lunedì 4 marzo 2013
Cascate Salto Angel (Angel Falls), le più alte del mondo
Immaginate di trovarvi davanti ad una cascata di 979 metri, quasi un chilometro. Detta così, non si riesce neppure a focalizzare l’idea nella mente. Nella realtà, tutto questo esiste e prende il nome di Salto Angel, la cascata più alta del mondo. Situata in Venezuela, lungo il corso del torrente Carrao, questa incredibile massa d’acqua precipita dall’altopiano Auyantepui , per poi arrivare nel fiume Kerepakupay, sito ai piedi della montagna.
Il nome Salto Angel viene dal suo scopritore, il pilota americano Jimmy Angel, alias James Crawford Angel, il quale, nel 1933, scorse la cascata mentre stava sorvolando la zona, in cerca di bacini minerari di rilievo.
Affascinato da questo spettacolo, il pilota tornò in questo luogo nel 1937, riuscendo ad atterrare sulla cima vicino alla parte superiore della cascata. Dopo aver portato a termine questa grandiosa operazione, Angel e il suo staff impiegarono ben 11 giorni per raggiungere il primo centro civilizzato e il leggendario aeroplano utilizzato per compiere l’impresa, è ora esposto di fronte al Terminal dell’aeroporto Ciudad Bolivar, nello stato del Bolivar.
Il primo avvistamento della cascata, risale però agli inizi del XX secolo e fu svolto dall’esploratore Ernesto de Santa Cruz. Andando ancor più indietro nel tempo, si scopre che il salto d’acqua era già noto agli indigeni abitanti nel luogo, i quali lo consideravano, insieme alla montagna da cui discende, un luogo sacro. La prima cosa che bisogna sapere prima di visitare le cascate è che queste si trovano nel cuore della foresta amazzonica dello stato del Bolivar e che sono racchiuse dal Parco Nazionale di Canaima. Patrimonio dell’Unesco dal 1944, questo salto d’acqua rappresenta una delle attrazioni turistiche più viste del Venezuela, ma raggiungere e visitare il suddetto luogo non è impresa semplice.
Il modo più temerario e complicato, ma anche spettacolare per arrivare alle cascate è effettuare un’escursione in canoa, percorrendo il fiume Carrao e il suo labirinto di stretti affluenti, immergendosi completamente in una fauna e in una flora esotiche uniche al mondo. Un’esplorazione del genere richiede però molto tempo, (si parla in media di due giorni) , nonché uno sforzo fisico e un’ esposizione ai fattori atmosferici non indifferenti.
Un altro modo per visitare le cascate Angel è sorvolare la zona con un piccolo aereo presente sul luogo, in modo da vedere dall’alto la spettacolarità del panorama.
La scelta migliore è però quella di intraprendere uno dei percorsi convenzionati con le agenzie locali, con partenza a Canaima, che prevede l’alternarsi di tratti da effettuare a piedi e tragitti in barca. Il suddetto itinerario, comprende una permanenza di 3 giorni e 2 notti in mezzo alla foresta, dove sono a disposizione accampamenti, cibo, attività ricreative e guide turistiche.
Il nome Salto Angel viene dal suo scopritore, il pilota americano Jimmy Angel, alias James Crawford Angel, il quale, nel 1933, scorse la cascata mentre stava sorvolando la zona, in cerca di bacini minerari di rilievo.
Affascinato da questo spettacolo, il pilota tornò in questo luogo nel 1937, riuscendo ad atterrare sulla cima vicino alla parte superiore della cascata. Dopo aver portato a termine questa grandiosa operazione, Angel e il suo staff impiegarono ben 11 giorni per raggiungere il primo centro civilizzato e il leggendario aeroplano utilizzato per compiere l’impresa, è ora esposto di fronte al Terminal dell’aeroporto Ciudad Bolivar, nello stato del Bolivar.
Il primo avvistamento della cascata, risale però agli inizi del XX secolo e fu svolto dall’esploratore Ernesto de Santa Cruz. Andando ancor più indietro nel tempo, si scopre che il salto d’acqua era già noto agli indigeni abitanti nel luogo, i quali lo consideravano, insieme alla montagna da cui discende, un luogo sacro. La prima cosa che bisogna sapere prima di visitare le cascate è che queste si trovano nel cuore della foresta amazzonica dello stato del Bolivar e che sono racchiuse dal Parco Nazionale di Canaima. Patrimonio dell’Unesco dal 1944, questo salto d’acqua rappresenta una delle attrazioni turistiche più viste del Venezuela, ma raggiungere e visitare il suddetto luogo non è impresa semplice.
Il modo più temerario e complicato, ma anche spettacolare per arrivare alle cascate è effettuare un’escursione in canoa, percorrendo il fiume Carrao e il suo labirinto di stretti affluenti, immergendosi completamente in una fauna e in una flora esotiche uniche al mondo. Un’esplorazione del genere richiede però molto tempo, (si parla in media di due giorni) , nonché uno sforzo fisico e un’ esposizione ai fattori atmosferici non indifferenti.
