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giovedì 29 aprile 2021

Il Marocco che profuma di fiori: la valle della rosa damascena e la valle dell’argan


 Chi pensa che il Marocco sia un luogo arido e desertico non sa che si tratta di una terra che profuma di fiori, poiché due essenze tra le più famose al mondo trovano in questi luoghi il loro habitat ideale: sono la rosa damascena e l’argan.

Il fortunato visitatore che si trovi durante il mese di maggio nel paese può assistere alla profumata e colorata festa che celebra la raccolta dei petali della rosa di Damasco, ma anche sbirciare tra le fronde degli alberi di Argania Spinosa in cerca delle caprette che si nutrono dei frutti e lasciando cadere a terra il nocciolo consentono la diffusione sin dall’antichità di quello che le donne berbere chiamano l’oro del deserto.


Nelle leggende del Marocco si narra che la profumata rosa di Damasco fu portata in questa terra da un gruppo di pellegrini berberi che ritornavano dalla Mecca.
Un tempo, infatti, queste popolazioni erano solite portare con sé dei semi che avrebbero piantato lungo il cammino.

In un primo momento i roseti fiorirono selvatici oppure vennero piantati dai berberi come elementi divisori tra le varie coltivazioni; poi giunsero i Francesi che intuirono il valore commerciale di quei fiori profumati e iniziarono a coltivarli appositamente.
La rosa damascena ha boccioli delicati e piccoli dotati di 36 petali di un rosa acceso e il profumo diffuso nell’aria è intenso e inebriante.


Durante la primavera, in particolare a maggio, uno spettacolo insolito attende il visitatore che può assistere alla raccolta dei fiori che ogni alba vede approssimarsi le donne alle quali è affidata.
Occorre procedere in questo momento della giornata quando il fiore è appena sbocciato, poiché in questo modo le rose non appassiscono e se ne può conservare intatto il profumo.


Una parte dei petali viene fatta essiccare per creare il pot pourri. Quasi 1000 tonnellate di petali, invece, vengono trasportate in sacchi di iuta presso le due fabbriche di Kelaat M’Gouna e di Souk-el-Khemis. 

Qui vengono lavorati in alambicchi di rame che consentono di estrarne l’olio essenziale che viene utilizzato per produrre cosmetici e profumi ma anche acqua di rosa per i dolci della tradizione culinaria marocchina e da offrire agli ospiti prima di sedersi a tavola.


La valle del M’Gouna è conosciuta proprio come la valle delle rose, è lunga circa 30 chilometri e si staglia ai piedi dell’Ighil M’Goun che con i suoi 4.071 metri torreggia nel cuore dell’alto Atlante centrale. In queste terre il deserto roccioso lascia il passo a valli coltivate e ampiamente irrigate, mentre sui pendii si nascondono centinai di villaggi berberi.

All’Ighil M’Goun deve il suo nome la città di Kelaat M’Gouna, qui si svolge una festa che sancisce il periodo della raccolta delle rose e alla quale partecipano marocchini provenienti da ogni angolo del paese, ma anche numerosi turisti che accorrono ad assistere alla celebrazione della primavera floreale.

Si possono ammirare donne e uomini nei loro abiti tradizionali che non mancano di portare un paio di rose sopra le orecchie; la festa prevede la sfilata di carri, balli, danze e l’elezione della Malika el Ouard, la regina delle rose.


Nella regione del Souss, nella zona sud-occidentale del Marocco, vive un albero endemico preistorico famoso in tutto il mondo: l’Argania spinosa, meglio conosciuto come Argan.
Questa pianta è la seconda più diffusa nel paese e viene solamente dopo la quercia, un ruolo fondamentale nella sua diffusione viene giocato dalle capre, che si arrampicano fino a 10-15 metri di altezza e dopo esseri nutrite dei frutti dell’albero, sputano il seme sul terreno che in questo modo ha la possibilità di germogliare.


Sin dai tempi antichi la valle del Souss era rinomata per la sua fertilità, tanto che nel XVII secolo, olandesi, portoghesi e inglesi attingevano al bacino di questa regione per rifornirsi dello zucchero proveniente dalle canne qui coltivate.

Qui prolifica anche l’Argania spinosa, un albero particolarmente longevo, tanto che sopravvive fino a 250 anni e resiste alle alte temperature nonché alla siccità del territorio ai margini del deserto sahariano grazie alle radici che attingono in profondità alle acque del sottosuolo.

