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venerdì 30 ottobre 2020

La mantide religiosa è pericolosa?


 La mantide religiosa (Mantis religiosa), conosciuta anche come Mantide Europea, è un insetto dell'ordine Mantodea di dimensioni relativamente grandi: a seconda della zona in cui abita, la sua lunghezza varia dai 3 ai 7 cm, però esiste una sottospecie che può misurare addirittura i 17 cm (Ischnomantis gigas nell'Africa Occidentale). 

La femmina è più grande del maschio.

Il suo nome viene dal greco mantis che significa "indovino, profeta", mentre religiosa si riferisce alla posizione delle zampe anteriori che sembrano in posizione di preghiera.

 Il significato etimologico di "profeta" ha attribuito alla mantide religiosa la caratteristica ingiusta di portare sfortuna.

 Già il filosofo Aristarco l'aveva incolpata di portar sventura, mentre nell'antica Roma era considerato un insetto magico, con dei poteri soprannaturali anche se non sempre connotati positivamente.

La mantide religiosa viene dall'Africa, però si è diffusa rapidamente in Europa e successivamente nel Nord America, probabilmente nel XIX secolo mentre si stavano trasportando delle talee: attualmente è l'insetto officiale simbolo del Connecticut.

 È un insetto che vive a temperature miti, quindi non lo troveremo nel Nord Europa; è presente in Italia, soprattutto nelle aree di campagna. Infatti, la mantide religiosa è un insetto che vive tra la vegetazione, dove può cacciare le sue prede e mimetizzarsi.


La mantide religiosa è caratterizzata da un corpo allungato e dalle zampe anteriori denominate raptatorie perché vengono utilizzate per cacciare la preda e sono provviste di spine per afferrarle. All'interno delle zampe anteriori possiamo apprezzare due macchie nere che sembrano due occhi che utilizzano per difendersi e spaventare i possibili predatori.
Inoltre, possiede due ali, però solo i maschi o le giovani femmine le utilizzano per volare; le femmine adulte di mantide religiosa sono troppo pesanti per essere sostenute in volo dalle ali. 

Alcune specie di mantide religiosa utilizzano il movimento delle ali per produrre un suono che ricorda il sibilo del serpente per allontanare e spaventare i possibili predatori.

Possiede due occhi grandi composti e può girare la testa a 180 gradi, in modo da osservare l'ambiente che la circonda da una prospettiva completa.

 Oltre agli occhi composti, la mantide religiosa è dotata di 3 ocelli: questi sono anche chiamati "occhi primitivi" e aiutano molti insetti che li possiedono a percepire la luce, non le immagini. 

L'occhio composto, invece, percepisce le immagini anche se a una definizione inferiore rispetto all'occhio dei vertebrati.

Un altra caratteristica peculiare è la presenza di un unico orecchio al centro del torace.

La mantide religiosa marrone è capace di mimetizzarsi meglio nelle zone più aride o quelle in cui la presenza di grano o paglia è maggiore, mentre la mantide religiosa verde saprà mimetizzarsi meglio nelle aree in cui è presente un'abbondante vegetazione: il colore della mantide religiosa è un altro strumento che utilizza per mimetizzarsi e cacciare le sue prede, quindi dipenderà dall'habitat in cui vive.

È per queste caratteristiche morfologiche che la mantide religiosa presenta fenomeni di criptismo o mimetismo criptico, ovvero, si confonde con l'ambiente che la circonda per passare inosservata ed essere invisibile alla preda, ma anche al suo predatore.


Come dimostrano le caratteristiche fisiche della mantide religiosa, questo insetto è carnivoro e si alimenta di altri insetti e in alcuni casi addirittura di uccelli.

 Tra le sue prede preferite troviamo mosche, grilli e cavallette; però si è dimostrato che le mantidi religiose mangiano anche piccoli uccelli, tra cui colibrì, oltre a rane e lucertole.

Per afferrare le sue prede utilizza le sue velocissime zampe raptatorie, che sono capaci di acchiappare una mosca in volo. Però, prima di tutto, sta in agguato con le zampe anteriori in atteggiamento di preghiera aspettando che la vittima si avvicini. Solo in quel momento, la afferrerà rapidamente.

