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mercoledì 30 giugno 2021

Il Buddha d’oro: la scoperta casuale della statua da 5,5 tonnellate d’oro massiccio


 Il fondatore del buddhismo fu Siddhartha Gautama, che visse fra il 566 e il 480 a.C. 

Egli visse una giovintù agiata, sino a quando non decise di cercare il vero senso della vita. Divenne un asceta pellegrino, che viveva senza beni terreni, e vagava per tutto il territorio indiano.

 Un giorno, durante una delle sue meditazioni, egli identificò nelle quattro nobili verità la via per il Nirvana.

 L’esistenza di queste gli sopraggiunse nel Parco dei Cervi (o delle gazzelle) di Sārnāth, presso Varanasi.

Le quattro verità sono: la Verità del dolore, la Verità dell’origine del dolore, la Verità della cessazione del dolore, la Verità della via che porta alla cessazione del dolore.

Dopo aver raggiunto il Nirvana, Siddhartha Gautama si chiamò “Il Buddha”, traducibile con “illuminato”, e passò la propria vita a predicare.

Le statue che rappresentano il Buddha si trovano in tutto il mondo, soprattutto nei paesi dove il buddismo è il credo più diffuso.

Una statua buddista che merita una menzione particolare è il Phra Phuttha Maha Suwan Patimakon, un Buddha alto 254 centimetri per 5,5 tonnellate di peso che si trova nel tempio Wat Traimit a Bangkok, in Thailandia.

La raffigurazione della statua è nella posizione Bhumisparsamudra, con le gambe incrociate, la mano destra che sfiora il terreno e la sinistra a palmo aperto di fronte al ventre.

 La Usnisa, la fiamma sopra alla testa, raffigura l’energia spirituale che fluisce al di fuori del corpo, mentre i lobi forati e allungati mostrano il precedente status di principe di Siddhartha Gautama.


Lo stile della statua richiama altre simili costruite durante la dinastia Sukhotai, fra il XIII ed il XIV secolo, durante l’omonimo regno che governò vaste aree della Thailandia. Inizialmente il Buddha d’Oro si trovava a Sukhothai, per poi esser trasferito, nel 1403, ad Ayutthaya, dove rimase sino al 1801. 

Durante il 1765 i birmani assediarono la città, e la statua venne ricoperta di stucco dorato, mascherandone il reale valore. Solo così riuscì a salvarsi dal saccheggio della città avvenuto nel 1767.

Nel 1801 il Buddha d’Oro, sempre nascosto sotto uno strato di stucco, venne trasferito a Bangkok, quando il re Rama I, sostenitore dei monaci buddisti, proclamò Bangkok nuova capitale.

 Ordinò la costruzione di nuovi templi, popolati di rappresentazioni del Buddha provenienti da quelli in rovina. 

Durante il regno di suo nipote, Rama III, il Buddha d’Oro fu collocato nel tempio principale di Wat Chotanaram.


Wat Chotanaram, con gli anni, perse i suoi fedeli e venne infine abbandonato.

 La statua venne trasferita a Wat Traimit nel 1935 ma, dato che non c’era uno spazio per posizionare la scultura, rimase sotto una tettoia in lamiera per circa 20 anni. 

Nel maggio del 1955 il Buddha d’oro, sempre ricoperto di gesso, fu destinato ad un nuovo tempio a Bangkok. Quando la statua fu sollevata le corde si spezzarono e cadde, causando la rottura dello stucco.

Gli operai, pensando ad un cattivo presagio, scapparono dal tempio, lasciando la statua sommersa dal fango di un diluvio che avrebbe inondato la città per un giorno intero. 

Terminata la pioggia, il responsabile del tempio esaminò i danni alla scultura, scoprendo che, al di sotto del gesso, si nascondeva una statua di oro massiccio.

 La statua non era integra, ma smontata in nove parti, e all’interno del piedistallo vi era una chiave che consentiva di montare e smontare la statua, in modo da consentirne un più facile trasporto.


La statua d’oro fu scoperta in prossimità delle celebrazioni per la commemorazione del venticinquesimo periodo buddhista (2.500 anni dopo la morte di Gautama) per cui i media tailandesi diedero un enorme risalto al ritrovamento, e molti buddisti parlarono di miracolo.

Il 14 febbraio del 2010 fu inaugurato un grande edificio al Tempio di Wat Traimit, adatto ad ospitare il Buddha d’Oro.

 Al suo interno, oltre alla sala con il Buddha, si trovano le fotografie del ritrovamento e anche alcuni pezzi del gesso che ricopriva la statua.



Fonte: vanillamagazine

venerdì 11 giugno 2021

La bellissima leggenda della grotta Zinzulusa del Salento


 La grotta Zinzulusa è tra le dieci più importanti al mondo, al suo interno si spalanca un meraviglioso paradiso fatto di laghetti, formazioni calcaree, stalattiti e stalagmiti. 

Un nome curioso che deriva dal dialetto popolare salentino dove gli zinzuli sono gli stracci. 

La leggenda vede nelle numerose stalattiti e stalagmiti proprio le sembianze di stracci di un abito logoro.

La grotta Zinzulusa è stata scoperta nel 1793 dal vescovo locale Antonio Francesco del Duca, ma è stata esplorata dopo gli anni Cinquanta per studiarne le origini e la conformazione.