Un altro modo per visitare le cascate Angel è sorvolare la zona con un piccolo aereo presente sul luogo, in modo da vedere dall’alto la spettacolarità del panorama.
La scelta migliore è però quella di intraprendere uno dei percorsi convenzionati con le agenzie locali, con partenza a Canaima, che prevede l’alternarsi di tratti da effettuare a piedi e tragitti in barca. Il suddetto itinerario, comprende una permanenza di 3 giorni e 2 notti in mezzo alla foresta, dove sono a disposizione accampamenti, cibo, attività ricreative e guide turistiche.
Egiziani in Australia
Stupefacenti geroglifici si trovano in Australia, sulle rocce nella foresta del Parco Nazionale della Hunter Valley, cento chilometri a nord di Sydney. Secondo il ricercatore Paul White essi sono d’origine egizia e risalgono a 4500 anni fa.
Sulle rocce sono incisi almeno duecentocinquanta geroglifici di tipo egizio, in parte corrosi dal tempo.
Non somigliano ai graffiti d’animali fatti dagli aborigeni.
All’estremità della grotta si vede l’antico dio egizio Anubis, il giudice dei morti. I disegni appaiono molto antichi, nello stile arcaico e poco conosciuto delle prime Dinastie.
Gli egittologi sono abituati a leggere i geroglifici d’epoche più recenti, ma lo stile antico contiene forme primitive.
Questo spiega i dubbi dei ricercatori, di fronte ad immagini bizzarre, che da molti sono tacciate d’essere volgari falsi.
L’anziano egittologo Ray Johnson, che aveva tradotto testi molto antichi per il museo delle antichità del Cairo, sarebbe riuscito a tradurre le due pareti della grotta.
Ne è emersa una saga tragica di antichi esploratori, naufragati in una terra sconosciuta, e la morte prematura del loro capo di stirpe regale, ‘il Signore Djes–eb’.Un gruppo di tre cartigli incorniciati registra il nome di Djedefre o Ra’Djedef, Re dell’Alto e Basso Nilo della IV Dinastia (2528–2520 a.C.), fratello di Khafra e figlio di Khufu. Ciò daterebbe la spedizione subito dopo il regno di Khufu, conosciuto in greco come Cheope, il Faraone della prima delle tre grandi piramidi.
Djes–eb poteva essere uno dei figli del Faraone Ra’Djedef, che regnò per otto anni dopo Khufu.
Se l’iscrizione fosse autentica, potrebbe risalire al 2500 a.C. e sarebbe stata scritta su ordine d’un capitano di nave o simile, poiché il glifo angolare sulla parete reca il titolo d’un alto ufficiale o d’un sacerdote.
Lo scrivano parla a nome di Sua Altezza il Principe, “da questo posto sventurato in cui siamo giunti con la nostra nave”.
IEgizianli icnap Auostra lidaella spedizione è il figlio del Faraone, ‘il Signore Djes–eb’, venuto a soffrire lontano da casa. I geroglifici parlano del viaggio e della sua tragica fine. “Siamo andati per colline e deserti, nel vento e sotto la pioggia, senza trovare laghi.
È stato ucciso mentre trasportava alto il vessillo del Dio Falco in terra straniera, attraverso le montagne, il deserto e l’acqua.
Egli, che è morto prima, qui è stato lasciato a riposare.
Possa avere la vita eterna.
Non si alzerà mai più in piedi presso le acque del Sacro Stagno di Mer, il cui nome significa ‘amore’”.
Sulle rocce sono incisi almeno duecentocinquanta geroglifici di tipo egizio, in parte corrosi dal tempo.
Non somigliano ai graffiti d’animali fatti dagli aborigeni.
All’estremità della grotta si vede l’antico dio egizio Anubis, il giudice dei morti. I disegni appaiono molto antichi, nello stile arcaico e poco conosciuto delle prime Dinastie.
Gli egittologi sono abituati a leggere i geroglifici d’epoche più recenti, ma lo stile antico contiene forme primitive.
Questo spiega i dubbi dei ricercatori, di fronte ad immagini bizzarre, che da molti sono tacciate d’essere volgari falsi.
L’anziano egittologo Ray Johnson, che aveva tradotto testi molto antichi per il museo delle antichità del Cairo, sarebbe riuscito a tradurre le due pareti della grotta.
Ne è emersa una saga tragica di antichi esploratori, naufragati in una terra sconosciuta, e la morte prematura del loro capo di stirpe regale, ‘il Signore Djes–eb’.Un gruppo di tre cartigli incorniciati registra il nome di Djedefre o Ra’Djedef, Re dell’Alto e Basso Nilo della IV Dinastia (2528–2520 a.C.), fratello di Khafra e figlio di Khufu. Ciò daterebbe la spedizione subito dopo il regno di Khufu, conosciuto in greco come Cheope, il Faraone della prima delle tre grandi piramidi.
