giovedì 19 settembre 2013
L'isola di Pantelleria
Costantemente avvolta dalla brezza lieve e calda dello scirocco, l'isola di Pantelleria è una delle terre più affascinanti del mediterraneo.
Isola di origine vulcanica è un vero e proprio spettacolo della natura.
Qui, il nero della lava contrasta con i colori intensi e vitali delle bouganville e delle ginestre. Tutt'intorno il blu del mare fa da cornice al verde dei vigneti e dei fiori dei capperi, il prodotto più famoso di Pantelleria insieme allo Zibibbo, il vino passito.
Qui le calette sono dei veri e propri anfiteatri sul mare. Tra le tante e bellissime non si può non visitare Cala Levante, sovrastata dal roccioso Arco dell'Elefante; Cala Tramontana; Cala Cinque Denti; Punta Spadillo, uno sperone roccioso dominato da un paesaggio lunare con la piscina naturale delle Ondine e il magnifico Specchio di Venere, un laghetto di acque termali e sulfuree.
La sua natura vulcanica è poi rintracciabile nella presenza di piccoli crateri spenti e dalle coste scoscese inframmezzate da articolate insenature e dalle colate laviche, le emissioni di vapore fuoriuscenti dalle fessure del terreno o dalle pareti delle grotte costiere.
Per chi volesse approfondire l'origine vulcanica dell'isola, calzi scarponcini e si armi di tanta buona pazienza per raggiungere la Montagna Grande, il cratere vulcanico spento attorniato da un paesaggio lunare incredibile puntellato da coni vulcanici e crepacci che soffiano vapori bollenti, soffioni e sorgenti d'acque termali. Mare e vulcani a parte, Pantelleria è nota anche per le sue colture. Si deve agli arabi la coltura del cotone e dell’ulivo e il miglioramento della coltura dello zibibbo, l'uva tipica della zona.
Ancora oggi l'influenza araba si vede nella modalità con cui viene coltivata l'uva. Una tecnica che vede la creazione di terrazze coltivabili ricavate da muretti in pietra.
Della dominazione araba restano poi anche i dammusi (dall'arabo “damus”, edificio a volta), costruzioni particolari in pietra lavica con il tetto a cupola, molti dei quali oggigiorno sono diventati caratteristici e affascinanti resort.
Simbolo architettonico dell'isola, il dammuso, vede la sua nascita ad opera degli arabi nel X secolo D.C. Una struttura che oggigiorno potrebbe essere definita ecologica. Un modello di architettura che non ha nulla da invidiare alle conoscenze moderne.
L'ubicazione, infatti, non tiene solo conto degli aspetti morfologici del terreno su cui verrà costruita ma ha una struttura completamente in pietra che ha permesso una perfetta staticità.
La forma a cupola dei tetti ha permette poi che l'acqua piovana venga canalizzata verso le cisterne ubicate nei pressi del dammuso. Completano l'abitazione: un forno, la stalla, l'aia, lo stenditoio (essiccatoio, per uva, fichi e pomodori) il "passiaturi" (terrazzo in siciliano) e "U Jardinu"(il giardino costruito come un vero e proprio tempio per la coltivazione degli alberi di agrume, come limone, cedro e arancio)
Popoli della valle dell'Omo....Dove la "civiltà" avanza a braccetto con i soldi i popoli muoiono in massa
Un gigantesco progetto idroelettrico minaccia i popoli della bassa Valle dell’Omo.
Hanno abitato nella valle per secoli grazie ad efficaci tecniche di sostentamento alimentate dalle piene naturali del fiume Omo.
Ma oggi le tribù rischiano di perdere la loro indipendenza e la sicurezza alimentare, senza esser state nemmeno consultate.
Accaparramento di terre e reinsediamenti forzati
Nel 2011 il governo ha cominciato ad affittare enormi appezzamenti di terra fertile nella regione della bassa valle dell’Omo ad aziende malesi, italiane, indiane e coreane, specializzate nella coltivazione di palma da olio, jatropha, cotone e mais per la produzione di biocarburanti.
Per far spazio al grande progetto statale chiamato Kuraz Sugar Project, che potrebbe fagocitare un’area di 245.000 ettari, le autorità hanno iniziato a sfrattare dalle loro terre i Bodi, i Kwegu e i Mursi, trasferendoli in campi di reinsediamento.
