giovedì 24 ottobre 2013
Fukushima, l'uomo che vive con gli animali
Keigo Sakamoto, 58 anni, è un eroe vivente dei nostri tempi. Ha sfidato apertamente l'ordine di lasciare le contaminate terre di Fukushima, devastate dal terribile incidente nucleare dell'11 marzo 2011, per prendersi cura degli animali abbandonati.
Nella sua casa, che si trova nella zona rossa vicino a Naraha, nella prefettura di Fukushima, ne ha accolti oltre 500.
A regalarci la sua storia è il fotografo Reuters Damir Sagolj, che ha visitato città e villaggi abbandonati e incontrato persone la cui vita è irrevocabilmente cambiata dal giorno indimenticabile del disastro. All'interno della zona rossa intorno all'impianto, Sagolj ha trovato una scena paragonabile a "un film horror in silenzio". Ma in mezzo alla carneficina e alle case deserte, una luce, una speranza, la vita. C'era un uomo che aveva sfidato il pericolo.
Il suo nome è Keigo Sakamoto, un agricoltore ed ex assistente di disabili mentali, considerato un pazzo da alcuni e un eroe da altri. Sakamoto ha rifiutato di evacuare ed è rimasto nelle sue terre contaminate, facendo degli animali la sua missione.
In questi anni si è avventurato in città e villaggi vuoti e ha raccolto una vera e propria Arca di Noè, con cani, gatti, conigli, polli e persino marmotte, quasi tutti abbandonati dagli ex proprietari quando hanno lasciato la zona.
Molti dei cani sono diventati selvaggi. "Non ci sono vicini. Io sono l'unico, ma sono qui per rimanere", dice Sakamoto, coraggioso samurai solitario, rimasto a difendere la comunità di animali non umani vittima del nucleare quanto l'uomo, abbracciando uno dei suoi cani, Atom, nato poco prima del disastro nucleare.
Roberta Ragni
Ecco come è nata la Luna: mega impatto tra la Terra e un pianeta grande quanto Marte
Nuove analisi e simulazioni al computer confermano l'ipotesi secondo la quale il nostro satellite sarebbe stato generato dall'impatto della Terra con un corpo planetario grande quanto Marte (e noto come Theia), avvenuto circa 4,5 miliardi di anni fa. Nato in questo modo, il nostro satellite dovrebbe aver ereditato i caratteri di entrambi i corpi celesti.
E invece no, somiglierebbe del tutto alla Terra, per quel che riguarda la composizione isotopica di alcuni elementi, come ossigeno e titanio. Un bel problema per la teoria dell'impatto, che ora però due studi pubblicati su Nature e Science cercano di risollevare, chiamando in causa nuove variabili con analisi delle rocce lunari e simulazioni al calcolatore.
Negli ultimi anni, la teoria secondo cui la Luna avrebbe avuto origine da un impatto della Terra con un altro corpo celeste è stata più volte messa in dubbio, tanto da richiedere, se non il suo abbandono, una profonda revisione. Ora tre nuovi studi, due pubblicati su “Science” e uno su "Nature", indicano che il modello dell’impatto gigante non richiede veri stravolgimenti, ed è in grado di superare le difficoltà.
Secondo la teoria dell'impatto gigante, proposta nella sua forma moderna a metà degli anni settanta, la Luna si sarebbe creata in uno scontro apocalittico tra un corpo planetario delle dimensioni approssimative di Marte, chiamato Theia (nella mitologia greca era la madre di Selene, la luna), e la Terra primordiale. L’enorme quantità di energia rilasciata nell’urto avrebbe fuso e vaporizzato Theia e parte del mantello della protoTerra. La Luna si sarebbe poi ricondensata a partire da questa nube di frammenti e vapori di roccia, di cui solo una piccola parte sarebbe rimasta sul nostro pianeta.
Questa idea guadagnò credito grazie al fatto che simulazioni al computer avevano mostrato che una collisione gigante avrebbe effettivamente potuto creare un sistema Terra-Luna con le giuste dinamiche orbitali e avrebbe spiegato alcune caratteristiche fondamentali delle rocce lunari.
Tuttavia, le successive analisi geochimiche delle rocce lunari evidenziarono dei problemi: la Terra e la Luna hanno la stessa composizione, mentre i modelli di impatto indicavano che avrebbero dovuto differire in modo sostanziale, poiché la Luna avrebbe dovuto essere composta prevalentemente da materiale originario di Theia.
Uno dei punti principali riguarda le osservazioni su campioni rocciosi raccolti nelle missioni Apollo, su campioni terrestri e meteoriti marziani. Le analisi effettuate da James Day della Scripps Institution of Oceanography, insieme a Randal Paniello eFrédéric Moynier della Washington University di St. Louis, pubblicate su Nature, mostrano bassissimi livelli di zinco, sostanza volatile (ovvero che evapora facilmente), nelle rocce lunari, arricchite però da isotopi pesanti dello stesso elemento.
I due nuovi studi su "Science" dimostrano invece che cambiando alcuni parametri nel modello di base l'incongruenza si supera. In un primo articolo, Matija Cuk e Sarah T. Stewart, del Dipartimento di scienze planetarie della Harvard University, hanno infatti mostrato che, partendo da una Terra dotata di una moto di rotazione più rapido di quello supposto nei precedenti scenari, un impatto gigante dotato di caratteristiche tali da erodere parte del mantello terrestre, avrebbe influito sulla formazione del pianeta e sui processi di convezione nel mantello, generando una nube di condensazione della Luna ben più “miscelata” e in grado di dar conto della somiglianza geochimica, mentre le interazioni gravitazionali fra il Sole, la Terra e la nuova Luna avrebbero portato, per la cosiddetta risonanza di evezione, a una riduzione del momento angolare del sistema Terra-Luna.
A un risultato analogo è arrivato anche Robin M. Canup del Southwest Research Institute a Boulder, in Colorado, mostrando con una simulazione che un impatto con un pianeta di dimensioni superiori a quelle finora considerate, paragonabili a quelle della stessa Terra, avrebbe dato origine a un disco protolunare e a un pianeta sostanzialmente con la stessa composizione. Un impatto di questo genere avrebbe anche prodotto un sistema dotato di un eccesso di momento angolare, ossia con una rotazione da 2 a 2,5 volte più rapida di quella attuale della Terra, che però potrebbe essere stato eliminato proprio attraverso i meccanismi individuati dalla ricerca di Cuk e Stewart
http://il navigatorecurioso.myblog.itE invece no, somiglierebbe del tutto alla Terra, per quel che riguarda la composizione isotopica di alcuni elementi, come ossigeno e titanio. Un bel problema per la teoria dell'impatto, che ora però due studi pubblicati su Nature e Science cercano di risollevare, chiamando in causa nuove variabili con analisi delle rocce lunari e simulazioni al calcolatore.
Negli ultimi anni, la teoria secondo cui la Luna avrebbe avuto origine da un impatto della Terra con un altro corpo celeste è stata più volte messa in dubbio, tanto da richiedere, se non il suo abbandono, una profonda revisione. Ora tre nuovi studi, due pubblicati su “Science” e uno su "Nature", indicano che il modello dell’impatto gigante non richiede veri stravolgimenti, ed è in grado di superare le difficoltà.
Secondo la teoria dell'impatto gigante, proposta nella sua forma moderna a metà degli anni settanta, la Luna si sarebbe creata in uno scontro apocalittico tra un corpo planetario delle dimensioni approssimative di Marte, chiamato Theia (nella mitologia greca era la madre di Selene, la luna), e la Terra primordiale. L’enorme quantità di energia rilasciata nell’urto avrebbe fuso e vaporizzato Theia e parte del mantello della protoTerra. La Luna si sarebbe poi ricondensata a partire da questa nube di frammenti e vapori di roccia, di cui solo una piccola parte sarebbe rimasta sul nostro pianeta.
