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venerdì 24 ottobre 2014

La via della seta


I nomi, si sa, possono contribuire in modo decisivo al successo delle idee.
 Una fortunata ispirazione deve aver assistito, tra gli altri, anche il barone Ferdinand von Richthofen, insigne geografo e geologo tedesco, quando - nell'introduzione all'opera Tagebücher aus China, pubblicata a Berlino nel 1907- stabilì di chiamare Via della Seta il tortuoso groviglio delle vie carovaniere lungo le quali nell'antichità si erano snodati i commerci tra gli imperi cinesi e l'Occidente. 
Da allora, l'espressione coniata da von Richthofen non è più tramontata. 
 Su quelle strade, a dire il vero, si sono incrociati profumi, spezie, oro, pelli, metalli, porcellane, medicinali e quant'altro bene fosse disponibile nel primo millennio dell'Era cristiana. Per non parlare di ambascerie, eserciti, missionari ed esploratori.
 Eppure fu proprio la seta, il prezioso e fin dall'inizio costosissimo tessuto dall'origine ammantata di mistero, a permettere che quegli scambi commerciali e culturali cominciassero a fiorire.


All'inizio dell'estate del 53 avanti Cristo, precisamente 700 anni dopo la fondazione di Roma, sospinto dall'invidia per i trionfi militari di Cesare e Pompeo, Marco Licinio Crasso partì alla volta della Persia al comando di sette legioni, per sfidare l'esercito dei Parti a tornare a Roma carico di bottino e onori.
 Le cose non assecondarono le previsioni del povero Crasso il quale, uomo di commerci più che di battaglie, pagò quell'imprudenza con la vita, oltre che con una sonora sconfitta ricordata nella storia romana sotto il nome di battaglia di Carre.
 Per quanto funesto, quell'episodio segna la prima occasione in cui i Romani vennero in contatto con la seta, con la quale erano tessute le cangianti insegne innalzate dai guerrieri Parti.

 Nemmeno mezzo secolo dopo, la "serica" - così detta perché fabbricata dal lontano popolo dei Seri, come a Roma venivano chiamati i cinesi - era il più ambito status symbol della nobiltà romana, che ne faceva sfoggio in ogni occasione di mondanità, un po' come oggi. 
Separate da altri due grandi imperi - dei Parti in Persia e dei Kushana nei territori degli attuali Afghanistan e Pakistan - in quel periodo Roma e la Cina non vennero in contatto diretto, sebbene entrambe tentassero di inviare ambasciatori dall'altra parte del mondo.




Fu così che, per secoli, i Romani non seppero nulla circa l'origine della seta e della lavorazione necessaria per tesserla.
 Nella Storia naturale di Plinio il Vecchio si dice dei Seri che fossero "famosi per la lana delle loro foreste". E aggiungeva: "Staccano una peluria bianca dalle foglie e la innaffiano; le donne quindi eseguono il doppio lavoro di dipanarla e di tesserla". 
Dei bachi, nessuna notizia.

 In Cina, d'altronde, il segreto di quel prodotto così fondamentale nei rapporti commerciali con il mondo occidentale era custodito con la massima cura, tanto che l'esportazione dei bachi da seta era proibita da una legge severissima.
 Solo intorno al 420 dopo Cristo, durante la profonda crisi che divise la Cina nei tre imperi Wei, Wu e Shu, la figlia di un imperatore si rese colpevole di un crimine che, secondo la legge, era punibile con la morte. 
Concessa in sposa a un principe di Khotan - una delle città Stato del bacino del Tarim - per assecondare i desideri del marito, la "principessa della seta" riuscì a contrabbandare le uova dei bachi da seta e i semi di gelso, nascondendoli nell'ornamento della sua acconciatura. 
A quell'epoca, le città del bacino del Tarim - nell'attuale Regione autonoma cinese dello Xinjiang - erano tappe obbligate per chi, provenendo da Xi’an (allora Chang'an), percorreva il Gansu e si apprestava ad attraversare l'Asia centrale tra mille insidie. Il clima, innanzitutto, molto rigido d'inverno e torrido d'estate nelle depressioni del deserto del Takla Makan, metteva a dura prova gli uomini e gli animali, che avrebbero poi dovuto affrontare gli aspri passi del Pamir per scendere lungo le valli del Pakistan a dell'Afghanistan. 
In più, le carovane correvano un serio pericolo, poiché erano esposte agli attacchi degli Xiongnu, una popolazione di bellicosi nomadi del Nord che assaliva i viaggiatori che si avventuravano in quelle zone deserte.