Sono in fase di reinsediamento forzato anche i Suri che vivono ad ovest dell’Omo, sfrattati per far posto alla piantagione di palma da olio “Koka”.
I granai delle comunità e i loro preziosi pascoli sono stati distrutti. Chi si oppone al furto delle proprie terre, viene sistematicamente picchiato e confinato in prigione.
Numerose sono le denunce di stupro e persino di uccisione degli indigeni da parte dei militari che pattugliano la regione per tutelare gli operai che lavorano alle infrastrutture e alle piantagioni.
A Bodi, Mursi e Suri è stato intimato di liberarsi delle mandrie, che rappresentano una parte essenziale del loro sostentamento, e che nei campi di reinsediamento (dove forse potranno tenere solo qualche capo di bestiame), dovranno dipendere totalmente dagli aiuti governativi.
La diga alimenterà centinaia di chilometri di canali di irrigazione deviando l’acqua verso le piantagioni.
Non è stato effettuato nessuno studio di valutazione d’impatto ambientale o sociale sulle piantagioni e sugli schemi di irrigazione, e i popoli indigeni interessati non sono stati consultati.
Nonostante abbiano incontrato rappresentanti dei Mursi e dei Bodi e abbiano potuto ascoltare le loro testimonianze sulle gravi violazioni dei diritti umani in corso, Regno Unito e Stati Uniti, i due maggiori donatori all’Etiopia, hanno rinunciato a investigare su queste accuse.
La bassa Valle dell’Omo è un territorio di grande bellezza, in cui ecosistemi diversi si intersecano con una delle ultime foreste pluviali sopravvissute nelle regioni aride dell’Africa sub-sahariana. Ad alimentare la straordinaria biodiversità della regione e garantire la sicurezza alimentare dei suoi popoli sono le piene stagionali del fiume, prodotte dalle piogge degli altipiani.
Seppur in modi diversi, tutti i popoli della valle dipendono da una varietà di tecniche di sostentamento che si alternano e completano a vicenda con il mutare delle stagioni e delle condizioni climatiche: le coltivazioni di sorgo, mais, fagioli nelle radure alluvionali lungo le rive dell’Omo, le coltivazioni a rotazione nelle foreste pluviali e la pastorizia nelle savane o nei pascoli generati dalle esondazioni. Presa singolarmente, nessuna di queste attività è sufficiente a garantire loro la sopravvivenza. Ma, nel loro insieme, riescono a scongiurare ogni avversità climatica dando un contributo vitale alle loro economie.
Questi popoli hanno tra loro una rete consolidata di alleanze etniche, possono accedere alle risorse generate dalle piene dell’Omo nei momenti del bisogno, specialmente in caso di siccità e carestie.
Senza voce I popoli della valle dell’Omo soffrono da anni per la progressiva perdita di controllo e di accesso alle loro terre.
Negli anni ’60 e ’70, nei loro territori sono stati istituiti due parchi nazionali dalla cui gestione i popoli indigeni sono stati esclusi.
Nelle aree protette, la caccia è permessa ai turisti ma non ai popoli indigeni, esposti in tal modo alla malnutrizione.
Negli anni ’80, inoltre, parte delle loro terre sono state trasformate in grandi fattorie irrigate e controllate dallo stato mentre recentemente il governo ha iniziato a convertire altre aree in vaste piantagioni per la produzione di biocarburanti.
Anche se la costituzione etiope garantisce ai popoli indigeni il diritto al libero, prioritario e informato consenso su progetti destinati ad avere un impatto sulle loro vite, di fatto le comunità indigene restano per lo più ignare delle politiche implementate dal governo e non vengono mai consultate in modo appropriato.
I funzionari dell’USAID che hanno visitato la bassa valle dell’Omo nel gennaio 2009 per valutare l’impatto della diga Gibe III hanno reso noto che le comunità indigene locali non sapevano nulla del progetto. censurare il dissenso, nel febbraio 2009, il governo etiope ha varato il decreto 621/2009.
Il provvedimento impedisce a qualsiasi associazione o Ong locale che riceva più del 10% dei suoi finanziamenti da fondi esteri (quindi virtualmente tutte le associazioni esistenti nel paese) di lavorare in settori cruciali per la società civile tra cui quello dei diritti umani e della partecipazione democratica.
