protetta da una o più fortificazioni, che ‘drenavano’ le eventuali forze nemiche, dando tempo al potere centrale di intervenire. La grande parte di questi castelli, da Bellinzona a Locarno giù sino a Bereguardo, Vigevano, Pavia, Sant’Angelo Lodigiano, Pandino, Trezzo, esiste tuttora. Essi costituiscono un’eccellente testimonianza di un sistema difensivo quasi unico nell’Italia del tempo.
Il castello di Pandino, acquistato dal Comune nel 1947, ospita oggi gli uffici comunali, la Biblioteca civica e il convitto della locale Scuola casearia professionale. Destinazioni d’uso che danno nuova vita e funzione alle antiche mura. Particolarmente interessanti sono affreschi che decorano tuttora, almeno in parte, il portico e la loggia del castello, nonché alcune delle sue sale. Sono basati sul motivo geometrico, tipicamente trecentesco, del quadrilobo, entro il quale sono raffigurati, in posizioni alterne, gli stemmi del biscione visconteo e della scala, in onore degli signori che fecero costruire l’edificio. Ricoperti di intonaco e in parte gravemente ammalorati nel corso del tempo, sono stati ricuperati da una lunga campagna di restauri.
Originariamente le torri del castello erano più alte delle attuali, e tutto il perimetro dell’edificio era merlato.
Con il tempo due, pericolanti, vennero cimate, cioè abbassate, e le coperture rimaneggiate, con la distruzione delle merlature in cima alle cortine.
È curiosa la disposizione dei due ingressi del castello, collocati in posizione antisimmetrica, cioè uno spostato sulla destra dell’edificio e uno sulla sinistra: un accorgimento forse casuale, ma che più probabilmente venne adottato per diminuirne la vulnerabilità in caso di attacco, facendo sì che lo sfondamento di uno di essi non si trasformasse in una trappola per i difensori impegnati dall’altro lato.
Heracleion un antica città sommersa
Scoperta nel Mediterraneo la mitologica citta’ egizia di Heracleion
Giaceva trenta metri sotto il livello del mare.
Ci sono voluti tre anni di scavi e quattro di ricerche geofisiche. La città porta il nome di Heracleion (per i greci) o Thonis (per gli antichi egizi). Una città a dir poco mitologica riemerge dagli abissi Mar Mediterraneo dopo essere stata sepolta nella sabbia e nel fango per più di 1.200 anni. La città in questione è Heracleion per gli antichi greci (Thonis per gli antichi egizi), che era stata scoperta a 30 metri sotto il livello del mare ad Abukir, nei pressi di Alessandria.
E' una città perduta tra leggenda e realtà.
Prima della fondazione di Alessandria nel 331 aC, la città conobbe momenti gloriosi come il porto obbligatorio di entrata in Egitto per tutte le navi provenienti dal mondo greco.
Aveva anche una importanza religiosa a causa del tempio di Amon, che ha svolto un ruolo importante nei riti connessi con la continuità della dinastia. La città fu fondata probabilmente intorno al 8 ° secolo aC, ha subito diverse catastrofi naturali, e, infine, affondato completamente nelle profondità del Mediterraneo nel 8 ° secolo dC. Prima della sua scoperta nel 2000 dal IEASM, non era stata trovata alcuna traccia di Thonis-Heracleion.
Il suo nome è stato quasi raso al suolo dalla memoria del genere umano, conservato solo in testi classici antichi e iscrizioni rare trovate a terra dagli archeologi.
Lo storico greco Erodoto (5 ° secolo aC) ci racconta di un grande tempio che è stato costruito dove il famoso eroe Eracle per primo vi aveva messo piede.
Riferisce inoltre della visita a Heracleion di Elena con il suo amante Paride prima della guerra di Troia.
Più di quattro secoli dopo la visita di Erodoto 'in Egitto, il geografo Strabone ha osservato che la città di Heracleion, che possedeva il tempio di Eracle, si trova direttamente a est del Canopo alla foce del ramo canopi del fiume Nilo.
Testa di Una statua colossale di granito rosso (5,4 m).