La femmina e il maschio di mantide religiosa, hanno aspetti diversi. In questo caso la femmina è più grande di molti cm (circa 7) ed il suo colore è più brillante, varia dal verde al marrone chiaro.

 Ha inoltre due chiazze nere all'interno delle zampe anteriori. Queste zampe si definiscono raptatorie e servono ad agguantare la preda e fa sì che non scappi.

 Queste due chiazze possono danno la sensazione di che siano degli occhi e servono a spaventare potenziali predatori.

 Questa è una caratteristica comune negli animali, anche alcune farfalle ad esempio, hanno dei disegni sulle ali che sembrano occhi

Inoltre, la mantide quando si sente attaccata e in pericolo apre le sue ali e iniziare a farle frusciare imitando in suono del serpente



L'accoppiamento della mantide religiosa è da sempre stato motivo di studio: l'unico momento in cui il maschio e la femmina si uniscono è quando la femmina secerne feromoni che attirano il maschio; infatti, sono animali indipendenti e tendono a essere solitari, eccetto nel momento dell'accoppiamento.

Il momento dell'accoppiamento inizia quando il maschio salta sulla femmina e unisce le sue antenne con quelle della coppia. Durante o dopo l'accoppiamento, la femmina divora la testa del maschio, che in alcuni casi viene divorato interamente. Nel frattempo, il maschio introduce lo speratoforo nella femmina. L'accoppiamento può durare 5 ore o addirittura una giornata intera.

Questo atteggiamento di cannibalismo nuziale o post-nuziale non è solo presente nella mantide religiosa, ma si può osservare anche in altri insetti, come in alcuni ragni o scorpioni.

 Inoltre, anche se si pensava che fosse un atteggiamento proprio della mantide religiosa in cattività, si è scoperto dopo numerosi studi che questo comportamento è presente anche in natura.

La mantide religiosa femmina depone le uova in autunno, dopo aver preparato l'ooteca, una specie di involucro protettore che contiene tra le 100-200 uova. 

Le uova si schiudono in primavera.


La mantide religiosa maschio è un insetto che, dopo essere stato decapitato, continua l'accoppiamento con la femmina. Infatti, anche se rimane senza testa, può continuare la copula.

 Questo comportamento di cannibalismo post-nuziale è dovuto al fatto che la mantide religiosa femmina si alimenta e approfitta i nutrienti del maschio per produrre le uova.

Normalmente, questi insetti non vivono più di un anno, però la mantide religiosa maschio può vivere la metà rispetto alle femmine.

La convinzione errata sulla mantide religiosa pericolosa per l'uomo, da sempre ha fatto sì che suscitasse ammirazione e fascino, ma anche rispetto e paura tra le persone.

 Assolutamente non è così: la mantide religiosa è un insetto molto favorevole per l'ambiente perché aiuta a far funzionare correttamente l'ecosistema, nutrendosi di altri insetti.

L'unico atteggiamento aggressivo che potrebbe mostrare può avvenire quando è infastidita: in quel caso il morso della mantide religiosa potrebbe essere causato dalle zampe anteriori raptatorie e taglienti.

 Nemmeno la credenza secondo la quale la mantide religiosa è velenosa è certa: il morso, infatti, non provoca prurito e non inietta veleno.

La mantide religiosa non è pericolosa per l'uomo e le credenze popolari legate a questo falso mito potrebbero essere legate alla pratica del cannibalismo nuziale della femmina.

 In passato, era anche ingiustamente associata alla disgrazia, quindi non era un animale molto apprezzato perché associato alla sventura. 

Ricordiamo che il significato etimologico di Mantis come "profeta" può giustificare queste convinzioni erronee.

Fonte: animalpedia



domenica 25 ottobre 2020

Gli occhiali: l’invenzione medievale più famosa


 Vedere qualcuno che indossa gli occhiali oggi è normale quanto vedere una persona che indossa una sciarpa d’inverno. 

Gli occhiali sono uno strumento che migliora la vista di moltissime persone, indipendentemente dalla forma degli occhi. Ma non è stato sempre così.