Djes–eb poteva essere uno dei figli del Faraone Ra’Djedef, che regnò per otto anni dopo Khufu.
Se l’iscrizione fosse autentica, potrebbe risalire al 2500 a.C. e sarebbe stata scritta su ordine d’un capitano di nave o simile, poiché il glifo angolare sulla parete reca il titolo d’un alto ufficiale o d’un sacerdote.
Lo scrivano parla a nome di Sua Altezza il Principe, “da questo posto sventurato in cui siamo giunti con la nostra nave”.
IEgizianli icnap Auostra lidaella spedizione è il figlio del Faraone, ‘il Signore Djes–eb’, venuto a soffrire lontano da casa. I geroglifici parlano del viaggio e della sua tragica fine. “Siamo andati per colline e deserti, nel vento e sotto la pioggia, senza trovare laghi.
È stato ucciso mentre trasportava alto il vessillo del Dio Falco in terra straniera, attraverso le montagne, il deserto e l’acqua.
Egli, che è morto prima, qui è stato lasciato a riposare.
Possa avere la vita eterna.
Non si alzerà mai più in piedi presso le acque del Sacro Stagno di Mer, il cui nome significa ‘amore’”.
Sahara: gli animali hanno imparato a non bere.
Chi fa per sé fa per tre: senza un raffinato lavoro delle piante non sopravviverebbe la vera meraviglia biologica del Sahara, il pio addax, che ha fatto voto di ritirarsi asceticamente nel deserto e non bere mai.
Gli addax sono robuste antilopi alte un metro al garrese, con mantello bianco-grigiastro e corna sottili nere.
procedono a piccoli gruppi di 5 a 15 capi, spostandosi nel deserto in continua ricerca di nuovi pascoli, costituiti dagli scarni ciuffi d'erba e in particolare di portulaca, intraprendendo anche lunghe migrazioni stagionali.
Per procedere abbastanza speditamente nella sabbia senza affondarvi hanno gli zoccoli piatti (simili a quelli delle renne, che hanno analoghi problemi per la neve)
Gli addax sono attivi soprattutto al mattino, alla sera e di notte, evitano cioè ,se possono, di muoversi sotto il sole a picco, preferendo le ore in cui l'irradiazione solare è meno violenta, come pure, quando spirano forte venti, sono soliti scavare delle fosse nella sabbia con le zampe anteriori stendendovici ad aspettare che passi. Un tempo gli addax erano molto più abbondanti nel Sahara: nell'antico Egitto, quando erano anche allevati allo stato semidomestico, fino a essere tenuti in stalle e foraggiati. Ne resta la testimonianza in un'incisione rupestre che proclama come Sabu, sacerdote della VI dinastia ( 2323 a. C.), ne possedesse 1244. Erano utilizzati come animali da tiro e uccisi prevalentemente in occasione di sacrifici alle divinità. Il personale ad essi addetto aveva persino messo a punto un sistema per renderne innocue le aguzze corna, piegandogliele man mano con apposite pinze durante la crescita. Quando smisero, già prima dell'era cristiana, d'essere allevati, gli addax non smisero però d'essere cacciati, e all'inizio del XX secolo erano completamente scomparsi dall'area egiziana, sterminati come già era avvenuto in Tunisia, nel 1885, come sarebbe avvenuto nel 1920 in Algeria, e poi in Libia.
Sono sopravvissute unicamente le popolazioni che occupavano i territori meridionali e meno accessibili del Sahara, il Tenerè, i grandi Erg, il Majabat, quelli del nord del Ciad. Popolazioni che sopravvivono alla caccia anche perché non cadono nella trappola di esporsi raggiungendo inevitabili punti d'abbeverata. Questo perché gli addax (ecco il punto del chi fa da sé fa per tre) possono stare settimane e mesi, e c'è chi dice una vita intera, senza bere, traendo l'acqua esclusivamente dalla spesso arida erba che mangiano. Primato questo che in effetti gli addax condividono con gli orici dalle corna a sciabola, essi pure ridotti dalla caccia indiscriminata a sparuti drappelli nei lembi più meridionali del Sahara. Sia chiaro: pure il ratto canguro ed altri roditori sahariani prosperano senza mai bere, anche quando mangiano cibo esso pure secco: il loro ridotto fabbisogno idrico è coperto sia dalla ridottissima quantità d'acqua contenuta nel loro cibo così com'è, sia da quella che esso cede ulteriormente per reazione chimica una volta che sia stato ossidato dai processi metabolici dell'organismo. I roditori poi, sono piccoli e abituati a scavarsi tane profonde, dove le variazioni climatiche superficiali arrivano sì ,ma molto smorzate. Ma questa è una possibilità preclusa ai grossi mammiferi, che per mantenere regolata la propria temperatura corporea durante la calura quotidiana debbono necessariamente trasudare sostanziali quantità d'acqua.