In questo modo l’argania si rende anche un alleato importante contro la desertificazione. Le radici profonde della pianta, infatti, penetrano il terreno alla ricerca d’acqua e oltre a dare un valido sostegno all’albero, tenendolo ben saldo a terra anche con i forti venti, proteggono anche il suolo dall’erosione.


Il frutto prodotto da quest’albero ha una forma ovale e le dimensioni di una grossa oliva, è molto duro e il suo nome, argan, con cui la pianta è conosciuta, corrisponde al nome locale, in lingua berbera (tashelhit) che significa olio.

Da esso, infatti, le popolazioni berbere traevano l’olio di Argan prezioso sin dall’antichità, quando veniva utilizzato sia per l’illuminazione attraverso le lampade a olio sia per la preparazione di pietanze.

Per estrarre l’olio dal frutto il procedimento affidato alle donne è particolarmente complesso e richiede molto lavoro, infatti, dopo la raccolta dei frutti e l’essiccazione degli stessi è possibile estrarne il nocciolo che contiene i veri e propri semi.
Questi necessitano prima di una tostatura e poi di una pressatura che consente di ottenere l’olio.


Oggi quest’olio è ampiamente rinomato a livello mondiale per le sue caratteristiche miracolose, ma grazie alle sue grandi proprietà cosmetiche l’olio di Argan veniva usato fin dall’antichità dalle donne della zona, che lo definivano l’oro del deserto.
L’olio cosmetico proviene da noccioli non tostati, ed è più chiaro, si usa applicandolo sulla pelle e sui capelli poiché è ritenuto efficace contro la caduta dei capelli, gli eczemi, la disidratazione, l’invecchiamento della pelle e molto altro.

Dal 1998, l’Unesco ha dichiarato Riserva della Biosfera la Valle del Souss in cui cresce l’Argania spinosa, proprio per tutelare la pianta e porre fine al disboscamento.

Fonte: meteoweb.eu

giovedì 22 aprile 2021

La grandiosa biblioteca barocca di Praga è il Reame dei libri antichi


 La Biblioteca Nazionale di Praga fu aperta nel lontano 1722, e costituisce oggi una delle più belle biblioteche del mondo.

 Con oltre 20.000 di volumi, rappresenta quasi un tempio sacro per gli amanti del libro.

 Gli affreschi del soffitto vennero realizzati da Jan Hiebl, e attraverso la sua opera pittorica sono presenti molti simboli che rappresentano l’importanza dell’istruzione insieme alle agiografie di santi gesuiti. La biblioteca fa parte del complesso Clementinum, e conserva libri teologici in tutte le lingue del mondo.


L’edificio Clementinum fa parte di quello che è uno dei più grandi complessi architettonici di Praga, ed era in origine un’Università Gesuita. I rari libri collezionati dai gesuiti sono arricchiti dei loro appunti, che rendono la consulta dei volumi una vera e propria immersione nelle pieghe della storia.

Nel 1777 Maria Theresa d’Austria decretò che la Clementinum diventasse una biblioteca pubblica e universitaria, il che ha permesso alla comunità di studiosi di Praga (e poi di tutto il mondo) di fruire della bellezza barocca di questo splendido edificio.

 All’interno della sala centrale non sono presenti infatti soltanto gli affreschi di Hiebl, ma anche dei famosissimi globi dorati e gli orologi astronomici di Jan Klein. 

Dal XVIII secolo l’interno della biblioteca non è stato più modificato, e il tuffo nella storia è quanto di più bello possa esserci per gli amanti dell’arte e della cultura.

Fonte: vanillamagazine.it

lunedì 19 aprile 2021

Tasmania, da prigione degli uomini a paradiso degli animali


 La Tasmania fu avvistata per la prima volta nel 1642 ma popolata dagli occidentali solo a partire dagli inizi del XIX secolo, quando venne istituita una colonia penale dove venivano inviati i più pericolosi criminali britannici.

Oggi la Tasmania da prigione degli uomini si è trasformata in paradiso degli animali autoctoni come: l’echidna, il vombato, l’ornitorinco, il bandicoot e il più famoso di tutti il diavolo della Tasmania, salvato dall’estinzione proprio grazie alla tutela esercitata nei parchi nazionali dell’isola.

