martedì 8 aprile 2014
Canta che ti passa (la fatica): ecco i pozzi cantanti dell'Etiopia
Prima ancora del blues esistevano i work songs, i canti di lavoro degli schiavi afroamericani che raccoglievano il cotone e il riso, tagliavano la canna da zucchero, costruivano le linee ferroviarie, scavavano gallerie.
Non si trattava di semplice intrattenimento ma dell’unico modo per reggere i disumani cicli lavorativi in quanto il ritmo del canto cadenzava i movimenti, sincronizzava la mano d’opera e rendeva la giornata meno alienante (dunque più proficua per i padroni).
La tradizione non è tramontata come si pensa e ancora si trovano le workgang, i gruppi per cui il canto è complementare al lavoro, ad esempio nel sud dell’Etiopia, dove l’Associazione Esplorare La Metropoli è andata a girare il documentario The well .
Per mesi la telecamera ha seguito nelle aride distese dell'Oromia l’attività dei Borana, i figli dell’aurora, una popolazione di pastori seminomadi che durante la stagione secca si sposta per lunghi tratti per raggiungere i centenari “pozzi cantanti”, la cui litania è un rassicurante richiamo per uomini e bestie.
Queste “Ellas” sono scavate a mano nella roccia fino a trenta metri di profondità, con diversi livelli e rampe digradanti.
Dal fondo parte la catena umana, composta da giovani volontari che passano secchi pieni d’acqua da un braccio all’altro, da un livello a quello successivo, finché l’ultimo, il più vicino alla superficie, non li versa nell’abbeveratoio.
E’ una staffetta senza sosta sin dal primo mattino, una fatica immane scandita dal canto ascensionale e perfettamente coordinato che dalla cavità si spande nell'aria fino a raggiungere le grandi mandrie che, riconoscendo il suono, si avvicinano lentamente dopo giorni di cammino.
Così nella savana, rossa e asciutta a perdita d’occhio, quando il nulla sembra essere dappertutto, il canto di lavoro che spunta dalle viscere della terra funge da guida verso la salvezza.
Il work song si basa sullo schema del call-and-response, cioè il richiamo del solista e la reiterazione del coro, non c’è accompagnamento strumentale e i testi improvvisati contengono storie tradizionali o nuove, con mille varianti:
«Il canto aiuta a concentrarci e a non stancarci - racconta uno dei giovani Borana - Celebriamo gli animali o raccontiamo aneddoti sul proprietario o cose inventate. Ci aiuta a dimenticare la noia e il fatto che per sopravvivere non abbiamo scelta».
Se il solista canta più forte gli altri lo seguono, se funziona il canto funziona la squadra.
Di pozzi cantanti ne restano quattordici, diciotto sono stati abbandonati perché, a causa dell’estrema siccità, le tribù si sono spostate altrove o perché le frane hanno ricoperto di detriti la falda. Ogni “ella” appartiene a uno specifico clan Borana, ma l’acqua è un diritto indiscriminato e non viene negata a nessuno, nemmeno a chi non appartiene ai clan.
Il Konfi è il trovatore del pozzo ma mai il proprietario, il proprietario resta la Comunità.
Il gestore viene scelto dal clan, tiene pulito il pozzo, coordina le persone e governa gli animali, 2300 al giorno, in ordine cavalli, vitelli, vacche e cammelli.
Presta servizio gratuitamente e non può accettare soldi. Il denaro non deve sporcare ciò che è sacro quindi all’interno dei pozzi è vietato qualsiasi affare o commercio, nessuno può litigare e se capita, se qualcuno viene alle mani, uno dei suoi animali viene immediatamente sgozzato.
In una delle regioni più ingenerose della terra abitata, l’acqua assurge a funzione unificante e pacificatrice persino tra gruppi di etnie differenti, spesso in conflitto tra loro. E per tirarla su ci vogliono tante voci che ne formano una sola, ci vuole la musica perché senza, dicono, si perdono storie, muscoli e sintonia.
Fonte: ilmessaggero.it
Non si trattava di semplice intrattenimento ma dell’unico modo per reggere i disumani cicli lavorativi in quanto il ritmo del canto cadenzava i movimenti, sincronizzava la mano d’opera e rendeva la giornata meno alienante (dunque più proficua per i padroni).
La tradizione non è tramontata come si pensa e ancora si trovano le workgang, i gruppi per cui il canto è complementare al lavoro, ad esempio nel sud dell’Etiopia, dove l’Associazione Esplorare La Metropoli è andata a girare il documentario The well .
Per mesi la telecamera ha seguito nelle aride distese dell'Oromia l’attività dei Borana, i figli dell’aurora, una popolazione di pastori seminomadi che durante la stagione secca si sposta per lunghi tratti per raggiungere i centenari “pozzi cantanti”, la cui litania è un rassicurante richiamo per uomini e bestie.
Queste “Ellas” sono scavate a mano nella roccia fino a trenta metri di profondità, con diversi livelli e rampe digradanti.
Dal fondo parte la catena umana, composta da giovani volontari che passano secchi pieni d’acqua da un braccio all’altro, da un livello a quello successivo, finché l’ultimo, il più vicino alla superficie, non li versa nell’abbeveratoio.