Questa idea guadagnò credito grazie al fatto che simulazioni al computer avevano mostrato che una collisione gigante avrebbe effettivamente potuto creare un sistema Terra-Luna con le giuste dinamiche orbitali e avrebbe spiegato alcune caratteristiche fondamentali delle rocce lunari.
Tuttavia, le successive analisi geochimiche delle rocce lunari evidenziarono dei problemi: la Terra e la Luna hanno la stessa composizione, mentre i modelli di impatto indicavano che avrebbero dovuto differire in modo sostanziale, poiché la Luna avrebbe dovuto essere composta prevalentemente da materiale originario di Theia.
Uno dei punti principali riguarda le osservazioni su campioni rocciosi raccolti nelle missioni Apollo, su campioni terrestri e meteoriti marziani. Le analisi effettuate da James Day della Scripps Institution of Oceanography, insieme a Randal Paniello eFrédéric Moynier della Washington University di St. Louis, pubblicate su Nature, mostrano bassissimi livelli di zinco, sostanza volatile (ovvero che evapora facilmente), nelle rocce lunari, arricchite però da isotopi pesanti dello stesso elemento.
I due nuovi studi su "Science" dimostrano invece che cambiando alcuni parametri nel modello di base l'incongruenza si supera. In un primo articolo, Matija Cuk e Sarah T. Stewart, del Dipartimento di scienze planetarie della Harvard University, hanno infatti mostrato che, partendo da una Terra dotata di una moto di rotazione più rapido di quello supposto nei precedenti scenari, un impatto gigante dotato di caratteristiche tali da erodere parte del mantello terrestre, avrebbe influito sulla formazione del pianeta e sui processi di convezione nel mantello, generando una nube di condensazione della Luna ben più “miscelata” e in grado di dar conto della somiglianza geochimica, mentre le interazioni gravitazionali fra il Sole, la Terra e la nuova Luna avrebbero portato, per la cosiddetta risonanza di evezione, a una riduzione del momento angolare del sistema Terra-Luna.
A un risultato analogo è arrivato anche Robin M. Canup del Southwest Research Institute a Boulder, in Colorado, mostrando con una simulazione che un impatto con un pianeta di dimensioni superiori a quelle finora considerate, paragonabili a quelle della stessa Terra, avrebbe dato origine a un disco protolunare e a un pianeta sostanzialmente con la stessa composizione. Un impatto di questo genere avrebbe anche prodotto un sistema dotato di un eccesso di momento angolare, ossia con una rotazione da 2 a 2,5 volte più rapida di quella attuale della Terra, che però potrebbe essere stato eliminato proprio attraverso i meccanismi individuati dalla ricerca di Cuk e Stewart
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Sardegna : la tomba dei giganti
Sotto la crosta terrestre scorrono energie telluriche e forze magnetiche che fanno del nostro pianeta un autentico “organismo vivente”.
L’uomo, creatura figlia della Madre Terra, ha facoltà di interagire ed essere molto sensibile a questi “movimenti”, e, in particolari situazioni, di assorbirli inconsciamente. Queste energie sono più intense in certi ambienti piuttosto che in altri e recenti studi hanno rilevato che antichi luoghi sacri sono stati costruiti lungo questi canali energetici.
Ma chi e come ha scelto di innalzare un tempio in un determinato luogo piuttosto che in un altro, considerato che solo con la moderna tecnologia si è scoperto tutto questo?
L’architettura antica è molto diversa da quella odierna, innanzitutto si edificava non sopra la natura ma all’interno della natura stessa, in un caldo abbraccio vitale e benefico.
Svariati erano i metodi per la scelta dei luoghi, a volte cruenti come nel caso dei romani che, dopo aver fatto pascolare alcune greggi in un campo, dopo averli uccisi ne controllavano il fegato e se in buono stato si decideva di dare l’avvio ai lavori.
Altre volte i luoghi erano scelti in base al riposo degli animali in quanto si presupponeva fossero in stretto legame con la Terra, molto più dell’Uomo stesso. Ma spesso entravano in scena i cosiddetti “sensitivi”, che sceglievano il posto dove costruire il santuario.
Queste persone con innate capacità sensoriali che permettevano di percepire queste particolari energie, nel passato erano i druidi o i “santoni del villaggio” e venivano spesso interpellati.
Il neo tempio, già pregno delle forze magnetiche, si arricchiva a sua volta dell’energia degli abitanti che lì si recava a pregare. Spesso vi era anche la vicinanza di una fonte d’acqua, elemento fondamentale per i rituali, come viene dimostrato dagli innumerevoli pozzi sacri presenti in Sardegna.
In Gallura (la zona settentrionale) i numerosi siti sacri nuragici e prenuragici non si trovano in ambienti casuali, ma sono per la maggior parte eretti proprio su luoghi di intense forze telluriche.
Baluardi accumulatori di tali energie sarebbero proprio le Tombe dei Giganti, quelle strane costruzioni che ricoprono il territorio sardo, ma le possiamo trovare solamente in questa regione e in nessun’altra parte del mondo, motivo sufficiente per considerarle di importanza senza pari.
Sono costituite da un lungo corpo funerario entro il quale venivano riposti i corpi dei defunti.
Sono l’evoluzione dei dolmen che si sarebbero “allungati” creando le tombe a corridoio chiamate ALLEES COUVERTES con l’aggiunta di un’area sacra delimitata da una serie simmetrica di lastre ortostatiche.
Esse, a partire dalla stele centrale, la più alta, si espandono a semicerchio con altezze discendenti delimitando così una sorta di “piazza” davanti alla tomba, che ha il nome di ESEDRA.
Alla base dei menhir vi era quasi sempre un sedile che correva lungo tutta l’area sul quale gli officianti tenevano gli antichi rituali funerari.
Inoltre vi era la presenza di betili,chiari richiami alla presenza di Dio.
(Il betilo o (bétile - bethel) è una pietra a cui si attribuisce una funzione sacra in quanto dimora di una divinità o perché identificata con la divinità stessa.
Il termine (latino "Baetylos", greco "Baitylos") deriva infatti dall'ebraico Beith-El che significa "Casa di Dio".)
L’entrata è formata da una grossa e alta lastra di pietra con una porticina che collegherebbe l’esterno con l’interno della tomba.
Essa aveva il valore simbolico di unione tra il mondo dei vivi e l’oltretomba, alla cui base vi era un bancone sul quale venivano lasciate le offerte.
Tutto questo ricorda la funzione della “falsa porta” egizia, elemento che in Sardegna si ritrova spesso anche nelle “domus de janas” (tombe scavate nella roccia).
La falsa porta è il punto di contatto tra il mondo dei vivi e l’aldilà. Dinnanzi a questa finta apertura venivano poste le offerte di cui ne usufruiva la persona cara che da qui si sarebbe “affacciata” sulla Terra.
La porticina è talmente stretta che per un adulto risulta molto impegnativo passarvi attraverso, per cui essa doveva avere un ruolo esclusivamente simbolico e i defunti venivano calati dall’alto all’interno del corpo funerario.
Il corpo funerario è composto da un lungo buio corridoio, metafora del cammino nell’oltretomba, alla fine del quale si trova il sepolcro vero e proprio con la presenza di lastre su cui venivano posti oggetti di vita quotidiana che l’anima del defunto ne avrebbe “usufruito”.
Si chiamano tombe dei Giganti perché la tradizione vuole che ospitassero un unico corpo umano ed essendo spesso lunghe una decina di metri si pensava che fosse un uomo particolarmente alto. In realtà le tombe ospitavano molti corpi, come dimostrano i ritrovamenti ossei di decine di persone che a volte sfioravano il centinaio! Non si sa dunque se fossero “fosse comuni” o tombe dedicate a persone importanti come non si conosce il rituale di sepoltura e non si sa se venivano inseriti direttamente i corpi o addirittura soltanto le ossa.
Fatto sta che le tombe dei Giganti trasmettono un grande mistero dal punto di vista storico ma anche spirituale.