Lo sviluppo degli occhiali come trattamento comune per la vista ha richiesto secoli, e grazie a molti brillanti innovatori oggi disponiamo di uno strumento di grandissima efficacia. 

Ti sei mai chiesto qual è la tecnologia principale dietro gli occhiali? Ecco un breve excursus della storia che ora consente a milioni di persone di leggere, guidare, eseguire interventi chirurgici e in genere vivere una vita migliore.

Il primo inventore di occhiali indossabili è sconosciuto.

 Tuttavia, i romani scoprirono per primi la capacità di utilizzare il vetro per migliorare la loro capacità di vedere piccoli testi, creando piccole lenti d’ingrandimento.

I primi occhiali indossabili noti nella storia apparvero in Italia nel tredicesimo secolo.

 Le lenti in vetro soffiato venivano incastonate in montature di legno o pelle (o occasionalmente, montature fatte di corno di animali) e poi tenute davanti al viso o appoggiate sul naso. 

Per lo più utilizzati dai monaci, gli occhiali crebbero in popolarità e la tecnologia produttiva migliorò durante il Rinascimento.


Le opere d’arte rimangono la migliore testimonianza dell’esistenza di questi antichi occhiali, poiché i dipinti del primo Rinascimento a volte raffigurano studiosi che utilizzano cornici portatili o occhiali in stile trespolo.



I mastri vetrai italiani realizzavano lenti di diverso spessore sulla base di test della vista rudimentali.

 Man mano che questi occhiali diventavano più popolari, le creazioni italiane si diffusero in tutta Europa, disponibili esclusivamente a nobili e ricchi borghesi.

La tecnologia rimase abbastanza simile per diversi secoli, perché le prime modifiche arrivarono nel 1700. Gli occhiali diventarono uno strumento che si sorreggeva da solo grazie allo sviluppo delle stanghette, che lasciavano libere le tempie.

Il modello più famoso di questi occhiali evoluti era chiamato “Martin’s Margins”, occhiali sviluppati dall’inventore Benjamin Martin. 

Questi occhiali, che oggi sono venduti come oggetti da collezione, hanno gettato le basi per lo sviluppo di lenti più accurate e sottili, con montature progettate per durare nel tempo.”, occhiali sviluppati dall’inventore Benjamin Martin.

 Questi occhiali, che oggi sono venduti come oggetti da collezione, hanno gettato le basi per lo sviluppo di lenti più accurate e sottili, con montature progettate per durare nel tempo.



Dopo l’innovazione delle stanghette ci fu quella delle lenti bifocali, inventate da Benjamin Franklin, che permisero di vedere bene sia da vicino sia da lontano, utilizzando un paio di occhiali anziché due. 

Un altro tipo di occhiale che allora andava di moda erano gli “occhiali a forbice”. Questi potevano essere riposti in tasca e tirati fuori all’occorrenza, utilizzati magari per leggere o vedere qualcosa di importante.

All’inizio del XIX secolo, gli occhiali erano ancora fatti a mano e non rappresentavano una tecnologia disponibile per tutti.

 Grazie alla rivoluzione industriale e alla produzione in serie di montature e lenti, divennero molto più economici, diventando finalmente alla portata di buona parte della popolazione dell’epoca.

Durante l’800 e il ‘900, con un abbassamento di prezzi delle componenti, furono in molti a creare occhiali che fossero anche un oggetto di moda e non solo un mezzo per vedere bene.

Montature con diverse forme, materiali e colori divennero disponibili per coloro che desideravano che gli occhiali si abbinassero alla forma del viso, al colore degli occhi o al vestito.

Ad esempio, Theodore Roosevelt indossava occhiali pince-nez, che non avevano le stanghette, ma che rimanevano di fronte agli occhi grazie a una clip sul naso.

 Questi occhiali erano piuttosto popolari all’inizio del secolo, ma divennero fuori moda quando furono associati alle generazioni più anziane.

In particolare, gli stili sono cambiati a causa della disponibilità e dello sviluppo di plastiche resistenti.