Nel luglio 2009, l’ufficio giudiziario della regione meridionale ha revocato il riconoscimento a 41 “associazioni comunitarie” locali con l’accusa di non cooperare con le politiche governative. Secondo molti osservatori, si è tratta di una manovra del governo effettuata per sradicare qualsiasi dibattito d’opposizione alla diga.
La diga Gibe III Nel luglio del 2006, il governo etiope ha appaltato alla società italiana Salini Costruttori la realizzazione del più grande progetto idroelettrico mai concepito nel paese.
Con i suoi 240 metri di altezza, la Gibe III è destinata a diventare la più alta diga mai realizzata al mondo con quel tipo di tecnologia, capace di produrre energia per 6.500 GWh all’anno.
Iniziati nel 2006 subito dopo la firma della commessa da 1,4 miliardi di euro, oggi i lavori di costruzione sono già arrivati a circa metà del totale e i suoi costi continuano a lievitare.
La diga sbarrerà il corso centro-settentrionale dell’Omo, il fiume che scorre impetuoso per 760 km dall’altopiano etiope fino al Lago Turkana, al confine con il Kenya.
Il fiume attraversa i parchi nazionali Mago e Omo e, nel 1980, il suo bacino è stato inserito nell’elenco dei Patrimoni dell’Umanità dell’Unesco per la sua particolare importanza geologica e archeologica.
Le leggi ambientali etiopi vietano la realizzazione di progetti che non siano stati preventivamente sottoposti a complete valutazioni di impatto ambientale e sociale (Environmental Social Impact Assessment – ESIA).
Nonostante questo, l’Authority etiope per la protezione dell’ambiente (EPA) ha approvato retroattivamente le valutazioni d’impatto della Gibe III solo nel luglio 2008, con quasi due anni di ritardo, e senza effettuare le necessarie consultazioni pubbliche.
Il contratto tra la Salini e l’azienda energetica etiope EEPCo, inoltre, è stato concluso senza gara d’appalto, in aperta violazione delle severe leggi etiopi volte a prevenire la corruzione nel settore delle grandi opere pubbliche.
L’appalto a trattativa diretta è una grave anomalia che non si conforma nemmeno alle procedure di finanziamento previste dalla Cooperazione italiana allo Sviluppo né a quelle applicate in materia dalla Banca Africana di Sviluppo, dall’Unione Europea e dalla Banca Mondiale.
Gli studi di impatto della diga Gibe III
(ESIA) sono stati effettuati dall’agenzia milanese CESI per conto dell’azienda energetica etiope EEPCo e della società costruttrice Salini.
Pubblicati in versione definitiva nel gennaio 2009, i suoi risultati sono saldamente favorevoli al progetto, il cui impatto sull’ambiente e sulle popolazioni interessate viene valutato come “trascurabile” o addirittura “positivo”.
Ma in molti ne hanno messo in dubbio l’attendibilità e l’indipendenza. ‘Le analisi [del CESI] si basano su una serie di false premesse e sono ulteriormente compromesse da massicce omissioni, distorsioni e offuscamenti.
AFRICA RESOURCES WORKING GROUP (ARWG) ’ Secondo numerosi esperti indipendenti, la diga, le piantagioni e i canali di irrigazione avranno un enorme impatto sui delicati ecosistemi della regione e sulle comunità indigene che abitano lungo le sponde del fiume fino al suo delta, al confine con il Kenya.
La portata dell’Omo – denunciano gli scienziati – subirà una drastica riduzione. Il fenomeno interromperà il ciclo naturale delle esondazioni che periodicamente riversano acqua e humus nella valle alimentando le foreste e rendendo possibile l’agricoltura e la pastorizia nei terreni rivivificati dalla acque.
Tutte le economie di sussistenza legate direttamente e indirettamente al fiume collasseranno compromettendo la sicurezza alimentare di almeno 200.000 persone in Etiopia.
Popoli come i Kwegu, che vivono solo di pesca e caccia, saranno devastati.
La competizione per le scarse risorse disponibili aumenterà anche i conflitti inter-etnici.
Gravissime, denunciano gli scienziati, anche le ripercussioni sul lago Turkana del Kenya, che riceve più del 90% delle sue acque dal fiume Omo.