Mauro Aresu, il più importante studioso sardo di questo argomento, dopo aver a lungo studiato questa tipologia di monumenti, afferma che le tombe dei giganti costituiscono i punti più importanti di emanazione energetica al punto tale da avere la facoltà di “guarire” chiunque si rechi o si distenda al loro interno. La loro disposizione a semicerchio seguirebbe le linee energetiche telluriche catturandone il flusso di cui si impregnerebbero le stesse pietre (ecco perché per guarire è necessario distendersi sulla pietra, rituale presente in molte parti d’Italia) le quali, dopo averlo assorbito, lo avrebbero condotto come un filo elettrico verso la stele più alta che sarebbe così divenuta un autentico accumulatore.
Il corpo del defunto posizionato all’interno della tomba, avrebbe ricevuto un’energia tale da strappare la sua anima dal corpo, ricolma di nuova vita, quella della Madre Terra. Sarebbe insomma così risorta, tornando alla sua origine.
Queste tombe così accurate dal punto di vista architettonico, testimoniano un grande rispetto che la civiltà nuragica nutriva nei confronti della morte e della vita dell’oltretomba.
L’enorme fatica umana che queste costruzioni così imperiose ci dimostrano, i rituali, i grossi calcoli e le conoscenze nell’erigere i monumenti in precisi luoghi energetici, tacitamente ci narrano l’importanza dei popoli nuragici e prenuragici per il sacro.
Questi popoli tanto primitivi non lo erano, anzi più di noi comprendevano il senso della vita. E noi dobbiamo saperli osservare per capire quel significato della nostra esistenza che abbiamo perso nel corso della storia.
Isabella Dalla Vecchia - Luoghi Misteriosi
L’uomo, creatura figlia della Madre Terra, ha facoltà di interagire ed essere molto sensibile a questi “movimenti”, e, in particolari situazioni, di assorbirli inconsciamente. Queste energie sono più intense in certi ambienti piuttosto che in altri e recenti studi hanno rilevato che antichi luoghi sacri sono stati costruiti lungo questi canali energetici.
Ma chi e come ha scelto di innalzare un tempio in un determinato luogo piuttosto che in un altro, considerato che solo con la moderna tecnologia si è scoperto tutto questo?
L’architettura antica è molto diversa da quella odierna, innanzitutto si edificava non sopra la natura ma all’interno della natura stessa, in un caldo abbraccio vitale e benefico.
Svariati erano i metodi per la scelta dei luoghi, a volte cruenti come nel caso dei romani che, dopo aver fatto pascolare alcune greggi in un campo, dopo averli uccisi ne controllavano il fegato e se in buono stato si decideva di dare l’avvio ai lavori.
Altre volte i luoghi erano scelti in base al riposo degli animali in quanto si presupponeva fossero in stretto legame con la Terra, molto più dell’Uomo stesso. Ma spesso entravano in scena i cosiddetti “sensitivi”, che sceglievano il posto dove costruire il santuario.
Queste persone con innate capacità sensoriali che permettevano di percepire queste particolari energie, nel passato erano i druidi o i “santoni del villaggio” e venivano spesso interpellati.
Il neo tempio, già pregno delle forze magnetiche, si arricchiva a sua volta dell’energia degli abitanti che lì si recava a pregare. Spesso vi era anche la vicinanza di una fonte d’acqua, elemento fondamentale per i rituali, come viene dimostrato dagli innumerevoli pozzi sacri presenti in Sardegna.
In Gallura (la zona settentrionale) i numerosi siti sacri nuragici e prenuragici non si trovano in ambienti casuali, ma sono per la maggior parte eretti proprio su luoghi di intense forze telluriche.
Baluardi accumulatori di tali energie sarebbero proprio le Tombe dei Giganti, quelle strane costruzioni che ricoprono il territorio sardo, ma le possiamo trovare solamente in questa regione e in nessun’altra parte del mondo, motivo sufficiente per considerarle di importanza senza pari.
Sono costituite da un lungo corpo funerario entro il quale venivano riposti i corpi dei defunti.
Sono l’evoluzione dei dolmen che si sarebbero “allungati” creando le tombe a corridoio chiamate ALLEES COUVERTES con l’aggiunta di un’area sacra delimitata da una serie simmetrica di lastre ortostatiche.
Esse, a partire dalla stele centrale, la più alta, si espandono a semicerchio con altezze discendenti delimitando così una sorta di “piazza” davanti alla tomba, che ha il nome di ESEDRA.
Alla base dei menhir vi era quasi sempre un sedile che correva lungo tutta l’area sul quale gli officianti tenevano gli antichi rituali funerari.
Inoltre vi era la presenza di betili,chiari richiami alla presenza di Dio.
Il termine (latino "Baetylos", greco "Baitylos") deriva infatti dall'ebraico Beith-El che significa "Casa di Dio".)
L’entrata è formata da una grossa e alta lastra di pietra con una porticina che collegherebbe l’esterno con l’interno della tomba.
Essa aveva il valore simbolico di unione tra il mondo dei vivi e l’oltretomba, alla cui base vi era un bancone sul quale venivano lasciate le offerte.
Tutto questo ricorda la funzione della “falsa porta” egizia, elemento che in Sardegna si ritrova spesso anche nelle “domus de janas” (tombe scavate nella roccia).
La falsa porta è il punto di contatto tra il mondo dei vivi e l’aldilà. Dinnanzi a questa finta apertura venivano poste le offerte di cui ne usufruiva la persona cara che da qui si sarebbe “affacciata” sulla Terra.
La porticina è talmente stretta che per un adulto risulta molto impegnativo passarvi attraverso, per cui essa doveva avere un ruolo esclusivamente simbolico e i defunti venivano calati dall’alto all’interno del corpo funerario.
Il corpo funerario è composto da un lungo buio corridoio, metafora del cammino nell’oltretomba, alla fine del quale si trova il sepolcro vero e proprio con la presenza di lastre su cui venivano posti oggetti di vita quotidiana che l’anima del defunto ne avrebbe “usufruito”.
Si chiamano tombe dei Giganti perché la tradizione vuole che ospitassero un unico corpo umano ed essendo spesso lunghe una decina di metri si pensava che fosse un uomo particolarmente alto. In realtà le tombe ospitavano molti corpi, come dimostrano i ritrovamenti ossei di decine di persone che a volte sfioravano il centinaio! Non si sa dunque se fossero “fosse comuni” o tombe dedicate a persone importanti come non si conosce il rituale di sepoltura e non si sa se venivano inseriti direttamente i corpi o addirittura soltanto le ossa.
Fatto sta che le tombe dei Giganti trasmettono un grande mistero dal punto di vista storico ma anche spirituale.
Mauro Aresu, il più importante studioso sardo di questo argomento, dopo aver a lungo studiato questa tipologia di monumenti, afferma che le tombe dei giganti costituiscono i punti più importanti di emanazione energetica al punto tale da avere la facoltà di “guarire” chiunque si rechi o si distenda al loro interno. La loro disposizione a semicerchio seguirebbe le linee energetiche telluriche catturandone il flusso di cui si impregnerebbero le stesse pietre (ecco perché per guarire è necessario distendersi sulla pietra, rituale presente in molte parti d’Italia) le quali, dopo averlo assorbito, lo avrebbero condotto come un filo elettrico verso la stele più alta che sarebbe così divenuta un autentico accumulatore.
Il corpo del defunto posizionato all’interno della tomba, avrebbe ricevuto un’energia tale da strappare la sua anima dal corpo, ricolma di nuova vita, quella della Madre Terra. Sarebbe insomma così risorta, tornando alla sua origine.
Queste tombe così accurate dal punto di vista architettonico, testimoniano un grande rispetto che la civiltà nuragica nutriva nei confronti della morte e della vita dell’oltretomba.
L’enorme fatica umana che queste costruzioni così imperiose ci dimostrano, i rituali, i grossi calcoli e le conoscenze nell’erigere i monumenti in precisi luoghi energetici, tacitamente ci narrano l’importanza dei popoli nuragici e prenuragici per il sacro.