Quando la temperatura diurna sotto il sole raggiunge picchi come gli 84°C misurati a Wadi Halfa, un essere umano nel deserto può perdere oltre dieci litri di acqua in sudore, il ché prosciuga anche le riserve contenute nel plasma sanguigno (che per il 90% acqua), il sangue diviene troppo viscoso e non riesce più a circolare ovvero a mantenere la temperatura corporea a livello normale.
Anche le "navi del deserto", i dromedari, hanno gli stessi problemi, che il loro organismo mitiga limitando la traspirazione. Nei lunghi percorsi, comunque, possono perdere anche un terzo del loro peso disidratandosi senza danno, riuscendo a recuperare abbastanza in fretta bevendo anche 150 litri d'acqua in una volta. C'è inoltre, non secondaria, la componente dell'abbattimento dello stimolo della sete, fino ad arrivare o all'assurdo viaggio narrato da Thèodore Monod, i cui dromedari non bevvero per un mese lungo i 900 kilometri da Ouadane ad Araouane, ma alla fine del viaggio dovettero essere costretti a bere, quasi ne avessero perso l'abitudine come il ciuco della storiellina.
L'addax, allora, come fa a non bere? e come fa al tempo stesso a mantenere la propria temperatura senza perdere acqua? Ancora agli inizi degli anni Sessanta il fatto che addax e orice dalle corna a sciabola potessero stare mesi e mesi, addirittura indefinitamente, senza bere nel clima sahariano era ritenuta una storiella mantenuta in circolazione dalle popolazioni indigene e da cacciatori bianchi spacconi. Poi nel 1964 le ricerche dirette di Taylor e Lyman della Università di Harvard, con questi risultati.
L'uovo di Colombo, si direbbe.
Quando la temperatura esterna si alza oltre quella corporea standard, che sarebbe attorno ai 35°C, l'organismo dell'orice e soprattutto quello dell'addax reagiscono prendendo la situazione "in contropiede", ed anziché spender acqua per mantenere la propria costante, la innalzano anche di 6/7 gradi di botto, portandola al di sopra di quella esterna: con 40°C ambientali l'orice si porta a 41,2° e l'addax a 42,1°. Ovvero anzichè disperdere acqua per non assorbire calore, si mettono in condizione (è legge fisica termodinamica fondamentale) di disperdere calore.
Ma anche gli altri sahariani hanno i loro trucchi: le formiche sono argentee e le talpe sono dorate, così per le fugaci comparse in superficie la loro livrea respinge, riflettendola, una buona dose di radiazione solare: i ragni del deserto introducono il proprio sperma nell'addome della femmina chiuso in capsule, ed altrettanto fanno i scorpioni, perché l'incapsulatura impedisce che il seme si dissecchi nel passaggio fra i due corpi ed anche dopo: il gerboa, che pure si scava le tane a profondità fresche, dorme arrotolato su se stesso tenendo il naso contro il ventre, in modo che l'aria secca che ispira si mescoli prima all'umidità lasciata un pelo da quella espirata, umidità che viene recuperata.
Per procedere abbastanza speditamente nella sabbia senza affondarvi hanno gli zoccoli piatti (simili a quelli delle renne, che hanno analoghi problemi per la neve)
Gli addax sono attivi soprattutto al mattino, alla sera e di notte, evitano cioè ,se possono, di muoversi sotto il sole a picco, preferendo le ore in cui l'irradiazione solare è meno violenta, come pure, quando spirano forte venti, sono soliti scavare delle fosse nella sabbia con le zampe anteriori stendendovici ad aspettare che passi. Un tempo gli addax erano molto più abbondanti nel Sahara: nell'antico Egitto, quando erano anche allevati allo stato semidomestico, fino a essere tenuti in stalle e foraggiati. Ne resta la testimonianza in un'incisione rupestre che proclama come Sabu, sacerdote della VI dinastia ( 2323 a. C.), ne possedesse 1244. Erano utilizzati come animali da tiro e uccisi prevalentemente in occasione di sacrifici alle divinità. Il personale ad essi addetto aveva persino messo a punto un sistema per renderne innocue le aguzze corna, piegandogliele man mano con apposite pinze durante la crescita. Quando smisero, già prima dell'era cristiana, d'essere allevati, gli addax non smisero però d'essere cacciati, e all'inizio del XX secolo erano completamente scomparsi dall'area egiziana, sterminati come già era avvenuto in Tunisia, nel 1885, come sarebbe avvenuto nel 1920 in Algeria, e poi in Libia.