La Tasmania fu avvistata per la prima volta da un europeo nel 1642, si trattava di Abel Tasman, un esploratore olandese che chiamò quella terra Anthoonij van Diemenslandt che fu successivamente abbreviato dagli inglesi in Van Diemen’s Land che si traduceva con “la terra di Diemen”, in onore del governatore olandese della Compagnia Olandese delle Indie Orientali. Questi, infatti, aveva incoraggiato e organizzato l’espolorazione dell’Australia meridionale.

Cook racconta in uno dei suoi diari di bordo che Tasman non esplorò mai la terra scoperta poiché riteneva che questa fosse soltanto una penisola nel continente australe e anche perché l’unica volta che si avventurò oltre la linea di costa gli indigeni uccisero diversi tra i suoi uomini.

I terribili indigeni tasmani evidentemente di indole non accogliente scacciarono malamente anche il capitano francese Marc Joseph Marion du Fresne, che nel 1772 aveva condotto una spedizione nell’Oceano Indiano che aveva successivamente fatto rotta verso la Van Diemen’s Land.

 Questo atteggiamento lo indusse a battere in ritirata verso la Nuova Zelanda.

Finalmente nel 1777 fu la volta di James Cook che con la sua Resolution approdò a sud di Hobart sulla Aduventure Bay, ma solo nel 1798 il navigatore inglese Matthew Flinders scoprì lo stretto tra l’Australia e la Tasmania, nell’occasione in cui circumnavigando l’isola si accorse che l’iniziale stima di Tasman era scorretta e che non si trattava di una penisola, ma di una vera e propria isola a sé stante.

 Lo stretto prese il nome del chirurgo di bordo della spedizione ossia George Bass.

Il primo insediamento nacque sostanzialmente per evitare che i Francesi rivendicassero il dominio sull’isola e avvenne ad opera degli Inglesi nel 1803 quando venne stabilita una temibile colonia penale e i conquistatori diedero il via a una spietata caccia agli indigeni che furono sterminati nonostante il loro numero fosse di appena circa 5.000 individui.

Hobart divenne la capitale della Van Diemen’s Land nel 1898 quando fu fondata nei pressi della frastagliata foce del fiume Derwent. Tuttavia, la fama dell’isola non cambiò a causa delle terribili condizioni in cui imperversavano i prigionieri.

Quando questo periodo di atrocità e miseria umana terminò, gli isolani per affrancarsi dal passato cambiarono il nome dell’isola da Van Diemen’s Land a Tasmania.


Una percentuale particolarmente ampia del territorio tasmano è destinata ad ospitare i parchi nazionali, nonostante l’azione dell’uomo ha nel tempo devastato grandi aree naturali con l’industria del legno e con quella dell’estrazione mineraria.

L’isola appare separata dall’Australia continentale da ben 300 chilometri, una distanza che nel corso delle ere geologiche ha consentito far nascere, crescere e mantenere in isolamento ecologico specie sia di flora che di fauna uniche al mondo.

Delle numerose meraviglie naturalistiche della Tasmania una delle specie vegetali più significative è il Pino di Huon, che è da considerarsi come l’albero più antico del pianeta. L’eucalipto australiano, invece, è nativo oltre che dell’Australia anche della Tasmania e gli esemplari qui presenti raggiungono dimensioni gigantesche che titaneggiano sulla natura insieme alle grandissime sequoie.

Davanti alle coste ad est della Tasmania si trova Maria Island, un’isola rocciosa dichiarata parco nazionale dal 1971 per proteggerne la flora e la fauna.
Qui alcune specie sono autoctone mentre altre sono state portate dall’uomo per proteggerle dal pericolo di estinzione: così è stato ad esempio per il diavolo della Tasmania che è stato introdotto a partire dal 2005.

 Tra gli animali più iconici della Tasmania il posto d’onore è occupato proprio dal diavolo della Tasmania e protetto proprio nel Maria Island National Park.


Tra i più curiosi esemplari della fauna vi è l’ornitorinco, è un piccolo mammifero che vive nelle acque e sulle coste orientali della Tasmania che si distingue da ogni altra specie per essere l’unico mammifero oviparo del mondo, infatti al posto di dare alla luce i propri piccoli, questi nascono dalle uova deposte dalla madre.

Il vombato, invece, è un piccolo marsupiale dalla coda e dalle zampe di piccole dimensioni, mentre tra gli altri animali endemici vi sono anche il wallaby collo rosso e l’oca di capo Barren.