Questi popoli tanto primitivi non lo erano, anzi più di noi comprendevano il senso della vita. E noi dobbiamo saperli osservare per capire quel significato della nostra esistenza che abbiamo perso nel corso della storia.
Isabella Dalla Vecchia - Luoghi Misteriosi
Il fondo salva-Stati compra bund tedeschi e l'Italia finanzia Berlino
La Bce incassa 10 miliardi di cedole dai Btp. Il nostro Paese ha versato all'Esm oltre 11 miliardi ma non può utilizzarli per aiutare il credito
In Germania prevale il sospetto che l'Europa del Sud voglia usare il fondo salvataggi (Esm), nel quale il governo di Berlino è primo azionista, senza poi rimborsare.
Il timore ormai è così radicato che sfugge il lato opposto dell'equazione: per com'è stata strutturata la risposta all'eurocrisi, i contribuenti tedeschi oggi stanno ricevendo un sussidio silenzioso da parte di quelli italiani.
Né gli uni né gli altri lo hanno mai voluto, né probabilmente se ne sono resi conto.
Eppure il trasferimento di risorse da Sud a Nord delle Alpi vale ormai diversi miliardi.
In Germania in realtà si cerca soprattutto di evitare l'opposto, gli aiuti all'Europa meridionale.
La priorità tedesca oggi è rendere il fondo salvataggi europeo quasi inutilizzabile per l'unione bancaria.
Di qui l'ultima proposta di Wolfgang Schaeuble, il ministro dell'Economia: prima che i fondi dell'Esm vengano spesi per sostenere una banca in difficoltà - chiede Schaeuble - vanno imposte perdite a tutti i creditori dell'istituto.
Secondo Schaeuble ciò deve riguardare non solo gli obbligazionisti subordinati, quelli legalmente più esposti a un'insolvenza, ma anche chi ha comprato i bond più protetti.
La Germania fa poi un passo in più: chiede che queste perdite siano applicate fin da subito anche per istituti non in dissesto, ma che potrebbero esserlo in uno scenario (ipotetico)
È il modo tedesco di interpretare i cosiddetti "stress test", che 130 banche europee stanno per affrontare: si simula una caduta del Pil e si misura l'effetto che potrebbe avere sui bilanci degli istituti.
Così diventerebbe quasi impossibile usare il fondo salvataggi nell'unione bancaria, anche
perché la fiducia nelle banche sarebbe scossa molto prima.
È qui però che la corrente nei vasi comunicanti fra paesi inizia a invertirsi.
Con l'Esm di fatto inservibile per le banche, l'Italia in recessione e indebitata inizia a sussidiare una Germania sana e in ripresa. Possibile?
L'Esm ha una forza di fuoco potenziale di 700 miliardi di euro, raccolti in gran parte emettendo bond sui mercati. La sua base però è il capitale versato direttamente dai governi dell'area euro.
La settimana scorsa hanno tutti trasferito la quarta tranche, per un totale di 64 miliardi, e entro la prima metà del 2014 si arriverà a ottanta.
Poiché la Germania è primo azionista con una quota del 27,14%, ha già pagato al fondo europeo 17,3 miliardi e alla fine dovrà versarne 21,7. L'Italia, che è terzo azionista con il 17,91% (secondo è la Francia), ha versato 11,4 miliardi e nel 2014 saranno 14,3.
Le risorse pagate dal governo di Roma, se solo fossero rimaste in Italia, probabilmente basterebbero a gestire i problemi delle banche. Invece sono immobilizzate nell'Esm a Lussemburgo.
Ciò sarebbe utile nel caso in cui il fondo europeo potesse essere usato per le banche senza prima distruggere la fiducia degli investitori.
Per ora però di quei soldi dell'Esm si fa un uso diverso: vengono investiti prevalentemente in titoli di Stato tedeschi.
Ciò contribuisce, con i soldi dei contribuenti italiani, a ridurre i tassi sui Bund e su tutto il sistema finanziario in Germania, quindi ad allargare lo spread e lo svantaggio competitivo delle imprese in Italia.
L'Esm non comunica in dettaglio come gestisce il capitale affidatogli, ma i criteri sono chiari: non può comprare titoli con rating sotto la "doppia A" (dunque Italia e Spagna sono fuori) e compra "attività liquide di alta qualità".
Dunque certamente in buona parte Bund tedeschi.
È una scelta comprensibile, ma di fatto ciò significa che l'Europa del Sud sta sussidiando la Germania, senza poi poter attingere all'Esm per sostenere le proprie banche.
C'è poi un secondo, sostanziale trasferimento di risorse da Sud a Nord. Nel 2011 la Banca centrale europea acquistò circa 100 miliardi di euro in Btp in una fase in cui i rendimenti arrivarono anche a toccare l'8%.
Fu un rischio e una scelta provvidenziale.
Ma da allora il valore di quei titoli italiano è salito, in certi casi, anche di più del 20%.
E il governo italiano ha onorato alla Bce cedole per oltre dieci miliardi in tutto. La Bce non aveva mai guadagnato tanto con un solo investimento e la Bundesbank, suo primo socio, ne beneficia per circa un terzo.
Anche quei soldi sono andati dall'Italia al contribuente tedesco. Peccato che nessuno gliel'abbia mai spiegato
di Repubblica.it - economia
scritto da FEDERICO FUBINI
Salomone e la regina di Saba, tra mito e realtà
Oggi parliamo di Salomone, l’uomo che rimase nella storia per l’immane saggezza, per l’acume del proprio ingegno e per essere tre volte illuminato; l’uomo a cui ancora oggi ci riferiamo quando pensiamo a ciò che ci pare giusto e saggio; l'uomo la cui storia s’intreccia con quella di una donna, la Regina di Saba.
Una regina che un giorno partì, per conoscerlo e tornò alle proprie terre illuminata da Dio ove partorì un figlio chiamato Bayna-Lehekem che diede vita al regno d’Etiopia
Ma chi era realmente la regina di Saba?, era solo una figura mitica? Se fosse così, cosa ha alimentato l’incredibile leggenda che la circonda?
Gli arabi la conoscevano come la regina Bilquis, gli etiopi la chiamavano Macheda, per gli ebrei e i cristiani è la regina di Saba. La regina venne a conoscenza della fama di Salomone e si recò a Gerusalemme per conoscerne la saggezza.
Arrivò con un gran seguito e con cammelli carichi di spezie.
La storia della regina di Saba probabilmente ha origini giudee, ma esiste anche una versione persiana, la troviamo anche nel Corano difatti gli arabi affermano che credesse nella grandezza di Halla.
In nessuna parte del Mondo la leggenda della regina di Saba è più viva che in Etiopia.
Per questo popolo rappresenta il mito fondamentale della loro civiltà.
La storia tramanda che Saba, regina di Axum, aveva sentito decantare la saggezza del re Salomone e volle fargli visita per mettere alla prova la sua sapienza proverbiale.
Dalla visita a Gerusalemme, avvenuta tra il 1000 ed il 950 a.C. vi è menzione nel Talmud ebraico, nella Bibbia,l’Antico Testamento, nel Corano ed ovviamente nel Kebra Nagast,
Gloria dei re che è il libro fondamentale per la storia dell’impero degli altopiani, elaborato in Etiopia nel XIV secolo.
La storia dice che la regina di Saba recatasi dal potente re Salomone per sottoporgli alcuni enigmi per sondare le capacità tanto decantate del sovrano, ne rimase affascinata
Dall’unione del re Salomone con la regina, fu concepito Menelik, il cui significato intrinseco è “Figlio dell’uomo saggio” che portava nel sangue le tracce di una ascendenza divina e che sarebbe stato il capostipite di una stirpe salomonica; da qui nasce il fatto che gli Etiopi siano una un popolo eletto.
Menelik, cresciuto e divenuto re, fece proprio il simbolo del leone di Giuda che innalzò a simbolo del proprio regno.
Divenuto adulto, volle far visita al presunto padre Salomone e quando fece ritorno ad Axum, trafugò o gli fu affidata, l’Arca dell’Alleanza.