Sono sopravvissute unicamente le popolazioni che occupavano i territori meridionali e meno accessibili del Sahara, il Tenerè, i grandi Erg, il Majabat, quelli del nord del Ciad. Popolazioni che sopravvivono alla caccia anche perché non cadono nella trappola di esporsi raggiungendo inevitabili punti d'abbeverata. Questo perché gli addax (ecco il punto del chi fa da sé fa per tre) possono stare settimane e mesi, e c'è chi dice una vita intera, senza bere, traendo l'acqua esclusivamente dalla spesso arida erba che mangiano. Primato questo che in effetti gli addax condividono con gli orici dalle corna a sciabola, essi pure ridotti dalla caccia indiscriminata a sparuti drappelli nei lembi più meridionali del Sahara. Sia chiaro: pure il ratto canguro ed altri roditori sahariani prosperano senza mai bere, anche quando mangiano cibo esso pure secco: il loro ridotto fabbisogno idrico è coperto sia dalla ridottissima quantità d'acqua contenuta nel loro cibo così com'è, sia da quella che esso cede ulteriormente per reazione chimica una volta che sia stato ossidato dai processi metabolici dell'organismo. I roditori poi, sono piccoli e abituati a scavarsi tane profonde, dove le variazioni climatiche superficiali arrivano sì ,ma molto smorzate. Ma questa è una possibilità preclusa ai grossi mammiferi, che per mantenere regolata la propria temperatura corporea durante la calura quotidiana debbono necessariamente trasudare sostanziali quantità d'acqua.
Quando la temperatura diurna sotto il sole raggiunge picchi come gli 84°C misurati a Wadi Halfa, un essere umano nel deserto può perdere oltre dieci litri di acqua in sudore, il ché prosciuga anche le riserve contenute nel plasma sanguigno (che per il 90% acqua), il sangue diviene troppo viscoso e non riesce più a circolare ovvero a mantenere la temperatura corporea a livello normale.
Anche le "navi del deserto", i dromedari, hanno gli stessi problemi, che il loro organismo mitiga limitando la traspirazione. Nei lunghi percorsi, comunque, possono perdere anche un terzo del loro peso disidratandosi senza danno, riuscendo a recuperare abbastanza in fretta bevendo anche 150 litri d'acqua in una volta. C'è inoltre, non secondaria, la componente dell'abbattimento dello stimolo della sete, fino ad arrivare o all'assurdo viaggio narrato da Thèodore Monod, i cui dromedari non bevvero per un mese lungo i 900 kilometri da Ouadane ad Araouane, ma alla fine del viaggio dovettero essere costretti a bere, quasi ne avessero perso l'abitudine come il ciuco della storiellina.
L'addax, allora, come fa a non bere? e come fa al tempo stesso a mantenere la propria temperatura senza perdere acqua? Ancora agli inizi degli anni Sessanta il fatto che addax e orice dalle corna a sciabola potessero stare mesi e mesi, addirittura indefinitamente, senza bere nel clima sahariano era ritenuta una storiella mantenuta in circolazione dalle popolazioni indigene e da cacciatori bianchi spacconi. Poi nel 1964 le ricerche dirette di Taylor e Lyman della Università di Harvard, con questi risultati.
L'uovo di Colombo, si direbbe.
Quando la temperatura esterna si alza oltre quella corporea standard, che sarebbe attorno ai 35°C, l'organismo dell'orice e soprattutto quello dell'addax reagiscono prendendo la situazione "in contropiede", ed anziché spender acqua per mantenere la propria costante, la innalzano anche di 6/7 gradi di botto, portandola al di sopra di quella esterna: con 40°C ambientali l'orice si porta a 41,2° e l'addax a 42,1°. Ovvero anzichè disperdere acqua per non assorbire calore, si mettono in condizione (è legge fisica termodinamica fondamentale) di disperdere calore.
Ma anche gli altri sahariani hanno i loro trucchi: le formiche sono argentee e le talpe sono dorate, così per le fugaci comparse in superficie la loro livrea respinge, riflettendola, una buona dose di radiazione solare: i ragni del deserto introducono il proprio sperma nell'addome della femmina chiuso in capsule, ed altrettanto fanno i scorpioni, perché l'incapsulatura impedisce che il seme si dissecchi nel passaggio fra i due corpi ed anche dopo: il gerboa, che pure si scava le tane a profondità fresche, dorme arrotolato su se stesso tenendo il naso contro il ventre, in modo che l'aria secca che ispira si mescoli prima all'umidità lasciata un pelo da quella espirata, umidità che viene recuperata.
E studiano degli anni per arrivare a queste conclusioni???
C'era bisogno di fare questi esprimenti per capire che ogni essere vivente dotato di sistema nervoso prova dolore o piacere?
I pesci provano dolore?