Il drastico abbassamento del livello del lago potrebbe compromettere irreversibilmente le possibilità di sostentamento di almeno altre 300.000 persone tra cui i Turkana e i Rendille, che dal lago dipendono per pescare e procurarsi acqua potabile.
Hanno abitato nella valle per secoli grazie ad efficaci tecniche di sostentamento alimentate dalle piene naturali del fiume Omo.
Ma oggi le tribù rischiano di perdere la loro indipendenza e la sicurezza alimentare, senza esser state nemmeno consultate.
Accaparramento di terre e reinsediamenti forzati
Nel 2011 il governo ha cominciato ad affittare enormi appezzamenti di terra fertile nella regione della bassa valle dell’Omo ad aziende malesi, italiane, indiane e coreane, specializzate nella coltivazione di palma da olio, jatropha, cotone e mais per la produzione di biocarburanti.
Per far spazio al grande progetto statale chiamato Kuraz Sugar Project, che potrebbe fagocitare un’area di 245.000 ettari, le autorità hanno iniziato a sfrattare dalle loro terre i Bodi, i Kwegu e i Mursi, trasferendoli in campi di reinsediamento.
Sono in fase di reinsediamento forzato anche i Suri che vivono ad ovest dell’Omo, sfrattati per far posto alla piantagione di palma da olio “Koka”.
I granai delle comunità e i loro preziosi pascoli sono stati distrutti. Chi si oppone al furto delle proprie terre, viene sistematicamente picchiato e confinato in prigione.
Numerose sono le denunce di stupro e persino di uccisione degli indigeni da parte dei militari che pattugliano la regione per tutelare gli operai che lavorano alle infrastrutture e alle piantagioni.
A Bodi, Mursi e Suri è stato intimato di liberarsi delle mandrie, che rappresentano una parte essenziale del loro sostentamento, e che nei campi di reinsediamento (dove forse potranno tenere solo qualche capo di bestiame), dovranno dipendere totalmente dagli aiuti governativi.
La diga alimenterà centinaia di chilometri di canali di irrigazione deviando l’acqua verso le piantagioni.
Non è stato effettuato nessuno studio di valutazione d’impatto ambientale o sociale sulle piantagioni e sugli schemi di irrigazione, e i popoli indigeni interessati non sono stati consultati.
Nonostante abbiano incontrato rappresentanti dei Mursi e dei Bodi e abbiano potuto ascoltare le loro testimonianze sulle gravi violazioni dei diritti umani in corso, Regno Unito e Stati Uniti, i due maggiori donatori all’Etiopia, hanno rinunciato a investigare su queste accuse.
La bassa Valle dell’Omo è un territorio di grande bellezza, in cui ecosistemi diversi si intersecano con una delle ultime foreste pluviali sopravvissute nelle regioni aride dell’Africa sub-sahariana. Ad alimentare la straordinaria biodiversità della regione e garantire la sicurezza alimentare dei suoi popoli sono le piene stagionali del fiume, prodotte dalle piogge degli altipiani.
Seppur in modi diversi, tutti i popoli della valle dipendono da una varietà di tecniche di sostentamento che si alternano e completano a vicenda con il mutare delle stagioni e delle condizioni climatiche: le coltivazioni di sorgo, mais, fagioli nelle radure alluvionali lungo le rive dell’Omo, le coltivazioni a rotazione nelle foreste pluviali e la pastorizia nelle savane o nei pascoli generati dalle esondazioni. Presa singolarmente, nessuna di queste attività è sufficiente a garantire loro la sopravvivenza. Ma, nel loro insieme, riescono a scongiurare ogni avversità climatica dando un contributo vitale alle loro economie.
Questi popoli hanno tra loro una rete consolidata di alleanze etniche, possono accedere alle risorse generate dalle piene dell’Omo nei momenti del bisogno, specialmente in caso di siccità e carestie.
Senza voce I popoli della valle dell’Omo soffrono da anni per la progressiva perdita di controllo e di accesso alle loro terre.
Negli anni ’60 e ’70, nei loro territori sono stati istituiti due parchi nazionali dalla cui gestione i popoli indigeni sono stati esclusi.
Nelle aree protette, la caccia è permessa ai turisti ma non ai popoli indigeni, esposti in tal modo alla malnutrizione.
Negli anni ’80, inoltre, parte delle loro terre sono state trasformate in grandi fattorie irrigate e controllate dallo stato mentre recentemente il governo ha iniziato a convertire altre aree in vaste piantagioni per la produzione di biocarburanti.