E’ una staffetta senza sosta sin dal primo mattino, una fatica immane scandita dal canto ascensionale e perfettamente coordinato che dalla cavità si spande nell'aria fino a raggiungere le grandi mandrie che, riconoscendo il suono, si avvicinano lentamente dopo giorni di cammino.
Così nella savana, rossa e asciutta a perdita d’occhio, quando il nulla sembra essere dappertutto, il canto di lavoro che spunta dalle viscere della terra funge da guida verso la salvezza.
Il work song si basa sullo schema del call-and-response, cioè il richiamo del solista e la reiterazione del coro, non c’è accompagnamento strumentale e i testi improvvisati contengono storie tradizionali o nuove, con mille varianti:
«Il canto aiuta a concentrarci e a non stancarci - racconta uno dei giovani Borana - Celebriamo gli animali o raccontiamo aneddoti sul proprietario o cose inventate. Ci aiuta a dimenticare la noia e il fatto che per sopravvivere non abbiamo scelta».
Se il solista canta più forte gli altri lo seguono, se funziona il canto funziona la squadra.
Di pozzi cantanti ne restano quattordici, diciotto sono stati abbandonati perché, a causa dell’estrema siccità, le tribù si sono spostate altrove o perché le frane hanno ricoperto di detriti la falda. Ogni “ella” appartiene a uno specifico clan Borana, ma l’acqua è un diritto indiscriminato e non viene negata a nessuno, nemmeno a chi non appartiene ai clan.
Il Konfi è il trovatore del pozzo ma mai il proprietario, il proprietario resta la Comunità.
Il gestore viene scelto dal clan, tiene pulito il pozzo, coordina le persone e governa gli animali, 2300 al giorno, in ordine cavalli, vitelli, vacche e cammelli.
Presta servizio gratuitamente e non può accettare soldi. Il denaro non deve sporcare ciò che è sacro quindi all’interno dei pozzi è vietato qualsiasi affare o commercio, nessuno può litigare e se capita, se qualcuno viene alle mani, uno dei suoi animali viene immediatamente sgozzato.
In una delle regioni più ingenerose della terra abitata, l’acqua assurge a funzione unificante e pacificatrice persino tra gruppi di etnie differenti, spesso in conflitto tra loro. E per tirarla su ci vogliono tante voci che ne formano una sola, ci vuole la musica perché senza, dicono, si perdono storie, muscoli e sintonia.
Fonte: ilmessaggero.it
Gioco d'azzardo ....una malattia troppo lucrosa per essere debellata
I dieci padroni del gioco d'azzardo
la terza industria dopo Eni e Fiat
Chi lo gestisce in modo legale si spartisce una torta che a fine 2011 arriverà a quota 80 miliardi di euro. Sedici volte il business annuo di Las Vegas. Lo Stato incassa il 10%. In alcuni casi è arduo stabilire proprietari e intrecci societari.
di ALBERTO CUSTODERO
quanto basterebbe a sei o sette manovre finanziarie. il settore ha 120 mila addetti, Le big del mercato delle new slot, delle lotterie e delle scommesse sportive in Italia sono dieci e rappresentano metà di quel fatturato. Dietro a loro ci sono altri 1.500 concessionari-gestori che si spartiscono l'altra metà. Alcune made in Italy sono perfettamente trasparenti - per esempio Lottomatica e Snai - mentre per altre con sedi all'estero è arduo stabilire proprietari e intrecci societari.
Qualcuno comincia a chiedersi come mai l'Aams - cioè l'amministrazione autonoma dei Monopoli - abbia permesso che lo Stato italiano diventasse partner di gruppi così poco trasparenti e abbia agito, come scrive la Dna guidata dal procuratore Pietro Grasso, "con grande superficialità" e "senza un approfondito esame dei soggetti che avevano presentato domanda".
Perché i Monopoli hanno accolto aziende con proprietà a dir poco oscure, a cui di fatto viene affidato il ruolo di esattore fiscale? Come funziona il sistema di scatole cinesi delle imprese che operano in Italia con azionisti esteri e con finanziarie in paesi come Svizzera, Lussemburgo o Antille olandesi?
Come finirà la partita del rinnovo delle concessioni?
IL GRANDE BUSINESS
Mentre sono in calo sale Bingo e scommesse tradizionali, il gioco online è in pieno boom.
Tutto è cominciato nel 2004.
Quando i Monopoli di Stato hanno affidato alle dieci concessionarie la gestione delle macchinette elettroniche: new slot nei bar e tabaccherie, e videolottery di nuova generazione in sale dedicate. Ecco com'è costituita in Italia la filiera, o "rete" del gioco legale, delle macchinette.
Alle dieci concessionarie spetta la conduzione della rete telematica con l'obbligo di assicurarne l'operatività.
Sono queste società a incaricare i gestori di installare gli apparecchi - attualmente 400 mila - poi affidati agli esercenti, i locali pubblici dove gli utenti giocano.
Le concessionarie, come si è detto, hanno il delicato compito di esattori per conto dello Stato, in quanto oltre a incassare il proprio utile, incamerano anche il "Preu", prelievo erariale unico, che poi versano ai Monopoli. Il fatturato è appunto in continua crescita: dall'inizio della crisi del 2008, in due anni - secondo i dati di Agipronews - il volume d'affari del gioco d'azzardo di Stato (slot machine, videopoker, lotterie e scommesse sportive) è aumentato di 13 miliardi, passando dai 47,5 miliardi del 2008 ai 61,5 del 2010, il 3,7 per cento del Pil.