Una domanda non semplice, cui spesso si risponde che i pesci non mostrano che azioni riflesse per evitare stimoli nocivi, non vera e propria sofferenza. Ricercatori veterinari, norvegesi e nordamericani, hanno dimostrato il contrario con un esperimento pubblicato sulla rivista Applied Animal Behaviour Science, che confermerebbe che i pesci sono sensibili al dolore e ne mantengono il ricordo.
Per dimostrarlo, i ricercatori hanno esposto alcuni pesci rossi a una temperatura che potesse risultare dolorosa ma non dannosa, circa 38°C.
Però, a metà dei pesci era stata somministrato un antidolorifico potente come la morfina, all'altra metà no.
Due ore dopo, i pesci che non avevano ricevuto il trattamento antidolorifico mostravano ancora segni di paura e inquietudine: avevano sofferto una brutta esperienza e se lo ricordavano, così continuavano a muoversi in modo rapido, divincolarsi o cercare di saltare.
Questa ricerca non è certo la prima a dimostrare che le reazioni dei pesci non sono solo riflessi, ma gli autori credono che il loro studio sia un ulteriore tassello verso la comprensione del funzionamento del sistema nervoso.
Uno scienziato del team, Joseph Garner, ha affermato che "il fatto che il loro comportamento cambiasse così tanto suggerisce molto fortemente che succeda qualcosa nella loro memoria che riguarda l'esperienza di quell'evento, e che ciò non sia solo un riflesso" e questo mostra che "i pesci provano dolore".
I pesci provano dolore?
Una domanda non semplice, cui spesso si risponde che i pesci non mostrano che azioni riflesse per evitare stimoli nocivi, non vera e propria sofferenza. Ricercatori veterinari, norvegesi e nordamericani, hanno dimostrato il contrario con un esperimento pubblicato sulla rivista Applied Animal Behaviour Science, che confermerebbe che i pesci sono sensibili al dolore e ne mantengono il ricordo.
Per dimostrarlo, i ricercatori hanno esposto alcuni pesci rossi a una temperatura che potesse risultare dolorosa ma non dannosa, circa 38°C.
Però, a metà dei pesci era stata somministrato un antidolorifico potente come la morfina, all'altra metà no.
Due ore dopo, i pesci che non avevano ricevuto il trattamento antidolorifico mostravano ancora segni di paura e inquietudine: avevano sofferto una brutta esperienza e se lo ricordavano, così continuavano a muoversi in modo rapido, divincolarsi o cercare di saltare.
Questa ricerca non è certo la prima a dimostrare che le reazioni dei pesci non sono solo riflessi, ma gli autori credono che il loro studio sia un ulteriore tassello verso la comprensione del funzionamento del sistema nervoso.
Uno scienziato del team, Joseph Garner, ha affermato che "il fatto che il loro comportamento cambiasse così tanto suggerisce molto fortemente che succeda qualcosa nella loro memoria che riguarda l'esperienza di quell'evento, e che ciò non sia solo un riflesso" e questo mostra che "i pesci provano dolore".
Le formiche
In genere ci accorgiamo di loro solo quando invadono le nostre case.
Ma le formiche sono molto più che intrusi molesti:
vivono in società complesse, organizzate ed efficienti.
Il segreto del loro successo è in buona parte legato alla particolare strategia riproduttiva, come rivela uno studio durato quasi 30 anni.
Le formiche sono tra gli insetti più numerosi e diffusi del pianeta. Se si escludono i poli, sono presenti ovunque, con oltre 11000 specie di dimensioni comprese tra 1 e 30 mm.
Anche le loro abitudini sono quanto mai varie, degne in qualche caso dei romanzi più avventurosi.
Se pensate che siano tutte dedite a raccogliere e immagazzinare nei loro formicai i semi o le briciole dei vostri panini, vi sbagliate di grosso.
Alcune, come gli dei dell’Olimpo, bevono solo il nettare delle piante; altre sono temibili cacciatrici di altri animali, anche molto più grossi, che sopraffanno con le loro orde fameliche in continuo spostamento. Vi sono perfino formiche schiaviste, che rapiscono le larve di altre specie trasformandole in schiave operaie; c'è poi chi ha fatto del parassitismo un’arte, usurpando il trono di un’altra regina e “rubandole” l’intera colonia. Quelle che invece hanno optato per una vita più pacifica e laboriosa, da brave contadine allevano afidi, che mungono per berne la melata, o coltivano funghi in orti sotterranei, nutrendoli con foglie triturate. L'organizzazione sociale delle formiche, di tipo matriarcale, è nota da tempo: una regina si accoppia una volta sola, fonda una colonia e per i successivi 25 anni diventa una macchina da riproduzione.
Depone milioni di uova, da cui nascono principalmente operaie, e periodicamente maschi e femmine alate:
i primi, frutto di uova non fecondate, muoiono subito dopo l’accoppiamento, mentre le seconde perdono le ali e cercano di fondare nuove colonie. Quello che finora era poco noto, però, è il destino e il successo di questa discendenza:
quante regine riusciranno effettivamente a regnare su un proprio formicaio e per quanto tempo?