Anche se la costituzione etiope garantisce ai popoli indigeni il diritto al libero, prioritario e informato consenso su progetti destinati ad avere un impatto sulle loro vite, di fatto le comunità indigene restano per lo più ignare delle politiche implementate dal governo e non vengono mai consultate in modo appropriato.
I funzionari dell’USAID che hanno visitato la bassa valle dell’Omo nel gennaio 2009 per valutare l’impatto della diga Gibe III hanno reso noto che le comunità indigene locali non sapevano nulla del progetto. censurare il dissenso, nel febbraio 2009, il governo etiope ha varato il decreto 621/2009.
Il provvedimento impedisce a qualsiasi associazione o Ong locale che riceva più del 10% dei suoi finanziamenti da fondi esteri (quindi virtualmente tutte le associazioni esistenti nel paese) di lavorare in settori cruciali per la società civile tra cui quello dei diritti umani e della partecipazione democratica.
Nel luglio 2009, l’ufficio giudiziario della regione meridionale ha revocato il riconoscimento a 41 “associazioni comunitarie” locali con l’accusa di non cooperare con le politiche governative. Secondo molti osservatori, si è tratta di una manovra del governo effettuata per sradicare qualsiasi dibattito d’opposizione alla diga.
La diga Gibe III Nel luglio del 2006, il governo etiope ha appaltato alla società italiana Salini Costruttori la realizzazione del più grande progetto idroelettrico mai concepito nel paese.
Con i suoi 240 metri di altezza, la Gibe III è destinata a diventare la più alta diga mai realizzata al mondo con quel tipo di tecnologia, capace di produrre energia per 6.500 GWh all’anno.
Iniziati nel 2006 subito dopo la firma della commessa da 1,4 miliardi di euro, oggi i lavori di costruzione sono già arrivati a circa metà del totale e i suoi costi continuano a lievitare.
La diga sbarrerà il corso centro-settentrionale dell’Omo, il fiume che scorre impetuoso per 760 km dall’altopiano etiope fino al Lago Turkana, al confine con il Kenya.
Il fiume attraversa i parchi nazionali Mago e Omo e, nel 1980, il suo bacino è stato inserito nell’elenco dei Patrimoni dell’Umanità dell’Unesco per la sua particolare importanza geologica e archeologica.
Le leggi ambientali etiopi vietano la realizzazione di progetti che non siano stati preventivamente sottoposti a complete valutazioni di impatto ambientale e sociale (Environmental Social Impact Assessment – ESIA).
Nonostante questo, l’Authority etiope per la protezione dell’ambiente (EPA) ha approvato retroattivamente le valutazioni d’impatto della Gibe III solo nel luglio 2008, con quasi due anni di ritardo, e senza effettuare le necessarie consultazioni pubbliche.
Il contratto tra la Salini e l’azienda energetica etiope EEPCo, inoltre, è stato concluso senza gara d’appalto, in aperta violazione delle severe leggi etiopi volte a prevenire la corruzione nel settore delle grandi opere pubbliche.
L’appalto a trattativa diretta è una grave anomalia che non si conforma nemmeno alle procedure di finanziamento previste dalla Cooperazione italiana allo Sviluppo né a quelle applicate in materia dalla Banca Africana di Sviluppo, dall’Unione Europea e dalla Banca Mondiale.
Gli studi di impatto della diga Gibe III
(ESIA) sono stati effettuati dall’agenzia milanese CESI per conto dell’azienda energetica etiope EEPCo e della società costruttrice Salini.
Pubblicati in versione definitiva nel gennaio 2009, i suoi risultati sono saldamente favorevoli al progetto, il cui impatto sull’ambiente e sulle popolazioni interessate viene valutato come “trascurabile” o addirittura “positivo”.
Ma in molti ne hanno messo in dubbio l’attendibilità e l’indipendenza. ‘Le analisi [del CESI] si basano su una serie di false premesse e sono ulteriormente compromesse da massicce omissioni, distorsioni e offuscamenti.
AFRICA RESOURCES WORKING GROUP (ARWG) ’ Secondo numerosi esperti indipendenti, la diga, le piantagioni e i canali di irrigazione avranno un enorme impatto sui delicati ecosistemi della regione e sulle comunità indigene che abitano lungo le sponde del fiume fino al suo delta, al confine con il Kenya.