 Non era più necessario che tutti gli occhiali fossero realizzati con montature in legno, metallo o corno. La plastica poteva essere modellata in molte forme e dimensioni.

Il 20° secolo ha visto anche l’ascesa degli occhiali da sole, utilizzati sia per proteggere gli occhi sia come accessorio alla moda. 

Questi furono inventati per la prima volta in Cina durante il 12° secolo, ma non erano funzionali alla vista o alla protezione dal sole, erano usati per oscurare gli occhi dei giudici in tribunale in modo che nessuno potesse determinare le loro espressioni.

Fonte: vanillamagazine

venerdì 23 ottobre 2020

Populonia (LI): un mareggiata fa emergere una straordinaria tomba etrusca con resti umani e corredo funerario.


 

Non tutti i mali vengono per nuocere: a Populonia, frazione di Piombino in provincia di Livorno e una delle più grandi e importanti città etrusche e romane dell’antichità, una mareggiata ha fatto riemergere una tomba risalente proprio al periodo degli Etruschi con tanto di resti umani in buono stato e un ricco corredo funerario

A scoprirla è stata la squadra archeologica Sostratos, impegnata negli scavi alla vicina Venturina Terme, è subito intervenuta in emergenza sulla spiaggia di Baratti in seguito alla chiamata dalla soprintendenza.

 Una scoperta tutt’altro che scontata quella che gli archeologi si sono trovati ai piedi: una sepoltura etrusca mai rinvenuta e risalente a circa la seconda metà del IV secolo a.C.

L’antico abitato di Populonia si trova in posizione dominante su di uno dei promontori che formano il golfo di Baratti e conserva fortificazioni del XV secolo ad opera dei Signori di Piombino, gli Appiani, come testimoniato dal dragone simbolo della casata sopra all’ingresso del borgo.

La sepoltura etrusca riportata alla luce è in fossa di terra e risalirebbe alla seconda metà del IV secolo avanti Cristo.

 In essa sono comprese ceramiche sovradipinte e ceramiche comuni e un corredo composto da 15 pezzi perfettamente conservati già allo studio e alla pulitura.


E non solo: dalla pulitura di un vasetto in vernice nera dello splendido corredo funebre è emersa una importantissima sorpresa: sul fondo della vasca del reperto, un’epigrafe graffita rivela il nome del nostro Etrusco: MI P(E)TRUS, “io sono di Petru”.

Germana Carillo


mercoledì 21 ottobre 2020

Il borgo a due passi da Roma che custodisce un Moai dell’Isola di Pasqua


 Viaggiare apre la mente e fa scoprire mondi inaspettati; lo so da sempre, ma addirittura che si potesse trovare un po’ dell’Isola di Pasqua nella campagna laziale questo proprio non lo sapevo.

Eppure a Vitorchiano nell’alto viterbese c’è un Moai, una di quelle enigmatiche statue per cui è famosa l’Isola di Pasqua e non è una imitazione grossolana: è un autentico “moai” scolpito da autentici scultori dell’isola, con autentici antichi attrezzi con cui la loro tribù da secoli compie queste imprese che hanno più del rito sacro che dell’atto artistico.

“… è stato scolpito nel 1990 da undici indigeni Maori dell’Isola di Pasqua, invitati dalla trasmissione RAI “Alla ricerca dell’Arca”, a realizzare uno dei più fantastici programmi di “gemellaggio” culturale.

 Poiché gli originali Moai dell’isola di Pasqua si stanno deteriorando, la televisione di Stato si adoperò per scovare una pietra vulcanica simile a quella delle cave dell’Isola di Pasqua per poterne costruire uno nuovo.

 La trovò proprio qui: un enorme blocco di peperino del peso di trenta tonnellate. Fu scolpito, con asce manuali e pietre taglienti, da undici indigeni maori della famiglia Atanm, provenienti dall’isola di Rapa Nui (Cile). 

“Il Moai – spiegarono i costruttori dopo aver danzato intorno al blocco di peperino che a poco a poco prendeva forma – è una scultura sacra: porta prosperità al luogo che osserva, a patto che non venga mai spostato. Se viene mosso dal punto in cui viene scolpito, provoca grandi sciagure.”