 Attraverso quello stesso percorso, intorno alla metà del I secolo dopo Cristo, il buddhismo fece il suo ingresso in Cina. 
Nata più di cinque secoli prima nelle inospitali vallate del Nepal, la nuova religione aveva ormai molti proseliti in India e i più intraprendenti si incamminarono lungo le piste della Via della Seta predicando il verbo del principe Siddharta, l'ormai famoso e venerato Buddha Sakyamuni. 
Dalla valle dell'Indo alle città dello Xinjiang, sono innumerevoli le testimonianze dell'arte religiosa buddhista, la cui popolarità esplose letteralmente in Cina sul finire del III secolo, quando tra Xi’an e Luoyang si contavano 180 istituti religiosi buddhisti e più di 3.000 monaci. 

 Nonostante abbia vissuto una seconda età dell'oro grazie alle memorie dei viaggiatori medievali come Marco Polo a Ibn Battuta, intorno al VI-VII secolo la Via della Seta cominciò il suo lento declino, in parte per la scarsa stabilità politica dell'impero cinese nelle sue regioni più occidentali e poi per la spinta dell'Islam.

 Ma fu soprattutto la concorrenza di una nuova arteria commerciale a determinare lo spostamento d'interesse dei mercanti europei: l'India e la Cina venivano raggiunte via mare. 
Fin dai primi secoli dopo Cristo le imbarcazioni partivano dai porti del Mar Rosso o del Golfo Persico e, grazie all'aiuto dei monsoni, approdavano a Barygaza o Muziris, sulla penisola Indiana.
 A volte, il tragitto proseguiva fino alla Cina meridionale, doppiando la penisola indocinese.
 Pericolosi pirati assalivano spesso le navi di passaggio al largo della costa pakistana o di quella malese ma, a conti fatti, la via di mare era ormai decisamente più rapida a sicura della via di terra.

 A cavallo tra la fine del secolo scorso a l'inizio di questo, venne poi la riscoperta archeologica delle città del bacino del Tarim, che culminò nel 1906-1907 con il ritrovamento, da parte di sir Marc Aurel Stein, delle "grotte dei mille Buddha" a Mogao.


In quelle nicchie scavate nell'arenaria erano raccolte le opere di tutta la Cina dotta, il più completo repertorio di manoscritti cinesi. Stein non era estraneo all'attitudine "predatoria" degli studiosi dell'epoca, e così dispose al più presto il trasferimento del materiale, tuttora conservato al British Museum di Londra. 
Oggi l'operazione potrebbe sembrare un furto bello e buono, ma probabilmente Stein salvò i manoscritti dall'avidità dei funzionari del Kuomintang e, poi, dall'ossessione distruttrice della rivoluzione culturale.

 Fatta eccezione per quanto è esposto al British e in altri musei europei, oggi le testimonianze dell'antica Via della Seta sono custodite nelle rovine delle città, delle fortificazioni, dei caravanserragli, delle torri di avvistamento che, da Xi’an a Petra, punteggiano l'Asia.

 Negli ultimi cinquant'anni, a quelle piste polverose si è sovrapposta una lingua d'asfalto.
 Il formidabile progresso economico che sta investendo il continente la trasformerà presto in una fantascientifica autostrada del Duemila, lungo la quale scorreranno le ricchezze a le speranze del nuovo capitalismo asiatico. Lasciando agli ultimi viaggiatori un’inguaribile nostalgia dell'epopea delle grandi esplorazioni.