Essa non arrivò con Menelik ad Axum, ma impiegò qualche secolo dopo un lento peregrinare in terra d’Egitto.
Questo avvenimento è ricordato con i lenti ed esasperanti riti che la Chiesa Copta etiopica celebra in onore dell’Arca in occasione di Ghenna e Timkat che sono il Natale e l’Epifania del rito copto.
Le feste di celebrazione di queste due ricorrenze fanno rivivere lo splendore di quelle che furono le corti di Gerusalemme ed di Axum. La regina visse ad est di Sana’a, a Marib che era la capitale dell’antica Saba.
Marib era situata nel punto in cui si incrociavano le carovane che trasportavano incenso in direzione del mar Rosso e l’intera regione con il passare degli anni, a causa dei fortunati e fiorenti commerci, prese il nome di Arabia Felix.
Poche le tracce nella città per svelare il mistero che circonda la regina di Saba, se veramente è esistita si pensa che possa essere vissuta a Marib, al centro del deserto, circondata dallo splendore di grandi templi e palazzi.
Sempre secondo la leggenda, la Regina regnava su un dominio di grande ricchezza, oggi questo non sembrerebbe possibile in una terra così desolata e arida.
Fu costruito un grandioso sistema d’irrigazione che fece del deserto un giardino, l’acqua proveniva dalla grandiosa diga di Marib, lunga 640 metri ed alta 11 situata in pieno deserto in fondo allo Wadi Adhana.
Gli archeologi hanno scoperto che la diga, di cui ancora è evidente la struttura, sia stata costruita nel sesto secolo avanti Cristo, cioè 400 anni dopo il leggendario regno di Saba, ma sono state scoperte tracce di una precedente struttura più antica di qualche centinaia di anni. Per comprendere meglio questa storia analizziamo il libro sacro conosciuto come il Kebra Nagast
Il Kebra Nagast ebbe origine a partire da una serie di testi sionisti trascritti nei primi secoli dell’era cristiana.
La principale fonte su cui è basato questo primo nucleo è l’Antico Testamento, ma elementi furono tratti anche da testi rabbinici, leggende etiopi, egiziane e copte.
Successivamente furono introdotte influenze coraniche e di altri elementi della tradizione araba, principalmente palestinese e siriana, per esempio Il libro di Bee, nonché di testi cristiani apocrifi come Il libro di Adamo ed Eva, il Kufale, Le istruzioni di San Pietro al suo discepolo Clemente, La vita di Anna madre della vergine Maria, Il libro della Perla, L’ascesa di Isaia e altri minori. La prima parte del Kebra Nagast riporta storie del tutto simili a quelle Bibliche da Adamo, ed i suoi figli Abele, Caino, e Set; a Noè, che in un dialogo mistico riceve dal Creatore futura protezione; ad Abramo, che mandato adolescente a vendere idoli pagani invece li distrugge, e la sua unione con Dio immediatamente si palesa nell’arcobaleno per lui, e per la sua discendenza nell’Arca dell’Alleanza, costruita secondo i dettami comunicati dall’Onnipotente a Mosè sul monte Sinai, detta perciò “Zion”.
Ma senza dubbio per i credenti Rasta la vicenda chiave del libro è rappresentata dall’incontro tra il sovrano di Israele Salomone, e Makeda, la Regina del Sud ovvero di Saba, nome dell’Etiopia antica, che “innamorata della sua saggezza” affronta il lungo viaggio fino a Gerusalemme per conoscerlo ed apprenderne le virtù.
L’incontro tra i due sovrani è descritto anche nella Bibbia (1 Re 10 : Visita della Regina di Saba; 2 Cronache 9 : Gloria di Salomone), con la differenza che ivi non si accenna né al loro rapporto, né al loro figlio Bayna-Lehkem.
Nella narrazione del Kebra Nagast invece, il loro profondo ed appassionante dialogo diviene importante per varie ragioni: anzitutto la Regina Makeda decide da allora che non adorerà più il Sole come i suoi avi, bensì il Creatore, Dio di Israele, come Salomone, e questo rappresenta il passaggio dal un culto arcaico ad un moderno monoteismo.
Inoltre i due, innamoratisi, trascorrono alcune notti assieme, finche un mattino, Salomone prima che Makeda parta per tornare al suo regno, il Re le regala un anello speciale da donare all’eventuale frutto del loro amore: dalla loro unione infatti nascerà un bambino, Bayna-Lehkem, detto il figlio del Saggio, in seguito Imperatore col titolo di Menyelek I o Menelik, origine della stirpe dei sovrani d’Etiopia.
Questi, raggiunti i ventidue anni, parte alla ricerca del padre assieme al prezioso anello, per chiedergli un pezzo del drappo copertura di Zion, l’Arca dell’Alleanza, affinché anche il suo popolo possa venerarla: Salomone lo accoglie con tutti gli onori e insiste molto perché resti a regnare con lui, ma vedendolo deciso a tornare nella terra materna, preme per farlo almeno accompagnare da alcuni primogeniti israeliti che lo possano aiutare e consigliare nel futuro governo.
Però i giovani unendo forze ed ingegni, costruiscono una copia in legno dell’Arca, e trafugano l’originale verso l’Etiopia, percorrendo in un solo giorno, anziché trenta, il cammino fino al Nilo: Salomone, adirato ma sempre lucido, capisce subito come questo sia potuto accadere, quasi consapevole che da quel momento assieme a Zion, avrebbe perso anche la benedizione divina.
Questo passaggio è fondamentale poiché spiega il nesso tra il regno di Israele e quello di Etiopia, rappresentato da Menyelek e dalla sua discendenza.
Questa linea conduce direttamente fino a Ras Tafari Makonnen, duecentoventicinquesimo Imperatore della dinastia Salomonica, e non solo getta luce sulle radici prettamente Bibliche della cultura Rastafari, ma propone inoltre la teoria sullo spostamento in Etiopia dell’Arca dell’Alleanza, esattamente ad Aksum, il che implica anche la considerazione dell’Etiopia come nuova terra eletta da Dio, al posto di Israele, e della razza nera come popolo eletto. Secondo la tradizione etiope Ras Tafari Makonnen, incoronato Imperatore col nuovo nome di Hailé Selassié I, duecentoventicinquesimo discendente della dinastia Salomonica, attraverso la linea di David, appartenente alla Tribù di Giuda Il culto Rastafari Hailé Selassié è considerato ancora oggi il “difensore della fede” tanto che per il Rastafarianesimo l’imperatore è un simbolo religioso, identificato con il Messia nero, il Cristo stesso ritornato in gloria per regnare con un nome nuovo,non solo ma viene considerato l’incarnazione di Jah, il Dio supremo, venuto sulla terra per liberare le nazioni dal male nazifascista ed in primis la popolazione nera.
Il nome del movimento Rastafari deriva dal nome di battesimo dell’Imperatore Ras Tafari, che in amarico significa “Capo da temere”.
Il rastafarianesimo si è ispirato alla predicazione del leader Marcus Mosiah Garvey.
Altri elementi di spicco, che hanno avuto un ruolo primario nella nascita di questo credo: Leonard Howell, H. Archibald Dunkley, e Joseph Nathaniel Hibbert.
A partire dagli anni ottanta la cultura Rasta si è diffusa nel resto del mondo, soprattutto grazie a Bob Marley e alla musica reggae, che ne veicola i contenuti.
tratto dal web e da: umsoi.org
Una regina che un giorno partì, per conoscerlo e tornò alle proprie terre illuminata da Dio ove partorì un figlio chiamato Bayna-Lehekem che diede vita al regno d’Etiopia
Ma chi era realmente la regina di Saba?, era solo una figura mitica? Se fosse così, cosa ha alimentato l’incredibile leggenda che la circonda?
Gli arabi la conoscevano come la regina Bilquis, gli etiopi la chiamavano Macheda, per gli ebrei e i cristiani è la regina di Saba. La regina venne a conoscenza della fama di Salomone e si recò a Gerusalemme per conoscerne la saggezza.