A Vitorchiano non hanno preso molto sul serio la cosa dello spostamento tanto che prima lo hanno fatto partire per la Sardegna per una mostra e al suo ritorno lo hanno sistemato appena fuori dell’abitato, in una tristissima piazzola di sosta dei camper dalla quale lo sguardo ieratico del Moai si posa benevolo su Vitorchiano (che è davvero bello visto da qui specie al tramonto) e poi va oltre, verso Est, al di là dei continenti verso il centro del Pacifico, verso l’Isola dei suoi antenati.


La storia è bella, peccato non si riesca a trovare nemmeno una immagine degli autori durante la costruzione. Per decenni il Moai vero di Vitorchiano è stato l’unico al mondo fuori dell’Isola di Pasqua, ma “…dal giugno 2015 anche Chiuduno, in provincia di Bergamo, ne ha uno. E’ stato costruito da 14 indigeni appartenenti al gruppo HAKA ARA HENUA, tutti Maori Rapa Nui polinesiani dell’Isola di Pasqua.

 L’evento si è svolto in occasione del XV Festival Internazionale “Lo Spirito del Pianeta”, che ogni anno si svolge a Chiuduno,  ospitando gruppi tribali e indigeni del mondo, con la loro cultura, tradizioni, folclore, artigianato, gastronomia, ecc. … la kermesse si è arricchita di un dono che i Maori hanno voluto lasciare al paese, come simbolo di pace.


La statua è stata munita di occhi di ossidiana e corallo questo significa molto per l’usanza dei rapa Noi diventando infatti il volto vivo del loro passato




Forse  in fondo il Moai di Vitorchiano sta bene dove è: non avrebbe “legato” molto con il centro storico di taglio medievale del borgo e invece  dove è ora si erge solitario e maestoso nella potenza dei suoi sei metri di altezza. 

Di lì può volgere lo sguardo lontano e nella sua solitudine ci ricorda che non è un monumento qualunque ma uno dei giganti misteriosi dell’Isola di Pasqua  e un po’ del loro mistero emana anche da lui.


Fonte : piccolestorienellapietra

lunedì 19 ottobre 2020

I sorprendenti vortici verdi che trasformano il Mar Baltico in un quadro


 Quasi ogni estate nel Mar Baltico fioriscono copiose e colorate distese di fitoplancton. E quasi ogni estate, le immagini satellitari rilevano i modelli artistici che disegna la natura con la complicità delle correnti, dei vortici e dei flussi marini. 

Dei disegni che, visti dall'atmosfera, mostrano l'impronta digitale della fioritura: un disegno unico e inimitabile, in continua trasformazione.

A testimoniare che non esistono due fioriture di fitoplancton esattamente uguali è l'Earth Observatory della Nasa che ha immortalato lo scorso 15 agosto uno spettacolo straordinario. I colori che vedete in queste foto sono naturali, senza filtri: potete immaginare quindi l'intensità di queste sfumature, visibili così dall'occhio fotografico del satellite Landsat 8, di passaggio sul Mar Baltico.


La fioritura di fitoplacton ha interessato in particolar modo il tratto di mare fra Öland e Gotland, due isole al largo della costa sud-orientale della Svezia.

 In una delle foto si possono vedere delle linee scure e dritte che attraversano i vortici verdi, spezzandoli: non si tratta di un problema grafico ma bensì della scia lasciata dalle navi che hanno attraversato la fioritura.


Non si sa con esattezza quale microrganismo si nasconda dietro a questo spettacolo ma è probabile che siano dei cianobatteri, un antichissimo tipo di batteri marini fotosintetico, chiamato impropriamente anche alga verde-azzurra, la cui origine risale a qualcosa come 3,5 miliardi di anni fa. 

A rendere i colori così intensi potrebbe quindi esser l'abbondanza di fosfato nelle acque più profonde oltre alle temperature sempre più calde che intensificano non tanto le nuance quanto la densità delle fioriture.