E la raccolta del primo trimestre di quest'anno (18 miliardi di euro) conferma un trend positivio (più 17 per cento), rispetto allo stesso periodo del 2010.
L'anno potrebbe dunque chiudersi con il record di 80 miliardi. Tanto più che nel Def - come ha denunciato qualche giorno fa il senatore Idv Luigi Li Gotti - il ministero dell'economia ha incrementato l'offerta dei giochi e ha previsto su questo fronte un aumento delle entrate erariali.
E sempre pochi giorni fa un membro della commissione Antimafia, il senatore Raffaele Lauro del Pdl - ex commissario antiracket e antiusura - ha proposto una commissione parlamentare d'inchiesta sul gioco d'azzardo e ha presentato un disegno di legge per vietare ai minori di 18 anni di incassare vincite in denaro.
Ma vediamo quali sono le concessionarie. In prima fila Lottomatica e Snai, le uniche totalmente made in Italy.
La prima è al 60 per cento della De Agostini Spa controllata a sua volta dalla B&D di Marco Drago e C, holding della storica famiglia Boroli.
La Snai ha avuto un azionariato più diffuso e dopo gli ultimi cambiamenti di asset è controllata da due fondi di private equity che fanno capo uno alla famiglia Bonomi, l'altro a istituti bancari e assicurativi italiani.
Sulla Snai c'è in corso un'Opa.
Le altre otto, invece, presentano azionariati in parte o del tutto protetti da sedi estere.
La Cogetech è di proprietà della Cogemat, Spa di proprietà al 71 per cento della OI Games 2 con sede a Lussemburgo.
Gamenet è al 42 per cento (quota di maggioranza) della Tcp Eurinvest, sede Lussemburgo.
Hbg è al 99 per cento di proprietà della lussembrughese Karal: solo l'1 per cento è di proprietà di un italiano, Antonio Porsia (che è anche l'ad), imprenditore definito dalla stampa finanziaria il nuovo numero uno delle sale da gioco.
Il gruppo delle "lussemburghesi" è chiuso dalla Sisal, al 97 per cento della Sisal Holding finanziaria, Spa al 100 per cento della Gaming Invest, sede nel granducato.
Ci sono poi le società spagnole: Codere, al 100 per cento del gruppo Codere Internacional, e Cirsa di Cirsa international Gaming Corporation.
Le altre due concessionarie sono G. Matica - al 95 per cento della Telcos, una srl con 126 mila euro di utile che è controllata per il 52 per cento dalla Almaviva Technologies (altra srl della famiglia Tripi) e per il 37 per cento della Interfines Ag, sede legale Zurigo - e Atlantis, oggi sostituita da B Plus Giocolegale limited, che ha la sede principale a Londra con 68 dipendenti e una "sede secondaria" a Roma.
ATLANTIS STORY Proprio la ex Atlantis - che controlla il 30 per cento del mercato dello slot machine - è al centro di dubbi e polemiche. A rappresentarla in Italia - sede in via della Maglianella 65 a Roma - con la qualifica di "preposto", figura il trentunenne catanese Alessandro La Monica. Prima di diventare parlamentare del Pdl in quota An, il rappresentante legale della Atlantis era Amedeo Laboccetta. A questa concessionaria la Direzione nazionale antimafia ha dedicato un intero capitolo.
La Atlantis - si legge nell'ultimo rapporto della Direzione antimafia - con sede a Saint Martin nelle Antille Olandesi, è stata successivamente sostituita, in seguito a sollecitazione da parte dei Monopoli, dalla Società Atlantis Giocolegale con sede in Italia. "Gli amministratori - scrivono i magistrati antimafia - sono Francesco e Carmelo Maurizio Corallo, entrambi figli di Gaetano.
La storia di quest'ultimo è abbastanza nota essendo stato già condannato per vari reati ed essendo notoria la sua vicinanza a Nitto Santapaola". "Si deve infatti rammentare che, come riferito da alcuni collaboratori, la famiglia Santapaola gestisce proprio nelle Antille Olandesi, e proprio a Saint Martin, un casinò presso il quale Gaetano Corallo fin dagli anni 80 svolgeva l'attività di procacciatore di clienti. Lo stesso aveva poi proseguito la sua collaborazione in altri casinò in varie zone dell'America, sempre riconducibili alla famiglia Santapaola".
Raccontano i giudici che i fratelli Corallo hanno smentito di avere rapporti di affari con il padre Gaetano rivendicando la loro autonomia di imprenditori, e gli accertamenti espletati non hanno fatto emergere contatti sospetti, né con il padre, né con il direttore o altri funzionari dei Monopoli. "Proprio su questi aspetti - si legge ancora nella relazione - la Dda di Roma ha indagato Giorgio Tino (ex direttore dei Monopoli), nonché alcuni esponenti della famiglia mafiosa dei Corallo".