Arrivò con un gran seguito e con cammelli carichi di spezie.
La storia della regina di Saba probabilmente ha origini giudee, ma esiste anche una versione persiana, la troviamo anche nel Corano difatti gli arabi affermano che credesse nella grandezza di Halla.
In nessuna parte del Mondo la leggenda della regina di Saba è più viva che in Etiopia.
Per questo popolo rappresenta il mito fondamentale della loro civiltà.
La storia tramanda che Saba, regina di Axum, aveva sentito decantare la saggezza del re Salomone e volle fargli visita per mettere alla prova la sua sapienza proverbiale.
Dalla visita a Gerusalemme, avvenuta tra il 1000 ed il 950 a.C. vi è menzione nel Talmud ebraico, nella Bibbia,l’Antico Testamento, nel Corano ed ovviamente nel Kebra Nagast,
Gloria dei re che è il libro fondamentale per la storia dell’impero degli altopiani, elaborato in Etiopia nel XIV secolo.
La storia dice che la regina di Saba recatasi dal potente re Salomone per sottoporgli alcuni enigmi per sondare le capacità tanto decantate del sovrano, ne rimase affascinata
Dall’unione del re Salomone con la regina, fu concepito Menelik, il cui significato intrinseco è “Figlio dell’uomo saggio” che portava nel sangue le tracce di una ascendenza divina e che sarebbe stato il capostipite di una stirpe salomonica; da qui nasce il fatto che gli Etiopi siano una un popolo eletto.
Menelik, cresciuto e divenuto re, fece proprio il simbolo del leone di Giuda che innalzò a simbolo del proprio regno.
Divenuto adulto, volle far visita al presunto padre Salomone e quando fece ritorno ad Axum, trafugò o gli fu affidata, l’Arca dell’Alleanza.
Essa non arrivò con Menelik ad Axum, ma impiegò qualche secolo dopo un lento peregrinare in terra d’Egitto.
Questo avvenimento è ricordato con i lenti ed esasperanti riti che la Chiesa Copta etiopica celebra in onore dell’Arca in occasione di Ghenna e Timkat che sono il Natale e l’Epifania del rito copto.
Le feste di celebrazione di queste due ricorrenze fanno rivivere lo splendore di quelle che furono le corti di Gerusalemme ed di Axum. La regina visse ad est di Sana’a, a Marib che era la capitale dell’antica Saba.
Marib era situata nel punto in cui si incrociavano le carovane che trasportavano incenso in direzione del mar Rosso e l’intera regione con il passare degli anni, a causa dei fortunati e fiorenti commerci, prese il nome di Arabia Felix.
Poche le tracce nella città per svelare il mistero che circonda la regina di Saba, se veramente è esistita si pensa che possa essere vissuta a Marib, al centro del deserto, circondata dallo splendore di grandi templi e palazzi.
Sempre secondo la leggenda, la Regina regnava su un dominio di grande ricchezza, oggi questo non sembrerebbe possibile in una terra così desolata e arida.
Fu costruito un grandioso sistema d’irrigazione che fece del deserto un giardino, l’acqua proveniva dalla grandiosa diga di Marib, lunga 640 metri ed alta 11 situata in pieno deserto in fondo allo Wadi Adhana.
Gli archeologi hanno scoperto che la diga, di cui ancora è evidente la struttura, sia stata costruita nel sesto secolo avanti Cristo, cioè 400 anni dopo il leggendario regno di Saba, ma sono state scoperte tracce di una precedente struttura più antica di qualche centinaia di anni. Per comprendere meglio questa storia analizziamo il libro sacro conosciuto come il Kebra Nagast
Il Kebra Nagast ebbe origine a partire da una serie di testi sionisti trascritti nei primi secoli dell’era cristiana.
La principale fonte su cui è basato questo primo nucleo è l’Antico Testamento, ma elementi furono tratti anche da testi rabbinici, leggende etiopi, egiziane e copte.
Successivamente furono introdotte influenze coraniche e di altri elementi della tradizione araba, principalmente palestinese e siriana, per esempio Il libro di Bee, nonché di testi cristiani apocrifi come Il libro di Adamo ed Eva, il Kufale, Le istruzioni di San Pietro al suo discepolo Clemente, La vita di Anna madre della vergine Maria, Il libro della Perla, L’ascesa di Isaia e altri minori. La prima parte del Kebra Nagast riporta storie del tutto simili a quelle Bibliche da Adamo, ed i suoi figli Abele, Caino, e Set; a Noè, che in un dialogo mistico riceve dal Creatore futura protezione; ad Abramo, che mandato adolescente a vendere idoli pagani invece li distrugge, e la sua unione con Dio immediatamente si palesa nell’arcobaleno per lui, e per la sua discendenza nell’Arca dell’Alleanza, costruita secondo i dettami comunicati dall’Onnipotente a Mosè sul monte Sinai, detta perciò “Zion”.
Ma senza dubbio per i credenti Rasta la vicenda chiave del libro è rappresentata dall’incontro tra il sovrano di Israele Salomone, e Makeda, la Regina del Sud ovvero di Saba, nome dell’Etiopia antica, che “innamorata della sua saggezza” affronta il lungo viaggio fino a Gerusalemme per conoscerlo ed apprenderne le virtù.
L’incontro tra i due sovrani è descritto anche nella Bibbia (1 Re 10 : Visita della Regina di Saba; 2 Cronache 9 : Gloria di Salomone), con la differenza che ivi non si accenna né al loro rapporto, né al loro figlio Bayna-Lehkem.
Nella narrazione del Kebra Nagast invece, il loro profondo ed appassionante dialogo diviene importante per varie ragioni: anzitutto la Regina Makeda decide da allora che non adorerà più il Sole come i suoi avi, bensì il Creatore, Dio di Israele, come Salomone, e questo rappresenta il passaggio dal un culto arcaico ad un moderno monoteismo.
Inoltre i due, innamoratisi, trascorrono alcune notti assieme, finche un mattino, Salomone prima che Makeda parta per tornare al suo regno, il Re le regala un anello speciale da donare all’eventuale frutto del loro amore: dalla loro unione infatti nascerà un bambino, Bayna-Lehkem, detto il figlio del Saggio, in seguito Imperatore col titolo di Menyelek I o Menelik, origine della stirpe dei sovrani d’Etiopia.
Questi, raggiunti i ventidue anni, parte alla ricerca del padre assieme al prezioso anello, per chiedergli un pezzo del drappo copertura di Zion, l’Arca dell’Alleanza, affinché anche il suo popolo possa venerarla: Salomone lo accoglie con tutti gli onori e insiste molto perché resti a regnare con lui, ma vedendolo deciso a tornare nella terra materna, preme per farlo almeno accompagnare da alcuni primogeniti israeliti che lo possano aiutare e consigliare nel futuro governo.
Però i giovani unendo forze ed ingegni, costruiscono una copia in legno dell’Arca, e trafugano l’originale verso l’Etiopia, percorrendo in un solo giorno, anziché trenta, il cammino fino al Nilo: Salomone, adirato ma sempre lucido, capisce subito come questo sia potuto accadere, quasi consapevole che da quel momento assieme a Zion, avrebbe perso anche la benedizione divina.
Questo passaggio è fondamentale poiché spiega il nesso tra il regno di Israele e quello di Etiopia, rappresentato da Menyelek e dalla sua discendenza.