La portata dell’Omo – denunciano gli scienziati – subirà una drastica riduzione. Il fenomeno interromperà il ciclo naturale delle esondazioni che periodicamente riversano acqua e humus nella valle alimentando le foreste e rendendo possibile l’agricoltura e la pastorizia nei terreni rivivificati dalla acque.
Tutte le economie di sussistenza legate direttamente e indirettamente al fiume collasseranno compromettendo la sicurezza alimentare di almeno 200.000 persone in Etiopia.
Popoli come i Kwegu, che vivono solo di pesca e caccia, saranno devastati.
La competizione per le scarse risorse disponibili aumenterà anche i conflitti inter-etnici.
Gravissime, denunciano gli scienziati, anche le ripercussioni sul lago Turkana del Kenya, che riceve più del 90% delle sue acque dal fiume Omo.
Il drastico abbassamento del livello del lago potrebbe compromettere irreversibilmente le possibilità di sostentamento di almeno altre 300.000 persone tra cui i Turkana e i Rendille, che dal lago dipendono per pescare e procurarsi acqua potabile.
Dossier e documenti per approfondimenti:
- Il dossier di International Rivers La Diga Gibe III in Etiopia – Causa di carestie e conflitti (in italiano).
- Il dossier dell’associazione Campagna per la Riforma della Banca Mondiale (CRBM) L’Affare Gilgel Gibe – Tutto quello che la cooperazione non dovrebbe fare (in italiano).
- Lake Turkana and the Lower Omo – Hydrological Impacts of Major Dam and Irrigation Projects (Il lago Turkana e la bassa Valle dell’Omo – Impatti idrologici di una grande diga e dei progetti di irrigazione) è stato pubblicato dal Centro Studi africani dell’Università di Oxford.
- Humanitarian Catastrophe and Regional Armed Conflict Brewing in the Transborder Region of Ethiopia, Kenya and South Sudan (Catastrofe umanitaria e conflitto regionale armato nella zona di confine tra Etiopia, Kenya e Sud Sudan), pubblicato dall’Africa Resources Working Group.
- The Downstream Impacts of Ethiopia’s Gibe III Dam – East Africa’s Aral Sea in the Making? (L’impatto a valle della diga Gibe III in Etiopia – Il futuro lago d’Aral dell’Africa Orientale?) pubblicato da International Rivers.
- Human Rights Watch Report ‘What will happen if hunger comes (in inglese).
- Il dossier dell’Istituto Oakland Omo Land Deal Brief (in inglese).
L'annuale nuotata dei pony a Chincoteague
Ogni anno, circa 150 pony Chincoteague selvatici vengono radunati su Assateague, un'isola situata al largo della costa orientale della penisola di Delmarva, negli Stati Uniti, tra Virginia e Maryland. Alcuni volontari, chiamati "Saltwater Cowboys", prendono i pony per una nuotata attraverso l'Assateague Channel verso un'altra isola, Chincoteague, dove i puledri prima vengono fatti sfilare e poi venduti all'asta.
E' questo l'ennesimo esempio di spettacolarizzazione degli animali ad uso e consumo umano, qui in veste tipicamente "americana", con tanto di cowboy a corredare lo show.
I pony Chincoteague, che in realtà fenotipicamente sono cavalli, pascolano in due mandrie distinte sull'isola, divisi da una recinzione al confine di stato tra Maryland e Virginia.
Sono 150 i cavallini che vivono su entrambi i lati della barricata, gestiti da due diverse agenzie federali con strategie molto diverse per il controllo della popolazione.
Per "sfoltire" il gruppo dei cavalli del lato della Virginia, infatti, si è optato per la vendita all'asta, proprio in occasione di questa anacronistica tradizione centenaria. Per questo gli esemplari sono sottoposti a un controllo veterinario due volte l'anno, in modo che seguano la profilassi per vivere tra la popolazione equina una volta venduti.
La prossima nuotata si svolgerà il 30 luglio 2014 e sarà l'89ima edizione della "Chincoteague's annual Pony Swim", con una lunga settimana di eventi sulle isole per festeggiare un evento che si cerca di giustificare con la necessità di "sfoltire" la mandria di cavalli selvatici.