La Direzione distrettuale antimafia romana ha scritto infatti: "Si appurava che lo svolgimento della gara e l'individuazione dei concessionari erano avvenute sulla base di criteri assolutamente formali, attenendosi unicamente alle conformità degli assetti societari dichiarati. Un esame più attento faceva però emergere sospetti di concentrazione occulta tra alcuni concessionari (formalmente distinti, ma che mostravano collegamenti sia di persone fisiche sia di sedi)". A proposito dei rilievi della Dna alla Atlantis/Bplus, va registrata la replica dei Monopoli resa alla commissione Antimafia: "Atlantis sottoscrisse all'origine la concessione in qualità di mandataria di un raggruppamento temporaneo di imprese costituito anche da Plp. srl, Bit media srl e Consorzio Saparnet. Successivamente è subentrata a unico titolo nella gestione della concessione come Bplus. Abbiamo verificato i requisiti di tutti i soggetti per i quali risultassero posizioni di rappresentatività nell'ambito dell'azienda. La forma di controllo più importante è il certificato antimafia rivolte alle prefetture competenti". Resta da capire quali controlli antimafia, e attraverso quali prefetture, siano stati fatti per accertare la trasparenza degli azionisti "protetti" presso la sede legale di Londra.
MONOPOLI SOTTO ACCUSA La relazione della Dna, nel capitolo intitolato "infiltrazioni della criminalità organizzato nel gioco (anche) lecito", solleva appunto dubbi sui criteri con cui quale sono state scelte le concessionarie. E sull'atteggiamento "inerte dei Monopoli nei confronti di concessionarie di rete rimaste per lungo tempo inadempienti per molti degli obblighi assunti. E comunque indebitate in modo abnorme verso l'Aams per il mancato pagamento del Preu".
Nel corso dell'inchiesta dei magistrati è risultato - caso Atlantis a parte - che alcune delle società concessionarie "avevano sede principale all'estero e oltretutto in Paesi caratterizzati da un'opacità fiscale, ma soprattutto mostravano collegamenti con persone fisiche oggetto di procedimenti penali". Pur se gli elementi indiziari raccolti non sono stati ritenuti sufficienti a concretizzare l'esercizio dell'azione penale, l'attività di indagine ha fatto emergere come le concessioni, in un settore di altissima valenza economica e a grave rischio di infiltrazione mafiose, "furono affidate con grande superficialità, senza alcun approfondito esame dei soggetti che avevano presentato domanda. E che la complessiva gestione dei Monopoli fu a dir poco disattenta tanto da provocare l'elevazione si sanzioni da parte della Corte dei conti".
Quest'ultimo è un riferimento all'indagine dei giudici contabili del Lazio che nel 2007 avevano contestato a tutte le dieci concessionarie un danno erariale di 98 miliardi di euro provocato dal mancato collegamento delle slot machine alla rete telematica di proprietà dello Stato e gestita dalla Sogei.
Il mancato collegamento ha impedito secondo i giudici la registrazione delle giocate e di conseguenza c'è stato il mancato pagamento dei tributi. Si tratta di un danno erariale, ancora oggetto di ricorsi, di 4 volte superiore alla manovra estiva varata dal governo la scorsa estate. Ad oggi la multa è scesa a 211 milioni (poi vedremo)
Ma come replicano i Monopoli a quelle critiche? L'Aams, va detto, è ben consapevole del rischio criminalità nel settore gioco. I suoi vertici alla commissione Antimafia hanno infatti dichiarato che "le più recenti indagini della gdf hanno mostrato che le mafie, in conseguenza della crescente e rapida diffusione di centri di scommesse del tutto legali sotto il profilo formale, intervengono in forma occulta o proponendosi come soci, investendo nel settore legale i proventi derivanti dal mercato nero".
Una maggiore trasparenza nelle procedure di rilascio delle autorizzazioni, hanno ammesso i Monopoli, avverrà quando sarà attuata la legge di stabilità del 2011 le cui norme consentiranno infatti un maggior controllo "rispetto a organismi societari di residenza estera".
Ma il mondo politico, alla vigilia del rinnovo delle licenze e dell'apertura del settore e nuovi operatori, è in fermento. Proprio nei giorni scorsi nella VI commissione Finanze della Camera il deputato idv Francesco Barbato ha presentato una risoluzione (primo firmatario Antonio Di Pietro), "per impegnare il governo a vietare la partecipazione alle gare di appalto alle società i cui soggetti partecipanti o controllanti siano residente in "paradisi fiscali" o al di fuori della Ue".
Nella sua risoluzione, Barbato chiede anche che il governo "si attivi per contrastare più efficacemente il preoccupante fenomeno del gioco minorile". Mentre si riapre la partita dei padroni del gioco d'azzardo, infatti, il fenomeno diventa sempre più preoccupante.
I casi di ludopatia accertati sono già 100 mila. E l'incremento della spesa media procapite annua per le scommesse legali è arrivata in Italia a 906 euro. Il triplo degli Stati Uniti.
Alla faccia dei casinò di Las Vegas.
Tratto da La Republica.it
https://www.facebook.com/photo.php?v=10152371945960530
Cliccare qui per vedere questo video
Il video che non vedrete mai a #leiene!
Questo servizio non andrà in onda a causa della par condicio, ma sarà visibile solo nel web.
Ma chi controlla il #giocoazzardo ha effettivamente tutte le carte in regola per farlo?
Qualcuno comincia a chiedersi come mai l'Aams - cioè l'amministrazione autonoma dei Monopoli - abbia permesso che lo Stato italiano diventasse partner di gruppi così poco trasparenti e abbia agito, come scrive la Dna guidata dal procuratore Pietro Grasso, "con grande superficialità" e "senza un approfondito esame dei soggetti che avevano presentato domanda".