Galline ovaiole: il falso mito del benessere negli allevamenti biologici


Quali sono le reali condizioni di vita degli animali all'interno degli allevamenti biologici?
 Ancora una volta le associazioni animaliste smontano con immagini reali il mito di queste strutture erroneamente considerate come rispettosa del benessere, in quanto 'bio'.
 Dopo l'investigazione di Essere Animali che documentava il grande bluff degli allevamenti all'aperto e biologici, da Animal Equality arriva una nuova testimonianza sulle condizioni di vita delle galline all'interno dei capanni in una struttura certificata 'biologica' e sostenuta dal Fondo Europeo Agricolo per lo Sviluppo Rurale secondo le direttive del Reg. (CE) n. 1698/2005; un'ulteriore evidenza dell'errore che si commette se si reputa questa tipologia d'allevamento come etica e rispettosa.
 Durante l'operazione, che ha portato al salvataggio di 10 galline ovaiole, è stato documentato che all'interno di ogni capanno diviso in 3/4 micro-settori, le galline venivano ammassate in spazio ristretti.
 Durante il giorno potevano accedere a un'area di 'sgambamento' chiusa, che non lasciava quindi alcuna possibilità di interagire con l'esterno.
 Gli animali risultavano anemici, feriti, privati di ogni assistenza veterinaria. 
Alcuni erano lasciati morti, in decomposizione, a contatto con tutti gli altri. 
A completare il quadro da film horror, feci e urine ovunque, con il rischio di infezione e contaminazione delle uova.




Il processo di raccolta, poi, era completamente meccanizzato; i nidi artificiali e i macchinari aumentavano le difficoltà di movimento all'interno dei capanni.
 La distribuzione automatizzata dell'acqua, realizzata per mezzo di cavi elettrici scoperti, provocava numerose scosse che gli animali sono costretti a subire dato lo scarso spazio a disposizione. 
Tutti questi fattori, uniti alle innaturali condizioni di vita, alla noia, al mancato espletamento delle più elementari necessità etologiche, erano ovviamente fonte di enorme stress per gli animali.
 E non si tratta di un caso isolato.
 "Nel nostro paese le galline ovaiole allevate ogni anno sono 40 milioni. È nostro compito mostrare alle persone questa realtà, proponendo delle alternative concrete che non comportino l'utilizzo di prodotti animali.
 Al contempo, è nostro dovere offrire a questi individui un'opportunità come è accaduto per queste 10 galline, simbolo di quello che accade a tantissime loro simili e speranza per tutti gli animali che sognano la libertà", ricorda la portavoce dell'associazione Fabrizia Angelini. 
 Conclusione? L'industria delle uova è una realtà orribile, piena di violenza e sofferenza, anche quando si nasconde dietro all'aggettivo "biologico".

http://www.greenme.it/informarsi

Viaggio nei luoghi del commissario Montalbano


Vedere la veranda di Marinella dove il commissario trascorre la maggior parte del suo tempo, tra riflessioni, pranzi a base di sarde alla beccafico preparati dalle mani sante di Adelina e cene a lume di candela con Ingrid, la sua fidanzata storica. 
Immergersi nei luoghi che dal 1999, da quando la fiction ha preso il via, sono diventati meta di milioni di turisti spinti da una sola domanda: ma quei posti esisteranno davvero?


Si parte da Ibla il quartiere più antico di Ragusa che nella finzione scenica è Vigata.
 L’intrico barocco del Settecento di viuzze e scalinate e delle 42 chiesette che si affacciano nelle piazzette le hanno fatto meritare il titolo di patrimonio mondiale dell’Unesco.
 La sua piazza principale, un rettangolo allungato che termina nella scalinata della cattedrale di San Giorgio compare in molti episodi della serie. 
È da qui che Montalbano passa per andare a fare prima colazione con gli altri colleghi a Piazza Duomo e per mangiare a pranzo la frittura di pesce nel ristorante La Rusticana su corso 25 Aprile. 
È a p.zza Pola che il commissariato si trasferisce -solo per qualche episodio- in uno splendido edificio barocco.