I paesaggi della Tasmania comprendono montagne di un’altezza contenuta ma dalle sembianze spettacolari come il Monte Ossa che raggiunge i 1617 metri, ma l’armonia naturale dell’isola è data anche dai corsi d’acqua, dai laghi, e dalle foreste pluviali sopravvissute al disboscamento selvaggio che le cingono armoniosamente il paesaggio; e ancora dalle coste battute dal vento e dagli esemplari unici della fauna che vivono liberi nei parchi nazionali.

Nel Tasman Nation Park una delle meraviglie più suggestive è costituita dalle scogliere di dolerite che torreggiano da un’altezza di 300 metri e costituiscono uno dei confini del parco.


Nel Tasman National Park viene ospitata una vasta selezione di animali marini e terrestri, tra i quali l’opossum dalla coda a spazzola, i pinguini, i delfini, le foche australiane e le balene che si trovano a solcare i mari della Tasmania quando migrano verso altri mari.

Sulla costa nord-est della Tasmania si trova, invece, la Bay of Fires che assunse questo nome nel 1773 grazie al capitano Tobias Furneaux che dalla sua nave avvistò i fuochi degli aborigeni sulle spiagge.
Tuttavia, il suo nome potrebbe anche riferirsi al colore arancio acceso dei licheni disposti sui massi di granito che circondano la baia.


Binalong Bay è la spiaggia principale della baia e con la sua sabbia bianca e le sue acque cristalline, è perfetta per chi ama nuotare o praticare snorkeling. 

La barriera corallina poi offre la possibilità di osservare un’incredibile biodiversità marina.


Nel Mount Field National Park si trovano le spledide cascate Russel, all’interno di una foresta pluviale temperata che si trova a poco più di 70 chilometri da Hobart. L’area è anche famosa per via dell’ultimo esemplare di tilacino, ovvero del più grande marsupiale carnivoro, oggi purtroppo estinto, che venne catturato in questa regione nel 1933.


Fonte: meteoweb.eu


giovedì 15 aprile 2021

Giardini Ravino: il paradiso delle piante succulente di Ischia


 Cactus e piante grasse, ma anche la storia di un amore e di una grande passione. 

Ogni angolo dei circa 6mila metri quadri dei Giardini Ravino rivela una ricchezza sorprendente di specie botaniche.

 Siamo a pochi chilometri da Forio, nella parte occidentale dell’isola di Ischia, dove l’ingegno e la dedizione di un Capitano di lungo corso oggi in pensione hanno dato vita a un posto meraviglioso.

Affacciato sul mare e appoggiato su un lato del monte Epomeo, i Giardini Ravino è di fatti un Parco botanico di acclimatazione che attira visitatori da tutto il mondo per la sua collezione, unica in Europa, di succulente e di cactacee.

L’anima del giardino è il Capitano Giuseppe D’Ambra, meglio conosciuto come Peppino, un tempo imbarcato sulle navi, che ha ereditato da papà Antonio un grande amore per tutte le piante, in particolare per le piante “crassule”, che aveva l’abitudine di sistemare in alcune grandi conchiglie un tempo usate dai marinai per annunciare un pericolo in caso di scarsa visibilità.

 Quelle conchiglie erano appese sulla parete esterna della vecchia casa dei genitori e oggi, grazie a Peppino, ornano uno dei viali del giardino.


Sin da ragazzo, Peppino rimase affascinato dalla tenacia delle piante grasse di crescere così, con poca terra, poca acqua e poche cure. 

Fu allora che nacque la sua passione e pian piano un appezzamento di terra dove c’era un vitigno di proprietà della chiesa fu acquistato dalla famiglia D’Ambra, che lo trasformò per accogliere le piante di papà Antonio e, poi, la collezione di piante grasse di Peppino.



Il “Capitano,” infatti, ogni volta che tornava da un viaggio in continenti lontani portava magnifici esemplari sempre diversi alla sua sposa, realizzando il sogno botanico di tutta una famiglia. 

Ogni anno la raccolta viene arricchita di nuovi esemplari, provenienti da tutto il mondo, mentre quelli già acclimatati diventano sempre più maestosi. 

Il resto lo fanno la prossimità al mare e l’esposizione a Ovest, che permettono un’ambientazione e una crescita ideali per le piante esotiche, di cui ormai si contano oltre 400 specie.