Perché i Monopoli hanno accolto aziende con proprietà a dir poco oscure, a cui di fatto viene affidato il ruolo di esattore fiscale? Come funziona il sistema di scatole cinesi delle imprese che operano in Italia con azionisti esteri e con finanziarie in paesi come Svizzera, Lussemburgo o Antille olandesi?
Come finirà la partita del rinnovo delle concessioni?
IL GRANDE BUSINESS
Mentre sono in calo sale Bingo e scommesse tradizionali, il gioco online è in pieno boom.
Tutto è cominciato nel 2004.
Quando i Monopoli di Stato hanno affidato alle dieci concessionarie la gestione delle macchinette elettroniche: new slot nei bar e tabaccherie, e videolottery di nuova generazione in sale dedicate. Ecco com'è costituita in Italia la filiera, o "rete" del gioco legale, delle macchinette.
Alle dieci concessionarie spetta la conduzione della rete telematica con l'obbligo di assicurarne l'operatività.
Sono queste società a incaricare i gestori di installare gli apparecchi - attualmente 400 mila - poi affidati agli esercenti, i locali pubblici dove gli utenti giocano.
Le concessionarie, come si è detto, hanno il delicato compito di esattori per conto dello Stato, in quanto oltre a incassare il proprio utile, incamerano anche il "Preu", prelievo erariale unico, che poi versano ai Monopoli. Il fatturato è appunto in continua crescita: dall'inizio della crisi del 2008, in due anni - secondo i dati di Agipronews - il volume d'affari del gioco d'azzardo di Stato (slot machine, videopoker, lotterie e scommesse sportive) è aumentato di 13 miliardi, passando dai 47,5 miliardi del 2008 ai 61,5 del 2010, il 3,7 per cento del Pil.
E la raccolta del primo trimestre di quest'anno (18 miliardi di euro) conferma un trend positivio (più 17 per cento), rispetto allo stesso periodo del 2010.
L'anno potrebbe dunque chiudersi con il record di 80 miliardi. Tanto più che nel Def - come ha denunciato qualche giorno fa il senatore Idv Luigi Li Gotti - il ministero dell'economia ha incrementato l'offerta dei giochi e ha previsto su questo fronte un aumento delle entrate erariali.
E sempre pochi giorni fa un membro della commissione Antimafia, il senatore Raffaele Lauro del Pdl - ex commissario antiracket e antiusura - ha proposto una commissione parlamentare d'inchiesta sul gioco d'azzardo e ha presentato un disegno di legge per vietare ai minori di 18 anni di incassare vincite in denaro.
Ma vediamo quali sono le concessionarie. In prima fila Lottomatica e Snai, le uniche totalmente made in Italy.
La prima è al 60 per cento della De Agostini Spa controllata a sua volta dalla B&D di Marco Drago e C, holding della storica famiglia Boroli.
La Snai ha avuto un azionariato più diffuso e dopo gli ultimi cambiamenti di asset è controllata da due fondi di private equity che fanno capo uno alla famiglia Bonomi, l'altro a istituti bancari e assicurativi italiani.
Sulla Snai c'è in corso un'Opa.
Le altre otto, invece, presentano azionariati in parte o del tutto protetti da sedi estere.
La Cogetech è di proprietà della Cogemat, Spa di proprietà al 71 per cento della OI Games 2 con sede a Lussemburgo.
Gamenet è al 42 per cento (quota di maggioranza) della Tcp Eurinvest, sede Lussemburgo.
Hbg è al 99 per cento di proprietà della lussembrughese Karal: solo l'1 per cento è di proprietà di un italiano, Antonio Porsia (che è anche l'ad), imprenditore definito dalla stampa finanziaria il nuovo numero uno delle sale da gioco.
Il gruppo delle "lussemburghesi" è chiuso dalla Sisal, al 97 per cento della Sisal Holding finanziaria, Spa al 100 per cento della Gaming Invest, sede nel granducato.
Ci sono poi le società spagnole: Codere, al 100 per cento del gruppo Codere Internacional, e Cirsa di Cirsa international Gaming Corporation.
Le altre due concessionarie sono G. Matica - al 95 per cento della Telcos, una srl con 126 mila euro di utile che è controllata per il 52 per cento dalla Almaviva Technologies (altra srl della famiglia Tripi) e per il 37 per cento della Interfines Ag, sede legale Zurigo - e Atlantis, oggi sostituita da B Plus Giocolegale limited, che ha la sede principale a Londra con 68 dipendenti e una "sede secondaria" a Roma.
ATLANTIS STORY Proprio la ex Atlantis - che controlla il 30 per cento del mercato dello slot machine - è al centro di dubbi e polemiche. A rappresentarla in Italia - sede in via della Maglianella 65 a Roma - con la qualifica di "preposto", figura il trentunenne catanese Alessandro La Monica. Prima di diventare parlamentare del Pdl in quota An, il rappresentante legale della Atlantis era Amedeo Laboccetta. A questa concessionaria la Direzione nazionale antimafia ha dedicato un intero capitolo.
