A Bagheria, in Sicilia, esiste un luogo antico e misterioso.
Siamo in quella che è da molti considerata la più originale ed enigmatica delle dimore: “Villa Gravina di Palagonia” ma tutti la conoscono come la “villa dei mostri”.
Nata dalla scintilla di un moto creativo originale e profondo, la dimora che Salvador Dalì desiderava per i suoi periodi di villeggiatura in Sicilia sembra celare una metafora in divenire nel grembo di ogni sua particella.
Qui, un viale silenzioso solletica la curiosità del passante invitandolo a procedere sotto lo sguardo attento di una solenne legione di statue dalle fattezze inconsuete e deformi.
Sono figure fantastiche, rappresentazioni antropomorfe, busti di uomini dal volto animalesco, musicisti caprini, nani barbuti, serpenti a più teste, rappresentazioni di dame e cavalieri, gnomi e molto altro ancora.
Sono loro i famosi “mostri” di villa Palagonia: i silenti osservatori posti a guardia dell’uomo, le terribili statue che a lungo hanno alimentato le fantasie su un’aura malevola infestante gli spazi di questo luogo.
Realizzata nel 1715 per volere di Don Ferdinando Francesco Gravina Cruyllas Bonanni, V principe di Palagonia (su progetto dell’architetto del Senato di Palermo e “ingegnere militare” Tommaso Maria Napoli con la prestigiosa collaborazione dell’architetto Agatino Daidone), la villa deve la sua fama al nipote di quest’ultimo: il VII principe di Palagonia, Francesco Ferdinando Gravina e Alliata, (figlio di Ignazio Sebastiano Gravina e Lucchese).
Se alcuni hanno definito Francesco Ferdinando II un innovatore, un precursore dell’arte surrealista, altri ne hanno invece insinuato la follia, valutando con stupefatto clamore la fortuna da egli spesa nel rifacimento della villa del nonno.
Si diceva che fosse solito celarsi curioso dietro uno specchio per osservare e ascoltare i suoi ospiti.
Di lui Johann Wolfgang von Goethe disse: “Pettinato e intalcato, il cappello sottobraccio, vestito di seta, la spada al fianco, calzato elegantemente con scarpine ornate da borchie e pietre preziose. Così il vecchio incedeva con passo solenne e tranquillo; tutti gli occhi erano appuntati su di lui“.
Sotto la sua amministrazione, vennero realizzati i corpi bassi che circoscrivono la struttura, (destinati all’uso della servitù), ma fu soprattutto lui ad ideare la famosa corte di mostruose figure in pietra arenaria poste a cornice delle sue mura; da cui l’appellativo di “Villa dei Mostri”.
Ma perché una tale opera?
Forse per la fisicità sgraziata del proprietario?
A parer di molti sarebbe stata questa la ragione della commissione della schiera di strane opere, quasi nel tentativo di esorcizzare un’apparenza turpe e disarmonica.
Nonostante le molte supposizioni, si dice che il principe possedesse un animo buono e una saggezza fine e preziosa (in realtà egli ricoprì anche cariche politiche prestigiose, essendo inoltre noto ed apprezzato per la sua grande generosità).
Famosa in tutta Europa per la singolarità delle sue forme, questa villa settecentesca ha ispirato fin dai primi albori l’interesse e la curiosa attenzione dei personaggi più illustri del mondo dell’arte e della cultura.
Tutti gli ambienti erano dapprima votati a un’eleganza sopraffina e copiosa, ma pur sempre declinata nelle tinte di un’ispirazione bizzarra e singolare, e se per alcuni essa fu scrigno di un’arte selvaggia ed enigmatica, per altri come Goethe, l’impressione fu ben diversa.
Per essa egli coniò il temine di stile “pallagonico”, a rappresentanza della stravaganza sibillina e grottesca che permeava ogni elemento della sua composizione.
La particolarità di questo sito non si esaurisce nelle sue creature in pietra.
Per dar sapientemente voce all’estro del singolare principe, una moltitudine copiosa di maestranze locali venne impiegata anche in quell’alternanza di interni ed esterni trapunti di elementi decorativi dallo stile altisonante e stravagante.
Tra questi, spicca per la sua sonora bellezza lo scalone a doppia rampa in prezioso marmo di Billiemi su cui troneggia il fastoso stemma principesco della famiglia Gravina.
Al piano superiore si accede tramite un vano ellittico ove è possibile ammirare magnifici affreschi dedicati alle fatiche di Ercole; commissionati da Salvatore Gravina (fratellastro di Francesco Ferdinando II) in omaggio allo stile in voga a fine ‘700.
Ma soprattutto, a far parlare di sé è la “Galleria o Sala degli specchi” sul cui ingresso permane gloriosa la scritta “Specchiati in quei cristalli e nell’istessa magnificenza singolar, contempla di fralezza mortal l’imago espressa”.
Luogo che non contempla pari al mondo, qui un’installazione di specchi su cui vennero dipinti tratti di cielo e fantastici uccelli permetteva un gioco di riflessi ed ombre capace di enfatizzare, deformare e moltiplicare le immagini in ingresso; nella gloriosa e simbolica rappresentazione della vita e della morte allorquando la persona e il suo riflesso si avvicinavano o al contrario allontanavano dalla stanza; ciò affinché chiunque potesse cogliere nel proprio riflesso il senso della vanità e fragilità dell’uomo.
Oggi, larga parte del verde che circondava il sito è stato sacrificato nella spasmodica febbre edilizia che ha inglobato il suo imminente circondario.
Così, delle duecento statue che facevano da corteccia al maestoso viale, su cui era solito arrampicarsi nei tempi dell’infanzia lo stesso Renato Guttuso, ne restano solo sessantadue.
Per quella che il pittore definì “il luogo dei miei giochi da bambino”, egli realizzò inoltre ben tre opere: Il ratto – Villa Palagonia, Il portone murato e Spes contra Spem.
Acquistata da privati, la dimora su cui si dice alberghi ancora l’ombra del suo visionario principe è oggi parzialmente aperta al pubblico, e ogni piccolo contributo d’ingresso viene devoluto al costante mantenimento di una struttura tanto maestosa e misteriosa su cui pesano ormai 300 anni di vita.
E forse ciò che colpisce infine di più della villa stessa è il mistero del suo principe.
Un mistero magistralmente racchiuso in piccoli dettagli, come in una chiesetta privata attigua l’abitazione.
Qui un crocifisso su cui venne posta la miniatura di un uomo in ginocchio dalle fattezze simili il principe appare immerso in una preghiera di perdono a Dio per la società del suo tempo, per quella perdizione al lusso e all’apparenza a scapito dei valori.
E sempre qui ecco ancora una peculiare statua.
Essa rappresenta una donna bellissima ed elegante, su cui appaiono eppure degli inattesi e orribili vermi (simili a quelli post-mortem); un’altra metafora che mostra come il principe credesse fermamente che tutti, nonostante l’apparenza o lo stato sociale, siamo accomunati dallo stesso finale ed eguale destino.
Fonte: vanillamagazine.it