Tra le piante succulente, si trovano Cactus di ogni forma e genere, dal Cereus colonnari all’Echinocactus globosi, ma anche altre piante succulente appartenenti alle più diverse famiglie botaniche, come il Sedum, il Sempervivum, le Calanchoe e le Agavi, le Palme o la Ciphostemma, senza considerare poi gli agrumi, i diversi esemplari di carrubi, corbezzoli, olivi e un piccolo orto biologico i cui prodotti si possono gustare sulla terrazza dei Grusoni.

Questo raro esempio di eco-sostenibilità è stata premiato dalla Commissione Turismo dell’Osservatorio Parlamentare Europeo che nel 2010 ha riconosciuto all’azienda della famiglia D’Ambra il titolo di migliore struttura turistica del Sud Italia. Dal 2013, inoltre, i Giardini Ravino fanno anche parte del APGI, l’Associazione dei Parchi e Giardini d’Italia, che opera in collaborazione con il Ministero dei beni e delle attività culturali e del turismo e con altre associazioni ed enti, italiani ed esteri.



martedì 13 aprile 2021

Il glicine di Leonardo da Vinci a Milano


 Si chiama “glicine di Leonardo”, ma a Milano pochi ne hanno sentito parlare. Sarà perché si trova in una zona periferica della città, sarà anche perché lo si può ammirare solo in Primavera, quando il glicine è in fiore e regala ai passanti uno spettacolo per gli occhi.

Fatto sta, che nel quartiere Ripamonti, nella zona Sud del Capoluogo lombardo, in quel quartiere oggi chiamato Scalo Romana dove sorgerà nel 2026 il Villaggio Olimpico in occasione dei XXV Giochi olimpici invernali Milano-Cortina, e un tempo piccolo borgo di Morivione, si nasconde una vera chicca.

Il “glicine di Leonardo” è uno dei più antichi d’Italia. Si calcola che abbia più di 700 anni.
Secondo gli esperti di botanica, le sue radici sono ormai così lunghe da arrivare a misurare circa due chilometri.


Si dice che proprio all’ombra delle sue coloratissime e profumatissime fronde venisse lo stesso Leonardo Da Vinci a meditare e a escogitare i suoi tanti progetti rivoluzionari per il naviglio di Milano che dista poche centinaia di metri.

Il Genio italiano era solito ritirarsi in questo angolino tranquillo della città, all’epoca alle porte di Milano, per meditare, spesso in compagnia niente meno che di Ludovico Sforza detto il Moro, reggente del Ducato di Milano. Dicono che durante una delle sue soste sotto il glicine avrebbe meditato il progetto della Conca Fallata del Naviglio Pavese.

Il glicine si trova al civico 2 di via Bernardino Verro, angolo via dei Fontanili, all’interno di un cortiletto aperto da dove tutti lo possono ammirare. 

Fonte: siviaggia.it

lunedì 12 aprile 2021

Incredibile scoperta archeologica in Egitto: ritrovata la perduta ‘città dell’oro’ del faraone Amenofi


 In Egitto è stata annunciata la scoperta di quello che viene descritto come il più grande insediamento urbano mai rinvenuto nel Paese attraverso un ritrovamento presentato quale il secondo più importante dopo quello della tomba di Tutankhamon
Come riporta la pagina Facebook del ministero delle Antichità egiziano, si tratta di una “città d’oro perduta” di quasi 3.000 anni fa e il ritrovamento è stato fatto da una missione guidata dall’archeologo egiziano Zahi Hawass sulla sponda ovest del Nilo nella zona di Luxor, nel sud dell’Egitto.

Zahi Hawass annuncia la scoperta della ‘Citta’ d’oro perduta’ a Luxor, sottolinea il dicastero senza poi però fornire elementi che giustifichino il riferimento aureo.

Il nome dell’insediamento sarebbe “Il Sorgere di Aten” e risale al regno di Amenhotep III pur avendo continuato ad essere abitato ai tempi di Tutankhamon e del suo successore, Ay. 