La Atlantis - si legge nell'ultimo rapporto della Direzione antimafia - con sede a Saint Martin nelle Antille Olandesi, è stata successivamente sostituita, in seguito a sollecitazione da parte dei Monopoli, dalla Società Atlantis Giocolegale con sede in Italia. "Gli amministratori - scrivono i magistrati antimafia - sono Francesco e Carmelo Maurizio Corallo, entrambi figli di Gaetano.
La storia di quest'ultimo è abbastanza nota essendo stato già condannato per vari reati ed essendo notoria la sua vicinanza a Nitto Santapaola". "Si deve infatti rammentare che, come riferito da alcuni collaboratori, la famiglia Santapaola gestisce proprio nelle Antille Olandesi, e proprio a Saint Martin, un casinò presso il quale Gaetano Corallo fin dagli anni 80 svolgeva l'attività di procacciatore di clienti. Lo stesso aveva poi proseguito la sua collaborazione in altri casinò in varie zone dell'America, sempre riconducibili alla famiglia Santapaola".
Raccontano i giudici che i fratelli Corallo hanno smentito di avere rapporti di affari con il padre Gaetano rivendicando la loro autonomia di imprenditori, e gli accertamenti espletati non hanno fatto emergere contatti sospetti, né con il padre, né con il direttore o altri funzionari dei Monopoli. "Proprio su questi aspetti - si legge ancora nella relazione - la Dda di Roma ha indagato Giorgio Tino (ex direttore dei Monopoli), nonché alcuni esponenti della famiglia mafiosa dei Corallo".
La Direzione distrettuale antimafia romana ha scritto infatti: "Si appurava che lo svolgimento della gara e l'individuazione dei concessionari erano avvenute sulla base di criteri assolutamente formali, attenendosi unicamente alle conformità degli assetti societari dichiarati. Un esame più attento faceva però emergere sospetti di concentrazione occulta tra alcuni concessionari (formalmente distinti, ma che mostravano collegamenti sia di persone fisiche sia di sedi)". A proposito dei rilievi della Dna alla Atlantis/Bplus, va registrata la replica dei Monopoli resa alla commissione Antimafia: "Atlantis sottoscrisse all'origine la concessione in qualità di mandataria di un raggruppamento temporaneo di imprese costituito anche da Plp. srl, Bit media srl e Consorzio Saparnet. Successivamente è subentrata a unico titolo nella gestione della concessione come Bplus. Abbiamo verificato i requisiti di tutti i soggetti per i quali risultassero posizioni di rappresentatività nell'ambito dell'azienda. La forma di controllo più importante è il certificato antimafia rivolte alle prefetture competenti". Resta da capire quali controlli antimafia, e attraverso quali prefetture, siano stati fatti per accertare la trasparenza degli azionisti "protetti" presso la sede legale di Londra.
MONOPOLI SOTTO ACCUSA La relazione della Dna, nel capitolo intitolato "infiltrazioni della criminalità organizzato nel gioco (anche) lecito", solleva appunto dubbi sui criteri con cui quale sono state scelte le concessionarie. E sull'atteggiamento "inerte dei Monopoli nei confronti di concessionarie di rete rimaste per lungo tempo inadempienti per molti degli obblighi assunti. E comunque indebitate in modo abnorme verso l'Aams per il mancato pagamento del Preu".
Nel corso dell'inchiesta dei magistrati è risultato - caso Atlantis a parte - che alcune delle società concessionarie "avevano sede principale all'estero e oltretutto in Paesi caratterizzati da un'opacità fiscale, ma soprattutto mostravano collegamenti con persone fisiche oggetto di procedimenti penali". Pur se gli elementi indiziari raccolti non sono stati ritenuti sufficienti a concretizzare l'esercizio dell'azione penale, l'attività di indagine ha fatto emergere come le concessioni, in un settore di altissima valenza economica e a grave rischio di infiltrazione mafiose, "furono affidate con grande superficialità, senza alcun approfondito esame dei soggetti che avevano presentato domanda. E che la complessiva gestione dei Monopoli fu a dir poco disattenta tanto da provocare l'elevazione si sanzioni da parte della Corte dei conti".
Quest'ultimo è un riferimento all'indagine dei giudici contabili del Lazio che nel 2007 avevano contestato a tutte le dieci concessionarie un danno erariale di 98 miliardi di euro provocato dal mancato collegamento delle slot machine alla rete telematica di proprietà dello Stato e gestita dalla Sogei.
Il mancato collegamento ha impedito secondo i giudici la registrazione delle giocate e di conseguenza c'è stato il mancato pagamento dei tributi. Si tratta di un danno erariale, ancora oggetto di ricorsi, di 4 volte superiore alla manovra estiva varata dal governo la scorsa estate. Ad oggi la multa è scesa a 211 milioni (poi vedremo)
Ma come replicano i Monopoli a quelle critiche? L'Aams, va detto, è ben consapevole del rischio criminalità nel settore gioco. I suoi vertici alla commissione Antimafia hanno infatti dichiarato che "le più recenti indagini della gdf hanno mostrato che le mafie, in conseguenza della crescente e rapida diffusione di centri di scommesse del tutto legali sotto il profilo formale, intervengono in forma occulta o proponendosi come soci, investendo nel settore legale i proventi derivanti dal mercato nero".
Una maggiore trasparenza nelle procedure di rilascio delle autorizzazioni, hanno ammesso i Monopoli, avverrà quando sarà attuata la legge di stabilità del 2011 le cui norme consentiranno infatti un maggior controllo "rispetto a organismi societari di residenza estera".