Questa linea conduce direttamente fino a Ras Tafari Makonnen, duecentoventicinquesimo Imperatore della dinastia Salomonica, e non solo getta luce sulle radici prettamente Bibliche della cultura Rastafari, ma propone inoltre la teoria sullo spostamento in Etiopia dell’Arca dell’Alleanza, esattamente ad Aksum, il che implica anche la considerazione dell’Etiopia come nuova terra eletta da Dio, al posto di Israele, e della razza nera come popolo eletto. Secondo la tradizione etiope Ras Tafari Makonnen, incoronato Imperatore col nuovo nome di Hailé Selassié I, duecentoventicinquesimo discendente della dinastia Salomonica, attraverso la linea di David, appartenente alla Tribù di Giuda Il culto Rastafari Hailé Selassié è considerato ancora oggi il “difensore della fede” tanto che per il Rastafarianesimo l’imperatore è un simbolo religioso, identificato con il Messia nero, il Cristo stesso ritornato in gloria per regnare con un nome nuovo,non solo ma viene considerato l’incarnazione di Jah, il Dio supremo, venuto sulla terra per liberare le nazioni dal male nazifascista ed in primis la popolazione nera.
Il nome del movimento Rastafari deriva dal nome di battesimo dell’Imperatore Ras Tafari, che in amarico significa “Capo da temere”.
Il rastafarianesimo si è ispirato alla predicazione del leader Marcus Mosiah Garvey.
Altri elementi di spicco, che hanno avuto un ruolo primario nella nascita di questo credo: Leonard Howell, H. Archibald Dunkley, e Joseph Nathaniel Hibbert.
A partire dagli anni ottanta la cultura Rasta si è diffusa nel resto del mondo, soprattutto grazie a Bob Marley e alla musica reggae, che ne veicola i contenuti.
tratto dal web e da: umsoi.org
Le 52 gallerie del Monte Pasubio Veneto
La “strada delle 52 gallerie”, un sentiero escursionistico che porta fino al sommità del Monte Pasubio e lo costeggia lungo quello che un tempo era un camminamento di guerra realizzato dall’esercito italiano per portare armi e rifornimenti verso la cima del Pasubio senza essere esposti al fuoco nemico .
Si tratta di uno dei più interessanti percorsi escursionistici del Veneto in quanto è uno dei pochi sentieri che porta alla scoperta della storia, della natura e delle grandi opere ingegneristiche del passato.
Queste gallerie risalgono alla Prima Guerra Mondiale quando le truppe militari italiane si scontravano con l’esercito austroungarico lungo le linee che attraversavano le vallate fra Veneto e Trentino.
Il Monte Pasubio si trovava proprio nel cuore della battaglia e mentre dalla sommità l’esercito italiano sparava con la sua artiglieria verso le vallate trentine, le sue pendici erano bombardate dall’artiglieria austriaca che cercava di aprirsi un varco nelle linee italiane.
All’inizio del conflitto i militari italiani risalivano i pendii della montagna attraverso “la strada degli Scarubbi” che portava fino alle “porte del Pasubio” ma con l’avanza degli austriaci questo percorso divenne molto pericoloso in quanto esposto ai bombardamenti dell’artiglieria nemica.
Così l’Esercito Italiano decise di iniziare la costruzione di una camminamento di guerra sul versante meridionale dal massiccio del Pasubio.
I lavori di costruzione durarono solo 9 mesi e portarono alla realizzazione di un sentiero incastonato fra le pendici della montagna tra guglie e pareti quasi verticali.
Per poter raggiungere la vetta vennero ricavate ben 52 gallerie, opera realizzata da numerosi militari e squadre di operai civili.
La Strada delle 52 gallerie non fu mai teatro dello scontro diretto fra i due eserciti in quanto si trattava di una retrovia, tuttavia la sua costruzione permise all’Italia di mantenere il controllo di una montagna importante come il Pasubio e sbarrare l’accesso alla pianura padana all’avanzata nemica. Ripercorrendo questo camminamento si puo’ capire quanta è stata la fatica e l’audacia di questi uomini costretti a realizzare un’opera difensiva in un territorio impervio con condizioni meteorologiche spesso avverse ed un clima rigido, con il pericolo costante di cadere nelle gole che caratterizzano il versante sud di questa montagna.
La salita al Pasubio attraverso La strada delle 52 Gallerie inizia da Passo Xomo, un passo che si trova alle pendici del Monte Pasubio a quota 1100m.
Al passo si trovano dei posti auto (non molti) dove poter lasciare l’auto (o la moto) oppure si puo’ salire fino a Bocchetta Campiglia(1219m) e parcheggiare nel parcheggio a pagamento (costa 5€ ed è spesso affollato).
Noi abbiamo optato per la partenza da Colle Xomo.
Dal passo fino a Bocchetta Campiglia ci sono circa 10/15 minuti a piedi lungo una strada asfaltata, dopo aver raggiunto il punto di partenza (ben riconoscibile dalla struttura in ferro con la scritta “strada delle 52 gallerie”) si parte per l’escursione vera e propria. Subito all’imbocco del sentiero si trova una pensilina con dei pannelli che raccontano la storia di questo territorio e del conflitto che qui ha avuto luogo.
In 2-3 curve si arriva all’imbocco della prima galleria che riporta i riferimenti alle truppe che diedero vita a questa ardita opera ingegneristica.
Le Gallerie furono scavate seguendo la naturale conformazione della montagna e quindi si presentano alternate a tratti di sentiero più o meno lungo. Alcune gallerie sono molto corte (40-50 metri) mentre alcune sono molto lunghe (300 metri) e mentre le si percorre sembra di entrare sempre di più nel cuore della montagna.Non servivano solo a salire in quota ma diventavano depositi di munizioni e punti di controllo e di attacco.
Infatti in una delle gallerie si trova un Obice da 75mm che sparava verso il Monte Majo
Molte gallerie sono basse e quindi bisogna camminare piegati per evitare di battere la testa sul soffitto di roccia, inoltre l’acqua che filtra bagna il camminamento e quindi la salita puo’ rivelarsi difficoltosa (e pericolosa se non si affronta con cautela).
Per affrontare questo percorso abbiamo dovuto portare alcune pile elettriche (è consigliato averne una per persona) in alcune gallerie si deve affrontare un buio pesto (come se fosse notte fonda) e quindi senza l’ausilio delle torce è impossibile proseguire.
Alla fine della 15 galleria(circa) il sentiero è sempre più esposto al verticale della montagna, si cammina lasciando sul lato sinistro una parete che scende per decine e decine di metri con gole e dirupi che non lasciano speranza ed invitano a proseguire il con la massima cautela possibile.
Si sale sul lato destro ed il sentiero in alcuni punti costringe a proseguire in fila indiana.
La mancanza di protezione puo’ rappresentare un pericolo ma se di cammina con prudenza (come si dovrebbe far sempre in montagna) si puo’ godere di un panorama magnifico ed ammirare le guglie che salgono.
Come se la montagna volesse tener compagnia agli escursionisti
All’avvicinarsi della quarantesima galleria il panorama cambia ed inizia ad intravvedersi la parte alta del massiccio del Pasubio (dove c’è il rifugio ed i bivacchi), vedere il punto di arrivo è sempre una soddisfazione dopo ore di cammino
Proseguendo il cammino, ad un certo punto, ci si trova davanti ad un bivio, il sentiero a destra è la continuazione della strada delle gallerie, quello a destra è una scorciatoia che viene consigliata per evitare il pericolo di caduta massi.
Nonostante le indicazioni noi abbiamo proseguito lungo la strada delle gallerie, e come noi hanno fatto tanti altri. Le gallerie che troviamo nella parte finale del percorso (dalla 45 alla 52) risultano quasi più ostiche di quelle precedenti, qui l’acqua penetra a tal punto da rendere scivoloso sia il terreno che le pareti della galleria ed in più si devono affrontare salite e discese su gradini naturali che richiedono la massima prudenza
Usciti dall’ultima galleria ci si trova davanti al Rifugio A.Papa, una struttura abbastanza grande con bar, ristorante ed alloggi.
Questo rifugio è gestito dal CAI di Schio ed è la meta di tutti gli escursionisti che salgono per le 52 gallerie, per la strada degli eroi e la strada degli scarrubi.
Per raggiungere il rifugio ci abbiamo impiegato circa 4 ore ma abbiamo camminato molto tranquillamente ed ci siamo fermati più volte per scattare foto (e per il caldo cocente), le indicazioni CAI prevedono 3 ore di cammino.