Fonte: lastampa

domenica 18 ottobre 2020

Shajarat-al-Hayat, l'albero della vita nel deserto del Bahrein


 È conosciuto con il nome di Shajarat-al-Hayat, l'albero della vita e si trova a sud – est del deserto del Bahrein, ad una distanza di circa 2 km dal Djebel Dukhan (la Montagna del Fumo) e a 40 km da Manama.

Appartenente alla specie "Prosopis cineraria", questa maestosa acacia ha una storia leggendaria e mistica le cui radici affondano nella tradizione cattolica ed ebraica. Nella Bibbia, infatti, si racconta di un albero della vita collocato da Dio nell'Eden, insieme a quello della conoscenza del Bene e del Male.  Nell'esegesi ebraica viene detto che questi due esemplari, uniti all'inizio, furono in seguito separati da Adamo.
Se si pensa che l'intera zona del Bahrein è ritenuta la sede del mitico giardino si comprende a pieno la ragione per la quale l'albero è immerso in un alone di mistero e stimoli, di conseguenza, le fantasie degli abitanti del posto.

L'acacia sembra sia stata piantata nel lontano 1583 e da quel giorno non ha mai smesso di essere rigogliosa. Le sue foglie hanno splendidi colori, sfumature dal verde al marrone, e il tronco maestoso presenta un groviglio di rami così fitto e, per certi versi, talmente caotico da sembrare irreale. Una pianta creata dalla fantasia di qualche scrittore o dalle mani di un dio.


Nel momento in cui si approda nel deserto, a poca distanza dall'esemplare, si viene accolti da un curioso cartello nel quale è spiegato come raggiungerlo. Shajarat-al-Hayat è, nella fattispecie, una vera e propria attrazione turistica.
Sono, ogni anno, moltissimi i visitatori del sito (se ne contano intorno ai 50.000) attirati dalle credenze popolari nate intorno ad esso. Ad alimentarle, oltre alla convinzione che nel Bahrein sorgesse l'Eden, di cui l'acacia sarebbe l'ultima testimonianza, intervengono anche le difficili e, se vogliamo, impossibili condizioni climatiche e territoriali dove è cresciuta.

Il deserto del Bahrein è una distesa di dune e sabbia, privo di dirette fonti d'acqua.
L'albero della vita emerge solo nella zona e sebbene appartenga ad una tipologia di pianta in grado di sopravvivere in ambienti aridi e con pochissime precipitazioni annuali (appena 150 millimetri all'anno), stupisce per la sua incredibile longevità.


La gente del luogo non riesce a spiegarsi come un simile esemplare riesca a sopravvivere, mantenendo intatta la sua robustezza. In realtà, però, se si decide di dare spazio alla scienza, un motivo si riesce a trovarlo ed è legato sempre alla specie a cui appartiene.
La Prosopis cineraria, infatti, ha radici molto profonde in grado di raggiungere fonti d'acqua sotterranee, site anche a 50 metri nel sottosuolo. Inoltre, sono collocate al di sopra del livello del mare, come lo stesso terreno. Ciò favorisce l'approvvigionamento idrico dell'albero.
A questo si deve aggiungere la predisposizione dell'acacia ad assorbire l'acqua che gli occorre direttamente dall'aria grazie ad un ambiente umido, nonostante gli scarsi fenomeni piovosi.

Di sicuro, quindi, non sarà il clima a decretare l'eventuale morte di questa splendida Prosopis cineraria. La sua esistenza, piuttosto, è messa a rischio dai turisti e dal loro comportamento irrispettoso.
Nel corso degli anni si sono contate decine di episodi vandalici. Alcune persone hanno strappato foglie e rametti per portarseli via, come se fossero una sorta di portafortuna o di souvenir "dell'albero leggendario". Altri hanno addirittura scritto sul tronco, deturpandolo impunemente.


Per questa ragione le autorità locali si sono mosse allo scopo di proteggere Shajarat-al-Hayat. Ed oggi un recinto in ferro ne circonda la base, impedendo così ai visitatori di avvicinarsi troppo. Tuttavia, è ancora possibile sedersi sotto la sua ombra (data la notevole estensione dei rami) e godere della sua frescura, magari organizzando un picnic per trascorrere qualche ora in compagnia, lontani dalla città.