Ma il mondo politico, alla vigilia del rinnovo delle licenze e dell'apertura del settore e nuovi operatori, è in fermento. Proprio nei giorni scorsi nella VI commissione Finanze della Camera il deputato idv Francesco Barbato ha presentato una risoluzione (primo firmatario Antonio Di Pietro), "per impegnare il governo a vietare la partecipazione alle gare di appalto alle società i cui soggetti partecipanti o controllanti siano residente in "paradisi fiscali" o al di fuori della Ue".
Nella sua risoluzione, Barbato chiede anche che il governo "si attivi per contrastare più efficacemente il preoccupante fenomeno del gioco minorile". Mentre si riapre la partita dei padroni del gioco d'azzardo, infatti, il fenomeno diventa sempre più preoccupante.
I casi di ludopatia accertati sono già 100 mila. E l'incremento della spesa media procapite annua per le scommesse legali è arrivata in Italia a 906 euro. Il triplo degli Stati Uniti.
Alla faccia dei casinò di Las Vegas.
Tratto da La Republica.it
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Ma chi controlla il #giocoazzardo ha effettivamente tutte le carte in regola per farlo?
Cervelli in fuga ...Un sentito grazie ai nostri politici anche per questo!!!
Per visualizzare immagine ingrandirla
I cosiddetti "cervelli" che invece di arricchire l'Italia sono in fuga e producono per gli altri paesi che li accolgono a braccia aperte.
La fuga dei cervelli dall'Italia non è un fenomeno che si manifesta unicamente nel mondo della ricerca.
Molti giovani neolaureati interessati ad utilizzare e sviluppare le proprie capacità lasciano l'Italia poiché non riescono a trovarvi posizioni adatte alle loro capacità, ben remunerate e soprattutto con migliori prospettive di fare carriera.
I dati disponibili non consentono di stimare con precisione quanto sia la perdita annua, ma è verosimile ritenere che nei quattro anni, dal 1996 al 1999, hanno lasciato il paese 12 000 laureati, in media 3 000 all’anno. Nel 2000, il tasso di espatrio dei laureati si attestava al 7%.
Secondo una recente ricerca dell'Icom, solo riguardo ai proventi da brevetto,
l'Italia avrebbe perso circa 4 miliardi di euro negli ultimi 20 anni. Inoltre, «il 35 per cento dei 500 migliori ricercatori italiani nei principali settori di ricerca abbandona il Paese; fra i primi 100 è addirittura uno su due a scegliere di andarsene perché in Italia non riesce a lavorare» nonostante, secondo Andrea Lenzi, Presidente Consiglio Universitario Nazionale, «i nostri ricercatori possiedano un indice di produttività individuale eccellente»
Un esempio su tutti
E' nato a Catania 39 anni fa, ma è cresciuto a Biancavilla, ha studiato a Pisa e in Olanda ed è stato premiato con quello che viene considerato il Nobel dell'informatica.
Questo è il profilo del primo italiano vincitore del prestigioso "Roger Needham award", il premio assegnato ogni anno ai giovani ricercatori dalla British Computer Society, considerato dagli esperti del settore uno dei massimi riconoscimenti del settore.
Si chiama Dino Distefano, e lo scorso 29 novembre è stato applaudito alla Royal Society di Londra per aver dato vita ad Infer, un sistema che, grazie ad un complicato algoritmo, è in grado di prevedere automaticamente eventuali errori che si possono presentare durante il funzionamento di altri software. "Infer è in grado di evitare i "crash" del sistema - ci spiega Dino - che potrebbero essere sfruttati dagli hackers.
Aumenta quindi gli standard di sicurezza, ed elimina molte vulnerabilità".
Una scoperta non da poco, che è diventata subito oggetto di interesse di aziende come Mitsubishi, Toyota e Arm, una compagnia inglese che produce i microchip utilizzati dalla Apple. Un progetto ambizioso, iniziato 8 anni fa, che oggi potrebbe far gola anche nel mercato italiano.
Dino, insieme al suo team, lo ha potuto realizzare grazie a una sovvenzione di oltre un milione di sterline. "Sono ordinario all'università, ho un contratto a tempo indeterminato - dice Dino - ma ho avuto la possibilità di concentrarmi solo sulla ricerca, ricevendo un finanziamento personale per 5 anni di mezzo milione di sterline dalla Royal Academy of Engineering, che mi ha permesso di mettere momentaneamente da parte l'insegnamento. Una condizione che in Italia sarebbe altamente improbabile".
La storia di Dino ha fatto il giro del mondo, non è passata inosservata: il ricercatore catanese è stato intervistato anche da Fox News e da una radio australiana.
A 19 anni è stato costretto a lasciare la sua isola, prima ha studiato a Pisa, poi ha conseguito un dottorato in Olanda.
Quindi è arrivato il contratto di lavoro a Londra, dove Dino vive tutt'ora. Il giovane catanese ha creato una start-up, Monoidics Limited, per commercializzare Infer, e sviluppare ulteriormente il prodotto.
La sua azienda oggi collabora anche con il centro di ricerca di Microsoft.
E, ironia della sorte, quella stessa terra che ha dovuto lasciare vent'anni fa, ora lo corteggia.