Rappresenta il dio Hapi, decorava il tempio di Heracleion.
Il dio delle innondazioni del Nilo.
Simbolo di abbondanza e di fertilità.
Non ê mai stato scoperto uno così grande, il che evidenzia
la sua importanza per la regione canopi.
QUESTO OGGETTO D'oro (11 x 5 cm)
E' stato trovato durante l'esplorazione preliminare del settore meridionale del Heracleion.
E' Incisa con ONU testo greco di cinque righe e mezzo.
ONU esempio di una targa che rappresenta una firma per depositi di fondazione in nome del re, Tolomeo III (246-222 aC), responsabile della costruzione.
La triade colossale del tempio di Heracleion insieme con i frammenti assemblati di un enorme stele.
Il Faraone, la Regina e il dio Hapi sono rappresentati in granito rosso.
Tutti di circa 5 metri di altezza, datate 4 ° Secolo aC.
La stele di granito rosso (trovato in 17 pezzi) è stata assemblata. Essa risale al 2 ° Secolo aC
Giaceva trenta metri sotto il livello del mare.
Ci sono voluti tre anni di scavi e quattro di ricerche geofisiche. La città porta il nome di Heracleion (per i greci) o Thonis (per gli antichi egizi). Una città a dir poco mitologica riemerge dagli abissi Mar Mediterraneo dopo essere stata sepolta nella sabbia e nel fango per più di 1.200 anni. La città in questione è Heracleion per gli antichi greci (Thonis per gli antichi egizi), che era stata scoperta a 30 metri sotto il livello del mare ad Abukir, nei pressi di Alessandria.
E' una città perduta tra leggenda e realtà.
Prima della fondazione di Alessandria nel 331 aC, la città conobbe momenti gloriosi come il porto obbligatorio di entrata in Egitto per tutte le navi provenienti dal mondo greco.
Aveva anche una importanza religiosa a causa del tempio di Amon, che ha svolto un ruolo importante nei riti connessi con la continuità della dinastia. La città fu fondata probabilmente intorno al 8 ° secolo aC, ha subito diverse catastrofi naturali, e, infine, affondato completamente nelle profondità del Mediterraneo nel 8 ° secolo dC. Prima della sua scoperta nel 2000 dal IEASM, non era stata trovata alcuna traccia di Thonis-Heracleion.
Il suo nome è stato quasi raso al suolo dalla memoria del genere umano, conservato solo in testi classici antichi e iscrizioni rare trovate a terra dagli archeologi.
Lo storico greco Erodoto (5 ° secolo aC) ci racconta di un grande tempio che è stato costruito dove il famoso eroe Eracle per primo vi aveva messo piede.
Riferisce inoltre della visita a Heracleion di Elena con il suo amante Paride prima della guerra di Troia.
Più di quattro secoli dopo la visita di Erodoto 'in Egitto, il geografo Strabone ha osservato che la città di Heracleion, che possedeva il tempio di Eracle, si trova direttamente a est del Canopo alla foce del ramo canopi del fiume Nilo.
Testa di Una statua colossale di granito rosso (5,4 m).
Rappresenta il dio Hapi, decorava il tempio di Heracleion.
Il dio delle innondazioni del Nilo.
Simbolo di abbondanza e di fertilità.
Non ê mai stato scoperto uno così grande, il che evidenzia
la sua importanza per la regione canopi.
QUESTO OGGETTO D'oro (11 x 5 cm)
E' stato trovato durante l'esplorazione preliminare del settore meridionale del Heracleion.
E' Incisa con ONU testo greco di cinque righe e mezzo.
ONU esempio di una targa che rappresenta una firma per depositi di fondazione in nome del re, Tolomeo III (246-222 aC), responsabile della costruzione.
La triade colossale del tempio di Heracleion insieme con i frammenti assemblati di un enorme stele.
Il Faraone, la Regina e il dio Hapi sono rappresentati in granito rosso.
Tutti di circa 5 metri di altezza, datate 4 ° Secolo aC.
La stele di granito rosso (trovato in 17 pezzi) è stata assemblata. Essa risale al 2 ° Secolo aC
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