Per scoprirlo, la biologa Deborah Gordon della Stanford University ha studiato sul campo la genealogia di una particolare popolazione di formiche rosse raccoglitrici della specie Pogonomyrmex barbatus, originarie del sud-est dell'Arizona.
Per ben 28 anni, ha registrato meticolosamente l’ascesa di ogni nuova colonia e il declino di quelle più vecchie.
Questa sorta di "Dynasty" in versione entomologica, pubblicata sul Journal of Animal Ecology, ha rivelato molte utili informazioni.
Il gruppo di ricerca guidato dalla Gordon ha ottenuto l'impronta genetica (in inglese DNA profiling o genetic fingerprinting) di ogni colonia analizzando una sequenza ripetuta di DNA molto variabile, chiamata microsatellite, per ricostruire le parentele tra le colonie.
Questa tecnica, che ha applicazioni in filogenesi molecolare, nei test di paternità e in campo forense, consente di evidenziare somiglianze e differenze tra genomi di diversi individui.
Integrando l’analisi genetica con le osservazioni a lungo termine, la Gordon è stata così in grado di individuare la genealogia e l'ordine in cui le regine figlie e le successive generazioni avevano stabilito nuove colonie. Questo 'piccolo' formicaio di circa 4 metri di altezza è veramente impressionante.
Il primo dato rilevante riguarda proprio l’eccezionale longevità riproduttiva delle regine: dopo 25 o 30 anni, non solo non conoscono la menopausa ma nemmeno un calo della fertilità.
Non tutte, però, hanno successo. I ricercatori hanno scoperto che solo circa il 25 per cento delle colonie riesce a riprodursi e ad avere una discendenza (da 1 a 8 colonie).
L'intera popolazione studiata, quindi – per un totale di circa 265 colonie – dipende solo da poche regine per rinnovarsi ogni anno.
Il paesaggio alieno del vulcano Dallol
Se volete sperimentare un paesaggio alieno non è necessario recarsi in un altro pianeta. Questa vasta zona desolata è conosciuta per le sue curiose formazioni geologiche: sorgenti calde acide, montagne di zolfo, coni di sale, piccoli geyser gassosi, vasche di acidi isolate da cornici di cristalli di sale e concrezioni, di evaporiti, di zolfo, di cloruro di magnesio o di soda solidificati. Il tutto su un fondo bianco, giallo, verde o rosso ocra, colori dati dalla forte presenza si zolfo, ossido di ferro, e di vari altri minerali.
In realtà, ci sono luoghi sulla Terra dove il paesaggio è veramente bizzarra, quasi extraterrestre, molti direbbero.
Guardando a questo splendido scenario, si può facilmente chiedere - Siamo ancora sulla Terra? Un affascinante, non-di-questo-mondo che assomiglia posto Dallol è il vulcano che si trova nella depressione della Dancalia in Etiopia. Qui si può sperimentare le più alte temperature medie del pianeta. Una stazione meteo ha registrato 34,4 ° C di temperatura media annua. Durante il giorno la temperatura è sopra i 40 ° C all'ombra. Ma, naturalmente, non bisogna dimenticare non c'è ombra qui!
Vulcano Dallol non è un vulcano vero e proprio. Qui, negli strati spessi di sale è penetrata magma basaltico. Come le acque sotterranee scende più in profondità, incontra rocce surriscaldate e si trasforma in vapore. Quando la pressione di vapore raggiunge il livello critico, la terra (qui - sale) sopra questo vapore surriscaldato viene soffiata fuori in esplosione spettacolare, lasciando un cratere - maar. L'ultima volta esplosione è avvenuta nel 1926, circa 1,5 km a sud-ovest dal cratere principale del vulcano Dallol. Ora nel sito di questa esplosione è situato in profondità, 30 m di larghezza, pozzo rotondo, pieno di salamoia arancione. In certe sorgenti calde si manifestano delle piccole colate di sale di bisolfiti e di zolfo. I minerali fluiscono da camini e geyser che abbondano nel sito. Spesso le emissioni dei geyser e delle fumarole sono tossici.
Non di rado si trovano dei cadaveri di piccoli animali, nei piccoli crateri. Inoltre il suolo fragile cela vasche acide e diventano delle vere e proprie trappole per animali e uomini. Altra particolarità, i piccoli geyser, presenti solo in questo luogo. Vi si notano ingiallimenti permanenti di gas sulla superficie degli stagni acidi con concrezioni a forma di spugna formata da cristalli di sale o emissioni di goccioline di acqua calda con strani gorgoglii.Il 1,5 da 3 km grande cratere di Vulcano Dallol è formata dal crollo di strati di sale. Multiple sorgenti di acqua calda sopra il magma caldo hanno dilavato gli strati di sale, lasciando vuoti, che a un certo momento, sono crollati. Ci saranno più esplosioni in futuro? Si, è più probabile. Un'esplosione può accadere ogni secondo. L'area intorno al vulcano si considera deserta a causa delle gravi condizioni naturali, ma le persone non vivono molto lontano dal vulcano. La regione è stata definita il luogo più colorato sulla Terra ed è sicuramente una descrizione adatta.