Si tratta di uno dei più interessanti percorsi escursionistici del Veneto in quanto è uno dei pochi sentieri che porta alla scoperta della storia, della natura e delle grandi opere ingegneristiche del passato.
Queste gallerie risalgono alla Prima Guerra Mondiale quando le truppe militari italiane si scontravano con l’esercito austroungarico lungo le linee che attraversavano le vallate fra Veneto e Trentino.
Il Monte Pasubio si trovava proprio nel cuore della battaglia e mentre dalla sommità l’esercito italiano sparava con la sua artiglieria verso le vallate trentine, le sue pendici erano bombardate dall’artiglieria austriaca che cercava di aprirsi un varco nelle linee italiane.
All’inizio del conflitto i militari italiani risalivano i pendii della montagna attraverso “la strada degli Scarubbi” che portava fino alle “porte del Pasubio” ma con l’avanza degli austriaci questo percorso divenne molto pericoloso in quanto esposto ai bombardamenti dell’artiglieria nemica.
Così l’Esercito Italiano decise di iniziare la costruzione di una camminamento di guerra sul versante meridionale dal massiccio del Pasubio.
I lavori di costruzione durarono solo 9 mesi e portarono alla realizzazione di un sentiero incastonato fra le pendici della montagna tra guglie e pareti quasi verticali.
Per poter raggiungere la vetta vennero ricavate ben 52 gallerie, opera realizzata da numerosi militari e squadre di operai civili.
La Strada delle 52 gallerie non fu mai teatro dello scontro diretto fra i due eserciti in quanto si trattava di una retrovia, tuttavia la sua costruzione permise all’Italia di mantenere il controllo di una montagna importante come il Pasubio e sbarrare l’accesso alla pianura padana all’avanzata nemica. Ripercorrendo questo camminamento si puo’ capire quanta è stata la fatica e l’audacia di questi uomini costretti a realizzare un’opera difensiva in un territorio impervio con condizioni meteorologiche spesso avverse ed un clima rigido, con il pericolo costante di cadere nelle gole che caratterizzano il versante sud di questa montagna.
La salita al Pasubio attraverso La strada delle 52 Gallerie inizia da Passo Xomo, un passo che si trova alle pendici del Monte Pasubio a quota 1100m.
Al passo si trovano dei posti auto (non molti) dove poter lasciare l’auto (o la moto) oppure si puo’ salire fino a Bocchetta Campiglia(1219m) e parcheggiare nel parcheggio a pagamento (costa 5€ ed è spesso affollato).
Noi abbiamo optato per la partenza da Colle Xomo.
Dal passo fino a Bocchetta Campiglia ci sono circa 10/15 minuti a piedi lungo una strada asfaltata, dopo aver raggiunto il punto di partenza (ben riconoscibile dalla struttura in ferro con la scritta “strada delle 52 gallerie”) si parte per l’escursione vera e propria. Subito all’imbocco del sentiero si trova una pensilina con dei pannelli che raccontano la storia di questo territorio e del conflitto che qui ha avuto luogo.
In 2-3 curve si arriva all’imbocco della prima galleria che riporta i riferimenti alle truppe che diedero vita a questa ardita opera ingegneristica.
Le Gallerie furono scavate seguendo la naturale conformazione della montagna e quindi si presentano alternate a tratti di sentiero più o meno lungo. Alcune gallerie sono molto corte (40-50 metri) mentre alcune sono molto lunghe (300 metri) e mentre le si percorre sembra di entrare sempre di più nel cuore della montagna.Non servivano solo a salire in quota ma diventavano depositi di munizioni e punti di controllo e di attacco.
Infatti in una delle gallerie si trova un Obice da 75mm che sparava verso il Monte Majo
Molte gallerie sono basse e quindi bisogna camminare piegati per evitare di battere la testa sul soffitto di roccia, inoltre l’acqua che filtra bagna il camminamento e quindi la salita puo’ rivelarsi difficoltosa (e pericolosa se non si affronta con cautela).
Per affrontare questo percorso abbiamo dovuto portare alcune pile elettriche (è consigliato averne una per persona) in alcune gallerie si deve affrontare un buio pesto (come se fosse notte fonda) e quindi senza l’ausilio delle torce è impossibile proseguire.
Alla fine della 15 galleria(circa) il sentiero è sempre più esposto al verticale della montagna, si cammina lasciando sul lato sinistro una parete che scende per decine e decine di metri con gole e dirupi che non lasciano speranza ed invitano a proseguire il con la massima cautela possibile.
Si sale sul lato destro ed il sentiero in alcuni punti costringe a proseguire in fila indiana.
La mancanza di protezione puo’ rappresentare un pericolo ma se di cammina con prudenza (come si dovrebbe far sempre in montagna) si puo’ godere di un panorama magnifico ed ammirare le guglie che salgono.
Come se la montagna volesse tener compagnia agli escursionisti
All’avvicinarsi della quarantesima galleria il panorama cambia ed inizia ad intravvedersi la parte alta del massiccio del Pasubio (dove c’è il rifugio ed i bivacchi), vedere il punto di arrivo è sempre una soddisfazione dopo ore di cammino
Proseguendo il cammino, ad un certo punto, ci si trova davanti ad un bivio, il sentiero a destra è la continuazione della strada delle gallerie, quello a destra è una scorciatoia che viene consigliata per evitare il pericolo di caduta massi.
Nonostante le indicazioni noi abbiamo proseguito lungo la strada delle gallerie, e come noi hanno fatto tanti altri. Le gallerie che troviamo nella parte finale del percorso (dalla 45 alla 52) risultano quasi più ostiche di quelle precedenti, qui l’acqua penetra a tal punto da rendere scivoloso sia il terreno che le pareti della galleria ed in più si devono affrontare salite e discese su gradini naturali che richiedono la massima prudenza
Usciti dall’ultima galleria ci si trova davanti al Rifugio A.Papa, una struttura abbastanza grande con bar, ristorante ed alloggi.
Questo rifugio è gestito dal CAI di Schio ed è la meta di tutti gli escursionisti che salgono per le 52 gallerie, per la strada degli eroi e la strada degli scarrubi.
Per raggiungere il rifugio ci abbiamo impiegato circa 4 ore ma abbiamo camminato molto tranquillamente ed ci siamo fermati più volte per scattare foto (e per il caldo cocente), le indicazioni CAI prevedono 3 ore di cammino.
Food Art: le zucche intagliate di Ray Villafane
Con l'arrivo dell'autunno, Ray Villafane si rimette all'opera.
Si tratta di uno scultore specializzato nell'intaglio e nella decorazione delle zucche.
A partire da settembre, ogni anno, viaggia in tutto il mondo per trasformare le zucche in vere e proprie opere d'arte che destano stupore o che provocano un pizzico di paura.
Dal 19 al 22 settembre l'artista ha partecipato al più grande Festival della Zucca d'Europa, il Kürbisausstellung, che si è svolto a Ludwigsburg, in Germania. Ha così colto l'occasione per intagliare alcune zucche particolari.
Si tratta di zucche invernali coltivate in Germania (e non solo), i cui colori spaziano dal verde all'arancio, con strature blu. Sono note come zucche Hubbard.
Dal 26 al 29 settembre Villafane si è spostato a Zurigo, dove si è dedicato ancora per qualche giorno alla diffusione della propria arte in Europa. In questo momento lo scultore si trova ad Hong Kong, dove continuerà ad occuparsi di zucche e ad intagliare gli ortaggi più bizzarri in base alle varietà locali disponibili.
Sono nate così numerose zucche che ricordano mostri, streghe e zombie e che hanno garantito a chi le ha potute ammirare una interessante anticipazione dei festeggiamenti per Halloween.
Grazie alle zucche dalle striature verdi e blu, l'artista ha compreso per la prima volta l'importanza dei colori nelle proprie opere, al di là del classico arancione.
Come potete ammirare dalle immagini, i risultati sono a dir poco sorprendenti.
Marta Albè
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