Infatti, subito dopo aver ricevuto il premio della Royal Society, a dicembre l'università di Catania lo ha contattato per tenere un seminario e avviare una collaborazione, fino ad ora a titolo gratuito. "Una bella soddisfazione - commenta Dino - ma non so a cosa porterà.
Ho alcuni amici che fanno ricerca in Italia, e spesso non possono neanche mandare i loro articoli alle conferenze internazionali, perché non hanno i soldi per viaggiare".
Tornerebbe in Sicilia? Dino fa una pausa, ci pensa qualche secondo: "Rientro a casa appena posso, almeno 4 volte all'anno.
Mi piacerebbe poter tornare definitivamente, ma in questo momento non ci sono prospettive".
I cosiddetti "cervelli" che invece di arricchire l'Italia sono in fuga e producono per gli altri paesi che li accolgono a braccia aperte.
La fuga dei cervelli dall'Italia non è un fenomeno che si manifesta unicamente nel mondo della ricerca.
Molti giovani neolaureati interessati ad utilizzare e sviluppare le proprie capacità lasciano l'Italia poiché non riescono a trovarvi posizioni adatte alle loro capacità, ben remunerate e soprattutto con migliori prospettive di fare carriera.
I dati disponibili non consentono di stimare con precisione quanto sia la perdita annua, ma è verosimile ritenere che nei quattro anni, dal 1996 al 1999, hanno lasciato il paese 12 000 laureati, in media 3 000 all’anno. Nel 2000, il tasso di espatrio dei laureati si attestava al 7%.
Secondo una recente ricerca dell'Icom, solo riguardo ai proventi da brevetto,
l'Italia avrebbe perso circa 4 miliardi di euro negli ultimi 20 anni. Inoltre, «il 35 per cento dei 500 migliori ricercatori italiani nei principali settori di ricerca abbandona il Paese; fra i primi 100 è addirittura uno su due a scegliere di andarsene perché in Italia non riesce a lavorare» nonostante, secondo Andrea Lenzi, Presidente Consiglio Universitario Nazionale, «i nostri ricercatori possiedano un indice di produttività individuale eccellente»
Un esempio su tutti
E' nato a Catania 39 anni fa, ma è cresciuto a Biancavilla, ha studiato a Pisa e in Olanda ed è stato premiato con quello che viene considerato il Nobel dell'informatica.
Questo è il profilo del primo italiano vincitore del prestigioso "Roger Needham award", il premio assegnato ogni anno ai giovani ricercatori dalla British Computer Society, considerato dagli esperti del settore uno dei massimi riconoscimenti del settore.
Si chiama Dino Distefano, e lo scorso 29 novembre è stato applaudito alla Royal Society di Londra per aver dato vita ad Infer, un sistema che, grazie ad un complicato algoritmo, è in grado di prevedere automaticamente eventuali errori che si possono presentare durante il funzionamento di altri software. "Infer è in grado di evitare i "crash" del sistema - ci spiega Dino - che potrebbero essere sfruttati dagli hackers.
Aumenta quindi gli standard di sicurezza, ed elimina molte vulnerabilità".
Una scoperta non da poco, che è diventata subito oggetto di interesse di aziende come Mitsubishi, Toyota e Arm, una compagnia inglese che produce i microchip utilizzati dalla Apple. Un progetto ambizioso, iniziato 8 anni fa, che oggi potrebbe far gola anche nel mercato italiano.
Dino, insieme al suo team, lo ha potuto realizzare grazie a una sovvenzione di oltre un milione di sterline. "Sono ordinario all'università, ho un contratto a tempo indeterminato - dice Dino - ma ho avuto la possibilità di concentrarmi solo sulla ricerca, ricevendo un finanziamento personale per 5 anni di mezzo milione di sterline dalla Royal Academy of Engineering, che mi ha permesso di mettere momentaneamente da parte l'insegnamento. Una condizione che in Italia sarebbe altamente improbabile".
La storia di Dino ha fatto il giro del mondo, non è passata inosservata: il ricercatore catanese è stato intervistato anche da Fox News e da una radio australiana.
A 19 anni è stato costretto a lasciare la sua isola, prima ha studiato a Pisa, poi ha conseguito un dottorato in Olanda.
Quindi è arrivato il contratto di lavoro a Londra, dove Dino vive tutt'ora. Il giovane catanese ha creato una start-up, Monoidics Limited, per commercializzare Infer, e sviluppare ulteriormente il prodotto.
La sua azienda oggi collabora anche con il centro di ricerca di Microsoft.
E, ironia della sorte, quella stessa terra che ha dovuto lasciare vent'anni fa, ora lo corteggia.
Infatti, subito dopo aver ricevuto il premio della Royal Society, a dicembre l'università di Catania lo ha contattato per tenere un seminario e avviare una collaborazione, fino ad ora a titolo gratuito. "Una bella soddisfazione - commenta Dino - ma non so a cosa porterà.
Ho alcuni amici che fanno ricerca in Italia, e spesso non possono neanche mandare i loro articoli alle conferenze internazionali, perché non hanno i soldi per viaggiare".
Tornerebbe in Sicilia? Dino fa una pausa, ci pensa qualche secondo: "Rientro a casa appena posso, almeno 4 volte all'anno.
Mi piacerebbe poter tornare definitivamente, ma in questo momento non ci sono prospettive".
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