Nata da un fenomeno carsico risalente al periodo preistorico, la grotta è caratteristica per via delle sue curiose forme create dall’erosione. Un esempio? I visitatori potranno ammirare sentinelle, cascate, un’aquila, un presepe.

 Bellissimi anche i dintorni, con coste dirupate, acque limpidissime e incantevoli insenature che sembrano scolpite a mano.


Un fenomeno che troviamo in molte sorgenti di acqua dolce che si mescolano con il mare e rendono l’acqua particolarmente fredda all’interno della grotta.

 Il colore è di un azzurro-verde intenso.

La grotta è lunga 160 metri ed è costituita da tre parti.

 La prima è la Conca, una caverna con base ellittica che si apre verso il tratto più lungo della Zinzulusa, detto Corridoio delle Meraviglie. Qui ci sono le formazioni stalattitiche e stalagmitiche che impreziosiscono le pareti e alcune, per la loro straordinaria somiglianza con alcuni oggetti, hanno dei nomi curiosi, come ad esempio, Prosciutto, Pulpito, Spada di Damocle.


Lungo il corridoio si trova un altro laghetto, chiamato Trabocchetto che porta al secondo tratto: la Cripta (conosciuta anche come Duomo), una caverna di dimensioni ridotte e ricca di colonne calcaree. 

Questa caverna è alta ben 25 metri ed è stata un tempo rifugio di centinaia di pipistrelli che l’hanno abitata per molti secoli. Infine si raggiunge il Cocito, un piccolo bacino chiuso che si è così trasformato in un sistema ipogeo subacqueo.



La tradizione popolare narra che un tempo, vicino al luogo, vivesse il Barone di Castro, signore delle terre attorno al paese, un personaggio crudele e malvagio, nonché ricchissimo, il quale per la sua cattiveria lasciò morire la moglie di dolore e faceva vestire la povera figlioletta solo di stracci. 

La sua avarizia e cupidigia erano tali che, nonostante la grande quantità di denaro della quale era fornito, egli preferiva accumulare beni piuttosto che spendere qualche soldo per vestire la figlia.

La bambina, mancando delle cure e dell’amore paterno e materno, cresceva cupa e triste. 

Un giorno però una fata buona si presentò al cospetto della bimba, e le donò un vestito stupendo, stracciando quello vecchio e logoro che indossava.

 Gli stracci (in dialetto zinzuli) volarono insieme al vento fino ad adagiarsi sulle pareti della grotta, dove si pietrificarono. Da quel momento, la grotta, appunto perché le sue estremità erano ornate da quegli stracci di vestiti, venne chiamata Zinzulusa.

Il Barone invece venne scagliato dalla fata nel profondo delle acqua sottostanti alla grotta, e laddove egli si adagiò, scaturirono dal fondo marino delle acque infernali, creando il laghetto chiamato Cocito; secondo la leggenda, i crostacei che assistettero a tale avvenimento rimasero accecati per sempre. Invece la bambina si sposò con un principe ricco e buono, e la sua vita cambiò per sempre.



giovedì 3 giugno 2021

L’origine delle Teste di Moro: una storia tra gelosia e passione


 Qualsiasi siciliano, passeggiando per le vie della propria città o del proprio paese, si sarà imbattuto almeno una volta nella vita nelle Teste di Moro, cioè quei vasi ornamentali di ceramica dipinti a mano che raffigurano il volto di un uomo e di una donna.

Questi vasi, emblema della cultura e dell’arte siciliana, non nascono da un sorprendente estro creativo da parte degli artigiani siculi, ma sono il frutto di una leggenda propagata nel corso dei secoli.

 Dietro alle Teste di Moro, in siciliano note anche come Graste, si nasconde una storia d’amore fatta di passione, tradimenti, gelosia e sfociata nella vendetta.


Si narra che intorno all’anno 1000, durante la dominazione dei Mori in Sicilia, nel quartiere arabo Kalsa (nel cuore di Palermo) viveva una bellissima fanciulla che passava le sue giornate dedicandosi alla cura delle sue piante.

 Un giorno, dall’alto della sua rigogliosa balconata, venne notata da un Moro che stava passando da quelle parti.

Questo, non appena la vide, se ne invaghì immediatamente e non esitò un attimo a dichiarargli il suo amore. La ragazza, colpita da tale dichiarazione, ricambiò con passione il sentimento del Moro, ma la loro storia iniziata con tanto ardore era destinata ad una vita breve. Ben presto la giovane scoprì che il suo amato doveva fare ritorno in Oriente dove ad attenderlo c’erano moglie e figli.

Nel cuore della notte, sentitasi tradita ed umiliata, la ragazza si abbandonò ad un momento di gelosia e ira funesta uccidendo il suo Moro mentre stava dormendo.

 Successivamente ne tagliò la testa e vi creò una sorta di vaso in cui piantò all’interno un germoglio di basilico di cui si prese cura giorno per giorno.

 Grazie al suo inebriante profumo, la pianta di basilico, considerata l’erba dei re (dal greco Basilikos),  raccolse l’invidia dei vicini della fanciulla che non persero tempo a realizzare vasi in terracotta con le stesse fattezze della Testa di Moro.

Oggi le Teste di Moro sono riprodotte quasi sempre in coppia. Entrambi i vasi, che sul capo tengono una corona e un turbante che richiama all’Oriente, sono riccamente ornati con gioielli, fiori e agrumi. 

Fonte: liveuniversity.it

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