“Molte missioni straniere hanno cercato questa città e non l’hanno mai trovata“, ha dichiarato Hawass aggiungendo: “abbiamo cominciato il nostro lavoro cercando il tempio funerario di Tutankhamon”. Betsy Brian, docente di egittologia all’Universita’ John Hopkins di Baltimora negli Usa, ha sostenuto che “Il ritrovamento di questa città perduta è la seconda scoperta archeologica più importante dalla tomba di Tutankhamon”, riferisce sempre il post. Si tratta della “più grande città mai trovata in Egitto”, sostiene il ministero parlando anche del “più vasto insediamento amministrativo e industriale sulla sponda ovest di Luxor nell’era dell’impero egiziano”.


Fondata da uno dei grandi sovrani d’Egitto, Amenhotep III, il nono re della XVIII dinastia che regnò dal 1391 al 1353, la città fu attiva durante la correggenza con suo figlio, il famoso Amenhotep IV/Akhenaton. Lo studio della “Citta’ perduta”, secondo Brian, “ci aiuterà a gettare luce su uno dei più grandi misteri della storia: perche’ Akhenaten e Nefertiti decisero di spostarsi ad Amarna“. 

Gli scavi erano iniziati solo nel settembre scorso e la città, rimasta  per tre millenni sotto la sabbia, viene descritta “in buone condizioni di conservazione, con muri quasi completi e stanze piene di strumenti di vita quotidiana“: nella parte sud sono stati rinvenuti i resti di una panetteria completa di forni e ceramiche (dalle loro dimensioni si è desunto che il locale alimentava “un grandissimo numero di operai e dipendenti”). Ma sono state trovate anche parti di attività industriali come la tessitura, la produzione di vetro e quella di amuleti ed elementi decorativi per templi e tombe.

 In particolare sono stati anelli, scarabei, pentole colorate, mattoni con il cartiglio di Amenhotep III a confermare la datazione dell’insediamento. 



Un’area con un muro “a zig zag” e un solo punto di accesso testimonia di un sistema di sicurezza in un distretto amministrativo e residenziale con ambienti più grandi e ben strutturati che è ancora in parte sotto terra.

Fonte: meteoweb.eu

venerdì 9 aprile 2021

L'antico traffico di pappagalli esotici nel Deserto dell'Atacama


 Il luogo più arido del mondo era un tempo uno snodo commerciale per la tratta di animali di specie esotiche: tra il 1100 e il 1450 dopo Cristo, prima dello sviluppo della civiltà Inca, il deserto dell'Atacama era attraversato da carovane che, a dorso di lama, trasportavano pappagalli dal piumaggio variopinto dall'Amazzonia alle Ande.

 
Dall'analisi dei resti di pennuti ritrovati nel sito archeologico di Pica (in Cile) e in altri luoghi dell'Atacama è emerso che i poveri uccelli sopportavano viaggi anche di 500 km, e che i carovanieri sapevano come mantenerli in vita nel tragitto: erano considerati infatti una merce preziosa.
Le piume colorate di are, amazzoni e altri pappagalli tropicali erano un simbolo di benessere, ricchezza e sacralità per le civiltà precolombiane. Penne e uccelli venivano regolarmente importati sugli altopiani delle Ande e sulla costa pacifica del Sud America, ma non si era ancora ben capito attraverso quali rotte commerciali.
 La nuova scoperta prova che la cattura, il trasporto, il mantenimento e la vendita di pappagalli esotici continuarono nel periodo compreso tra il declino dei Tiwanaku (una potente civiltà fiorita attorno al Lago Titicaca, tra Bolivia e Perù) e l'inizio della civiltà Inca.


Eliana Flores Bedregal, ornitologa del Museo Nazionale di Storia Naturale di La Paz, Bolivia, ha analizzato i resti di pappagalli trovati nell'Atacama e conservati in diversi musei, identificando in essi diverse specie tropicali, come l'amazzone farinosa (Amazona farinosa) e l'ara scarlatta (Ara macao).
Oltre alle piume sono stati analizzati i resti completi di 27 uccelli di sei diverse specie almeno in parte mummificati, trovati avvolti in pezzi di tessuto o custoditi in apposite borse. 
L'analisi degli isotopi di carbonio e di azoto nei reperti ha rivelato che i pennuti venivano nutriti con mais coltivato nelle aree meno aride del deserto, usando il guano di uccelli marini come concime.
 Queste attenzioni erano tutt'altro che disinteressate: sul corpo degli animali sono stati trovati i segni di frequenti spiumature, la prova che i pappagalli venivano sfruttati come fonti di guadagno.
Fonte: focus.it

venerdì 2 aprile 2021

La nave sul grattacielo di Singapore


 Alcuni alberghi da soli valgono il prezzo del viaggio; tra questi rientra certamente il Marina Bay Sands di Singapore con lo SkyPark, una piattaforma dalle sembianze di una nave sul grattacielo.