L'aria che si respira intorno a quest'acacia, al di là di ogni spiegazione, continua ad avere in sé la magia delle storie immortali.

Fonte: fotovoltaicosulweb

venerdì 16 ottobre 2020

Buchette del vino: cosa sono le antiche finestrelle che stanno tornando in uso in Toscana


 Stanno tornando di moda a Firenze le antiche buchette del vino. Utilizzate durante l’epidemia di peste ora trovano nuovo uso per favorire il distanziamento sociale ai tempi del coronavirus.

Le “finestre del vino” o “buchette del vino” risalgo al XVI secolo. Allora furono progettate per servire i clienti senza avvicinarsi direttamente a loro, l’apertura infatti veniva utilizzata per il passaggio delle bevande.


Un’antica tradizione che sta riprendendo forza durante la pandemia.

Nel XVI secolo i proprietari terrieri dovevano diversificare il loro reddito e per questo furono incoraggiati dalla famiglia fiorentina dei Medici a coltivare la vite e vendere la loro produzione di vino senza passare per intermediari.

Intorno all’anno 1532 nacquero in Toscana queste caratteristiche piccole aperture, intagliate a mezza altezza nei muri delle cantine e dei negozi, utili ai commercianti per servire le loro bevande a distanza di sicurezza. 

Le finestre del vino ebbero un improvviso fervido successo a causa dell’esplosione dell’epidemia di peste del 1630.

Le buchette, infatti, aiutavano a ridurre i contatti tra venditori e acquirenti e di conseguenza limitavano il rischio di contagio. Ma chi se l’aspettava che, dopo tutto questo tempo, sarebbero tornate utili proprio nel corso di un’altra pandemia?

Molto apprezzate nel Rinascimento, le finestrelle caddero gradualmente in disuso. 

Tuttavia, un evento inaspettato, ha rianimato l’uso di queste aperture: appunto l’epidemia di Covid-19.


Ancora presenti in Toscana (sono oltre 150 nella sola Firenze), le buchette stanno quindi tornando utili per servire non solo vino ma anche il più moderno Spritz, caffè, gelati, panini e altro. 


Un modo che hanno gestori e clienti per continuare a vendere e consumare cibo e bevande negli spazi pubblici, senza mettere a rischio la propria salute.


Fonte: greenme.it

lunedì 12 ottobre 2020

Il Mito della “Terra Piatta” è un’invenzione di fine ‘800 e non Medievale


 Una credenza comune vuole che nel Medioevo sia gli intellettuali sia la gente comune ritenessero la Terra come piatta.

 Al contrario, gli studiosi dell’epoca erano assolutamente coscienti della sfericità della Terra, che venne scoperta molti millenni prima e venne assurto a concetto acquisito.

 Nonostante non si abbia la certezza sullo scopritore della sfericità della Terra (potrebbe esser stato Parmenide nel V Secolo a.C., ma anche altri), la prima persona che dimostrò scientificamente la sfericità della terra fu Eratostene di Cirene nel III Secolo a.C., che spiegò non solo la sfericità del nostro pianeta, ma ne calcolò con buona approssimazione la circonferenza.

L’idea di terra piatta poteva essere diffusa fra le persone comuni, le quali comunque non hanno lasciato testimonianze a riprova di tale teoria, ma era certamente scartata dalla comunità di intellettuali.

L’equivoco, sovente definito come “Mito della Terra Piatta“, venne reso popolare alla fine del XIX secolo dai positivisti, in una disputa ideologica fra creazionisti ed evoluzionisti. Probabilmente fu un insulto coniato dagli evoluzionisti per deridere l’atteggiamento tradizionalista dei colleghi scienziati, che si rifiutavano di accettare le teorie dell’evoluzione.

Un mito che è altrettanto comune è la rappresentazione della terra come piatta da parte degli artisti medievali, e molti pittori famosissimi raffigurarono il pianeta come un disco sferico stilizzato, come ad esempio Hyeronimus Bosch (1450-1516), che dipinse una Terra sferica nel centro di un vasto spazio sul lato esterno del suo famoso “Giardino delle Delizie”.


