venerdì 10 ottobre 2014
L'albero della vita: un miracolo vivente nel deserto del Bahrain
È conosciuto con il nome di Shajarat-al-Hayat, l'albero della vita e si trova a sud – est del deserto del Bahrein, ad una distanza di circa 2 km dal Djebel Dukhan (la Montagna del Fumo) e a 40 km da Manama.
Appartenente alla specie "Prosopis cineraria", questa maestosa acacia ha una storia leggendaria e mistica le cui radici affondano nella tradizione cattolica ed ebraica.
Nella Bibbia, infatti, si racconta di un albero della vita collocato da Dio nell'Eden, insieme a quello della conoscenza del Bene e del Male.
Nell'esegesi ebraica viene detto che questi due esemplari, uniti all'inizio, furono in seguito separati da Adamo.
Se si pensa che l'intera zona del Bahrein è ritenuta la sede del mitico giardino si comprende a pieno la ragione per la quale l'albero è immerso in un alone di mistero e stimoli, di conseguenza, le fantasie degli abitanti del posto.
L'acacia sembra sia stata piantata nel lontano 1583 e da quel giorno non ha mai smesso di essere rigogliosa.
Le sue foglie hanno splendidi colori, sfumature dal verde al marrone, e il tronco maestoso presenta un groviglio di rami così fitto e, per certi versi, talmente caotico da sembrare irreale.
Nel momento in cui si approda nel deserto, a poca distanza dall'esemplare, si viene accolti da un curioso cartello nel quale è spiegato come raggiungerlo.
Shajarat-al-Hayat è una vera e propria attrazione turistica. Sono, ogni anno, moltissimi i visitatori del sito (se ne contano intorno ai 50.000) attirati dalle credenze popolari nate intorno ad esso.
Ad alimentarle, oltre alla convinzione che nel Bahrein sorgesse l'Eden, di cui l'acacia sarebbe l'ultima testimonianza, intervengono anche le difficili e, se vogliamo, impossibili condizioni climatiche e territoriali dove è cresciuta.
Il deserto del Bahrein è una distesa di dune e sabbia, privo di dirette fonti d'acqua.
L'albero della vita emerge solo nella zona e sebbene appartenga ad una tipologia di pianta in grado di sopravvivere in ambienti aridi e con pochissime precipitazioni annuali (appena 150 millimetri all'anno), stupisce per la sua incredibile longevità.
La gente del luogo non riesce a spiegarsi come un simile esemplare riesca a sopravvivere, mantenendo intatta la sua robustezza. In realtà, però, se si decide di dare spazio alla scienza, un motivo si riesce a trovarlo ed è legato sempre alla specie a cui appartiene.
La Prosopis cineraria, infatti, ha radici molto profonde in grado di raggiungere fonti d'acqua sotterranee, site anche a 50 metri nel sottosuolo. Inoltre, sono collocate al di sopra del livello del mare, come lo stesso terreno. Ciò favorisce l'approvvigionamento idrico dell'albero.
A questo si deve aggiungere la predisposizione dell'acacia ad assorbire l'acqua che gli occorre direttamente dall'aria grazie ad un ambiente umido, nonostante gli scarsi fenomeni piovosi.
Di sicuro, quindi, non sarà il clima a decretare l'eventuale morte di questa splendida Prosopis cineraria.
La sua esistenza, piuttosto, è messa a rischio dai turisti e dal loro comportamento irrispettoso. Nel corso degli anni si sono contate decine di episodi vandalici. Alcune persone hanno strappato foglie e rametti per portarseli via, come se fossero una sorta di portafortuna o di souvenir "dell'albero leggendario".
Altri hanno addirittura scritto sul tronco, deturpandolo impunemente.
Per questa ragione le autorità locali si sono mosse allo scopo di proteggere Shajarat-al-Hayat. Ed oggi un recinto in ferro ne circonda la base, impedendo così ai visitatori di avvicinarsi troppo. Tuttavia, è ancora possibile sedersi sotto la sua ombra (data la notevole estensione dei rami) e godere della sua frescura, magari organizzando un picnic per trascorrere qualche ora in compagnia, lontani dalla città.
L'aria che si respira intorno a quest'acacia, al di là di ogni spiegazione, continua ad avere in sé la magia delle storie immortali.
Il Tempio di Sanjusangendo
Il nome Sanjusangendo, “Il padiglione dei 33 spazi”, è derivato da una caratteristica architettonica: ci sono 33 spazi fra i pilastri della facciata. Il numero allude al numero delle manifestazioni di Kannon, il bodhisattva compassionevole che assume 33 diverse forme per poter salvare tutti gli esseri umani.
L’imperatore Goshirakawa lo fece originariamente costruire all’interno di uno dei suoi palazzi nella seconda metà del periodo Heian, con l’aiuto finanziario di Taira no Kiyomori, un personaggio molto potente a quei tempi. Però l’edificio originale bruciò a causa del grande incendio di Kyoto del 1249, e quello che si vede attualmente è stato ricostruito nel 1266.
Durante il periodo in cui Kyoto fu capitale del Giappone furono costruiti numerosi edifici imponenti, ma la maggior parte fu distrutta in breve tempo a causa dei frequenti incendi e terremoti. Perciò i carpentieri hanno utilizzato numerose tecniche antisismiche ingegnose nella costruzione di Sanjusangendo, e ancora oggi possiamo ammirare l’edificio eretto nel 1266.
Le mille statue di Senju-Kannon occupano tutto lo spazio interno di Sanjusangendo.
Ogni statua ha 11 visi e 40 mani.
Tante mani rappresentano le mille mani (senju) con cui Kannon aiuta i mortali.
Centoventiquattro statue sono originali del periodo Heian, le altre sono state ricostruite nel periodo Kamakura impiegando 16 anni.
Si dice che si può trovare una statua che assomiglia a qualsiasi persona che si vuole vedere.
Al centro dell’edificio, in mezzo alle mille immagini di Kannon, è posta una statua di Senju-Kannon seduto considerata patrimonio artistico nazionale.
Alta più di 3 metri, è fatta di legno di hinoki (cipresso giapponese), ed è interamente ricoperta da una pellicola di lacca Giapponese.
La statua centrale fu creata dal grande scultore di opere buddiste Tankei e dai suoi allievi durante la ricostruzione nel periodo Kamakura.
Si dice che l’equilibrio dell’ intera figura, la determinazione solenne che si percepisce nel volto e l’espressione serena siano caratteristiche delle opere di Tankei.
Davanti alla statua di Tankei ci sono trenta statue di divinità buddiste originarie dell’India antica.
Fonte: http://thekyotoproject.org/
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