Sulla nave che unisce le tre torri si trova la più alta “infinity pool” del mondo, ma anche l’Observation Deck una terrazza panoramica che consente di godere della straordinaria vista sui grattacieli di downtown e sulla baia di Singapore.

Il Marina Bay Sands non è solo un hotel di lusso ma anche il terzo casinò al mondo per estensione.
 È stato sviluppato dalla Las Vegas Sands e disegnato da Moshe Safdie, ed è appunto il terzo casinò al mondo per estensione dopo il Gran Lisboa di Macau e il Casino de Montreal, qui infatti sono offerti ai turisti oltre 500 tavoli da gioco e 1.600 slot machine.

Il resort è stato inaugurato nel 2010 ed è stato completato da un albergo, un centro convegni, un centro commerciale, due teatri, due padiglioni di cristallo galleggianti e una pista di pattinaggio.

L’offerta culinaria è data dai sette ristoranti del complesso che accontentano davvero tutti i gusti: c’è il cinese ovviamente, ma anche l’indiano, il thai, e l’immancabile pizza.

 Per cenare con vista su tutto il panorama bisogna accomodarsi al Rooftop Restaurant LAVO, che serve proprio cucina italiana.

L’alternativa è CE LA VI Restaurant & Sky Bar di stampo internazionale. Come è facile immaginare non si tratta di ristoranti economici ed è richiesto un dress code adeguato, ma tra i piaceri che offrono ai visitatori vi è certamente il fatto che consentono di attardarsi fino a tarda notte, per un cocktail dopocena sullo straordinario panorama notturno di Singapore.

Alla base dell’hotel si trova anche un museo delle arti e delle scienze a forma di fiore proiettato sul mare, ricco di opere d’arte moderna occidentale e di magnifiche opere di tradizione asiatica.

Una mostra davvero spettacolare è stata quella di Van Gogh, i quadri non ci sono stati fisicamente, ma si è scelto di proiettarli al buio su grandi pareti con imponenti dimensioni (10×30 metri); con le immagini che scorrendo si inseguono nelle sporgenze, negli angoli, nei corridoi, sui soffitti, sui pavimenti, andando alla ricerca dei particolari più segreti e ingigantendoli. 

Ai quadri si alternano fotografie d’epoca, e il tutto è stato esaltato dalla perfezione con la musica di sottofondo.


Le tre torri alte 200 metri ospitano più di 2000 stanze o appartamenti e sorgono nel quartiere di Marina Bay, sull’altro lato della foce del Singapore River, oggi chiusa con una diga a formare un bacino d’acqua dolce.

Un tempo Marina Bay era una semplice riva fluviale, ma dopo aver subito una spettacolare trasformazione, si presenta in qualità di esempio visivo di come una città non particolarmente estesa come Singapore possa riuscire a trasformarsi in una metropoli all’avanguardia, nonché in una delle migliori destinazioni turistiche di lusso.


L’elemento più distintivo e affascinante del Marina Bay Sands di Singapore è però lo SkyPark, il complesso dei tre grattacieli è infatti sormontato da una piattaforma sospesa a forma di nave che congiunge i tre grattacieli.
Ha una lunghezza di 380 metri e la capacità di accogliere fino a 3.900 persone ad un’altezza dal suolo di 200 metri.

Sulla nave si trovano giardini pensili, in particolare un bosco di palme, piscine idromassaggio, centri benessere, bar e ristoranti, tuttavia, il pezzo forte è certamente la piscina “a sfioro” più alta del mondo con una lunghezza di 150 metri.


La piscina permette letteralmente di nuotare nel cielo e avvicinandosi al bordo si ha l’illusione tipica delle “infinity pool”, cioè l’illusione dell’orlo di una cascata che scivola giù come su un burrone di grattacieli.


Si tratta quindi di una lunghissima piscina con l’orizzonte a pelo d’acqua, ma qui sullo SkyPark si trova anche l’Observation Deck cioè la terrazza panoramica con vista sui grattacieli di downtown e sulla baia di Singapore.

Fonte: meteoweb.eu


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