venerdì 1 dicembre 2017
Tracce tossiche di antimonio nelle acque di Pompei
Una squadra di scienziati ha scoperto livelli altamente tossici di antimonio nel frammento di un tubo di piombo in una casa di Pompei.
Le conseguenze sono ancora da dimostrare ma potenzialmente erano gravi: intossicazione da antimonio, diarrea, vomito, disidratazione e, col tempo, danni al fegato e ai reni.
Pompei avrebbe pure avuto la sfortuna di trovarsi vicino al Vesuvio, dato che l’antimonio si trova in maggiori quantità nelle acque sotterranee vicine ai vulcani.
Quando il Vesuvio eruttò nel 79 d.C., inghiottì la città di Pompei così rapidamente che molti residenti non ebbero il tempo di reagire al disastro.
I loro ultimi momenti vennero congelati nel tempo, sepolti sotto a strati di cenere calda.
Ma prima ancora dell’eruzione vulcanica, nelle case di Pompei si aggirava una minaccia nascosta e potenzialmente mortale.
Recenti analisi di un frammento di una conduttura di piombo hanno mostrato tracce di antimonio – un elemento metallico altamente tossico che storicamente veniva mescolato al piombo per rafforzarlo.
I tubi di piombo, utilizzati in tutto l’Impero romano, oggi sono considerati una scelta di bassa qualità per il trasporto di acqua potabile. Sebbene meno soggetto alla corrosione rispetto ad altri metalli, le particelle di piombo si infiltrano nell’acqua e possono accumularsi nel corpo umano, provocando l’avvelenamento da piombo.
Nel corso del tempo, esso può danneggiare i reni e il sistema nervoso, e anche causare colpi apoplettici o cancro. Bambini e neonati ne sono particolarmente vulnerabili, visto che questo tipo di avvelenamento può portare a ritardi nello sviluppo.
L’antimonio potrebbe però aver rappresentato una minaccia ancora maggiore del piombo per la salute dei Romani.
Secondo l’analisi di una tubatura di una casa di Pompei, diretta dal professor Philippe Charlier (Hôpital Max Fourestier), il sistema idrico della città avrebbe contenuto quantità sufficienti di antimonio per causare attacchi giornalieri di diarrea e vomito, potenzialmente provocando gravi disidratazioni, e nel tempo anche danni epatici e renali.
Dall’inizio del XVIII secolo, gli storici sostengono che i sistemi di tubi di piombo nelle città romane avrebbero portato ad avvelenamenti cronici di piombo che alla fine causarono la caduta dell’impero.
Ma la calce nell’acqua probabilmente impediva questo processo, scrivono gli autori dello studio.
Negli ultimi decenni, altri ricercatori hanno spiegato che le superfici interne dei tubi si sarebbero rapidamente calcificate nel giro di qualche mese al massimo, proteggendo così l’acqua dalle dannose particelle di piombo.
Tuttavia, l’antimonio è molto più tossico del piombo. Prima che si formassero gli strati protettivi di calcite, anche delle piccole quantità di antimonio filtrate nell’acqua avrebbero fatto ammalare le persone molto rapidamente, portandole all’arresto cardiaco nei casi gravi. Per identificare i composti nel tubo, i ricercatori hanno utilizzato un metodo in grado di rilevare anche piccole quantità di elementi metallici e non metallici. Hanno sciolto un campione in acido nitrico concentrato e l’hanno riscaldato a 6.000 gradi per ionizzare gli elementi – aggiungendo o rimuovendo gli elettroni per cambiare la loro carica – in modo da poterli identificare e analizzare con uno spettrometro di massa.
Sulla base della loro analisi, la concentrazione di antimonio nel tubo era di circa 3,680 microgrammi, approssimativamente 0,0001 oncie.
Potrebbe non sembrare molto, ma in realtà è un “livello di allarme” se si trova in prossimità dell’acqua potabile, e sarebbe stato sufficiente a causare gravi sintomi di intossicazione da antimonio. La vicinanza di Pompei con il vulcano potrebbe inoltre aver peggiorato il problema.
L’antimonio si presenta naturalmente nelle acque sotterranee vicine ai vulcani, e la vicinanza di Pompei al Vesuvio sarebbe risultata in concentrazioni tossiche di antimonio nell’acqua, ancora più alte che in un’altra città romana. Poiché i loro test sono stati eseguiti solo su un piccolo frammento, saranno necessari ulteriori esami di tubi, denti e ossa umane per confermare la diffusione di questo problema all’interno dell’Impero romano.
I risultati sono stati pubblicati sulla rivista scientifica Toxicology Letters.
Fonte: ilfattostorico.com
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Fonte: lastampa.it
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