Dante stesso, nella Divina Commedia, definisce la Terra come una sfera, mentre Tommaso d’Aquino (1225-1274) scrisse nel suo Summa theologiae:

Le scienze si distinguono per il diverso metodo che esse usano. L’astronomo ed il fisico possono entrambi provare la stessa tesi – che la terra, per esempio, è sferica: l’astronomo lo dimostra con l’ausilio della matematica, il fisico lo prova attraverso la natura della materia“.


Il mito della terra piatta entrò nell’immaginario comune a causa del libro del 1828 di Washington Irving “La vita ed i viaggi di Cristoforo Colombo”, che introdusse la teoria secondo la quale il famoso esploratore italiano avrebbe incontrato difficoltà nel farsi finanziare le spedizioni perché le persone dell’epoca erano convinte che la terra fosse piatta.

 In realtà molti aristocratici rifiutarono di finanziare Colombo proprio perché erano consapevoli della lunghezza della circonferenza terrestre, e pensavano che la tecnologia dell’epoca fosse insufficiente a circumnavigare il globo per raggiungere le Indie.

 Non sapendo che nel mezzo c’era il continente Americano non avrebbero avuto assolutamente torto!


Quando Colombo ricalcolò la circonferenza terrestre, utilizzò le stime storiche dell’antico matematico Greco Tolomeo. Consultando gli scritti di Tolomeo, Colombo non seppe che il matematico utilizzava il miglio arabo (circa 2 Km) e non il miglio italiano (1852 metri), e il risultato fu circa del 25% inferiore alla reale circonferenza terrestre. 

Se avesse usato le dimensioni reali, forse gli aristocratici avrebbero opposto ancor maggiore resistenza ai finanziamenti.

Oggi la comunità di studiosi e storici ritiene una realtà provata e certa che la “Terra Piatta” sia sostanzialmente una bufala nata durante l’800.

Fonte: vanillamagazine.

domenica 4 ottobre 2020


 Una maschera di terracotta risalente a quasi 2.400 anni fa è stata trovata durante gli scavi nella Turchia occidentale, ha detto il leader dello scavo.

L'archeologo Kaan Iren, che guida la squadra di scavi nell'antica città di Daskyleion nella provincia di Balikesir, ha detto all'Agenzia Anadolu che una maschera dell'antico dio greco Dioniso, trovata nell'acropoli della città, è una delle scoperte più interessanti di quest'anno.

“Questa è forse una maschera votiva. Maggiori informazioni saranno disponibili nel tempo con ulteriori ricerche ", ha affermato Iren, professore presso la Mugla Sitki Kocman University.

La leggenda vuole che indossare una maschera renda omaggio a Dioniso, il dio greco dei carnevali e delle mascherate, permettendoti di liberarti da desideri segreti e rimpianti sepolti.


Si dice che Dioniso abbia nascosto sia la sua identità che il suo potere, ed è considerato un mecenate delle arti.


Daskyleion si trova sulla riva del lago Manyas nel distretto di Bandirma di Balikesir, da quando l'Asia Minore aveva molti antichi insediamenti greci.

Iren ha detto che quest'anno è stata portata alla luce una cantina nella cucina di Lidia nell'acropoli della città.

"Il lavoro continua per ottenere semi e altre parti organiche dal terreno scavato nella cucina di Lidia e nei suoi dintorni attraverso un processo di flottazione", ha aggiunto.

Attraverso ulteriori ricerche, la cucina e le abitudini alimentari della regione di 2.700 anni fa saranno comprese meglio, ha detto l'archeologo.

Nel VII secolo a.C., la città fu chiamata Daskyleion quando il famoso re di Lidia, Daskylos, arrivò in città da Sardi a causa di litigi dinastici, secondo il sito web del Ministero della Cultura e del Turismo turco. Suo figlio Gyges è nato a Daskyleion e in seguito è stato ricordato a Lydia.

Dopo che Gige divenne re di Lidia, la città fu ribattezzata Daskyleion - il luogo di Daskylos - intorno al 650 a.C.

Fonte: www.aa.com

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