Decine di migliaia di spettatori da tutto il mondo si riuniscono qui proprio per osservare i cavalli in acqua e/o acquistarli.
Nel 2013 hanno impiegato circa 5 minuti e 20 secondi per attraversare il canale, nonostante le pessime e rischiose condizioni atmosferiche, che non hanno comunque fermato lo "show". Il primo puledro giunto a riva è stato chiamato, come ogni anno, King or Queen Neptune, a seconda del sesso, ed è stato assegnato come premio di una lotteria.
Alla stregua di qualsiasi altra merce.
I biglietti per aggiudicarselo vengono venduti tra la folla che attende con ansia l'affascinante (e redditizio) spettacolo.
Resta inascoltato, però, il punto di vista dei cavalli selvatici, il cui diritto di vivere liberi viene calpestato puntualmente.
Fonte : http://greenme.it/
Il formaggio più nutriente e caro al mondo
Il formaggio di asina è il più nutriente e caro del mondo: il latte con cui viene prodotto è molto prezioso.
Ricco di proteine e sostanze nutrienti il latte d’asina è considerato il più simile al latte materno, diventando un alimento fondamentale nella dieta dei neonati allergici alle proteine del latte vaccino. Ma è anche vero che il latte d’asina è prezioso perché viene prodotto raramente e solo da agricoltori dotati di pazienza e amore verso il proprio lavoro.
In Italia ci sono solo tre aziende agricole produttrici di latte d’asina, che hanno dato vita al Consorzio Italiano Latte Asina (CILA). Le tra aziende sono dislocate nel Lazio, nell’Abruzzo e nella Puglia, ma per permettere un commercio nazionale dei loro prodotti hanno realizzato un sito ad hoc, dove forniscono un numero verde a cui chiamare e prenotare il latte d’asina.
A dare vita al formaggio di asina non è nessuno dei tre produttori italiani di latte d’asina (costerebbe troppo e i prezzi del formaggio, quindi, sarebbero molto alti), ma è un caseificio situato nella riserva naturale serba di Zasavica, a 80 chilometri dalla capitale Belgrado.
Il formaggio di asina non è certo un prodotto che potete trovare al supermercato: costa 1.000 euro al chilo.
Per fare una forma di formaggio infatti occorrono 25 litri di latte di asina. Cosa semplice se le asine producessero tanto latte quanto le mucche, ma non è così: ogni asina, al giorno, produce appena 2 decilitri di latte al giorno.
Ogni litro di latte viene venduto a 40 euro al litro, aggiungendo la manodopera e il trasporto il prezzo del formaggio diviene altissimo.
Il baobab millenario con un pub nel tronco
Sunland Baobab è un albero vecchio ben 6000 anni, famoso in tutto il Sud Africa non solo per le sue proporzioni straordinarie. Ciò che lo rende davvero unico è il fatto che i visitatori possono tranquillamente sorseggiare un drink in un bar situato nella cavità del tronco.
Si tratta del Sunland Baobab Pub, che ormai è presente all'interno dell'albero dal 1933.
Conosciuto anche come Pub Tree, ancora oggi può servire comodamente 15 fortunati avventori.
Fa parte della Sunland Farm, vicino Modjadjiskloof, nella regione di Limpopo. È qui, infatti, che si trova l'enorme albero, che ha una circonferenza di oltre 108 metri e rami alti fino a oltre 20 metri.
Il baobab è naturalmente diviso in due parti collegate dal tronco, ciascuna con cavità cavernose.
I due incavi sono collegati da un passaggio, che è stato trasformato nel pub. L'interno ha soffitti alti quasi 4 metri ed è arredato con panche in legno, in grado di ospitare fino a quindici persone. Sugli scaffali fanno bella vista di sé degli utensili storici, che danno idea della storia leggendaria dell'Albero Pub, di proprietà della famiglia Van Heerden.
I visitatori possono aspettarsi tutto ciò che deve esserci in un pub, tra cui un bersaglio per le freccette che pende su una delle pareti interne dell'albero.
I rami abbondanti al di fuori del piccolo bar offrono ampie zone d'ombra per una zona di ristorazione all'aperto, dove decine di tavoli sono pronti per eventi speciali.
Si crede che il bellissimo albero è sia uno dei più antichi al mondo. Certamente è una delle più grandi attrazioni della zona.
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