A seconda delle puntate il set del commissariato infatti si sposta da Ibla a Scicli, altro capolavoro del barocco sotto la protezione dell’Unesco, ricostruita dopo il terremoto del 1693.
 Una perla incastonata tra tre cave di pietra, con chiese, antichi palazzi nobiliari e aride campagne. 
 Palazzo Iacono , il municipio della città in via Francesco Mormino Penna , cuore pulsante della città, è il commissariato di Montalbano e la stanza del sindaco è quella del questore di Montelusa nella fiction. 
Da p.zza Italia, un altro snodo importante della città, si arriva alla Chiesa di San Bartolomeo, edificio di pietra chiara, una sorta di conchiglia incastonata nell’antica cava. 
Sempre a Scicli, nella contrada Pisciotto a Sampieri, una frazione rivierasca del centro, c’è la Mannara in riva al mare, luogo di prostituzione gestito da Gegé compagno di scuola di Montalbano , che nella realtà corrisponde alla famosa Fornace Penna, vero monumento di archeologia industriale.


E per ristorare ventre e corpo fate ritorno a Ibla, dove potrete calarvi nella fiction completamente, mangiando a “La Rusticana” su corso 25 Aprile, il ristorante “San Calogero” della fiction, dove –specialità della casa- vi aspetta il sciàuro del pesce frisco che si mescola a quello delle interiora d’agnello bollite e cosparse di caciocavallo.
 Per la notte come resistere all’invitante residenza del commissario? Andate a Marinella ovvero Punta Secca a Santa Croce di Camerina dove anziché incontrare Montalbano incontrerete i gestori di questo meraviglioso bed & breakfast La casa di Salvo, che affaccia direttamente sulla spiaggia. E potrete imitare il commissario immergendovi in quelle acque trasparenti al mattino, prima di riprendere il viaggio.




Sulla strada tra Ragusa e Santa Croce di Camerina, sul Monte Crasto, s’incontra la Grotta delle Trabacche , una catacomba del IV sec. d.C. con sepolture a baldacchino, di epoca romana o tardo romana, il cui nome- secondo la leggenda- deriva forse dal fatto che tre vacche vi entrarono e non vi uscirono più, dove le indagini spingono qualche volta il commissario. E poco distante, a 15 Km da Ragusa, si arriva al Castello di Donnafugata, la dimora di don Balduccio Sinagra, il boss mafioso della fiction.
 Un tempo residenza più ricca dell’intera provincia, si tratta di un castello ottocentesco solo da poco aperto al pubblico.


Ma il Montalbano televisivo non è solo ragusano. Per trovare altri posti incantevoli che si trovano nella fiction ci spostiamo nel nord-ovest dell’isola, nella zona trapanese di San Vito lo Capo.
 È qui infatti che vi lascerete mozzare il fiato dalla Riserva dello Zingaro, area raggiungibile solo via mare o a piedi via terra seguendo due percorsi prestabiliti.


Montalbano fa poi anche un giro nelle Isole Egadi, soggiorno ideale per concludere il  viaggio e godersi le ultime ore prima della partenza nel mar Mediterraneo a Favignana e a Levanzo di fronte a Trapani.
 È a Levanzo che potrete pernottare nel tipico Albergo Paradiso in bianco e in blu, come tutte le abitazioni dell’isola e dove potrete mangiare dell’ottimo pescato del giorno nel ristornate interno. Due paesi- porti dall’incontaminata bellezza naturalistica, dove anche voli Ryan Air o Air One arrivano.
 Una cornice ottima da cui salutare questa fantastica isola e il commissario che ve l’ha fatta scoprire.


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