Guardando a questo splendido scenario, si può facilmente chiedere - Siamo ancora sulla Terra? Un affascinante, non-di-questo-mondo che assomiglia posto Dallol è il vulcano che si trova nella depressione della Dancalia in Etiopia. Qui si può sperimentare le più alte temperature medie del pianeta. Una stazione meteo ha registrato 34,4 ° C di temperatura media annua. Durante il giorno la temperatura è sopra i 40 ° C all'ombra. Ma, naturalmente, non bisogna dimenticare non c'è ombra qui!
Vulcano Dallol non è un vulcano vero e proprio. Qui, negli strati spessi di sale è penetrata magma basaltico. Come le acque sotterranee scende più in profondità, incontra rocce surriscaldate e si trasforma in vapore. Quando la pressione di vapore raggiunge il livello critico, la terra (qui - sale) sopra questo vapore surriscaldato viene soffiata fuori in esplosione spettacolare, lasciando un cratere - maar. L'ultima volta esplosione è avvenuta nel 1926, circa 1,5 km a sud-ovest dal cratere principale del vulcano Dallol. Ora nel sito di questa esplosione è situato in profondità, 30 m di larghezza, pozzo rotondo, pieno di salamoia arancione. In certe sorgenti calde si manifestano delle piccole colate di sale di bisolfiti e di zolfo. I minerali fluiscono da camini e geyser che abbondano nel sito. Spesso le emissioni dei geyser e delle fumarole sono tossici.
Non di rado si trovano dei cadaveri di piccoli animali, nei piccoli crateri. Inoltre il suolo fragile cela vasche acide e diventano delle vere e proprie trappole per animali e uomini. Altra particolarità, i piccoli geyser, presenti solo in questo luogo. Vi si notano ingiallimenti permanenti di gas sulla superficie degli stagni acidi con concrezioni a forma di spugna formata da cristalli di sale o emissioni di goccioline di acqua calda con strani gorgoglii.Il 1,5 da 3 km grande cratere di Vulcano Dallol è formata dal crollo di strati di sale. Multiple sorgenti di acqua calda sopra il magma caldo hanno dilavato gli strati di sale, lasciando vuoti, che a un certo momento, sono crollati. Ci saranno più esplosioni in futuro? Si, è più probabile. Un'esplosione può accadere ogni secondo. L'area intorno al vulcano si considera deserta a causa delle gravi condizioni naturali, ma le persone non vivono molto lontano dal vulcano. La regione è stata definita il luogo più colorato sulla Terra ed è sicuramente una descrizione adatta.
INAMMISSIBILE !!!!!!
Pedofilia autorizzata: Le spose bambine islamiche sono 60 milioni ed hanno meno di 13 anni.
Nel loro paese si chiama cultura e tradizione, ma nel resto del mondo è un crimine contro l’umanità chiamato PEDOFILIA.
Anno 2012 sono 60 milioni di spose bambine, hanno solamente tra gli 8 e i 14 anni.
Unicef: I matrimoni precoci violano i diritti dei bambini, ma il mondo rimane indifferente.
Lo scorso aprile, in Yemen, una bambina di 8 anni di nome Nojoud si presentò da sola in tribunale, dicendo che era stata costretta dal padre a sposare un uomo trentenne che l’aveva picchiata e forzata ad avere rapporti sessuali.
Ci sono 60 milioni di «spose bambine » nel mondo, secondo le Nazioni Unite. Il giorno delle nozze arriva in genere tra i 12 e i 14 anni, a volte anche prima. Il marito è spesso un uomo più anziano, mai incontrato prima. Ad aprile Nojoud ha chiesto e ottenuto il divorzio. Ma per la maggior parte delle piccole spose come lei non c’è via d’uscita.
CLASSIFICA:
L’organizzazione americana International Center for Research on Women (Icrw) ha compilato una «Top 20» dei Paesi in cui i matrimoni di minorenni sono più diffusi:
il Niger è al primo posto (il 76,6% delle spose hanno meno di 18 anni), seguito da Ciad, Bangladesh, Mali, Guinea, Repubblica centrafricana, Nepal, Mozambico, Uganda, Burkina Faso, India, Etiopia, Liberia, Yemen, Camerun, Eritrea, Malawi, Nicaragua, Nigeria, Zambia.
La «classifica » è basata su questionari standardizzati che non sono però disponibili per tutti i Paesi.
Resta fuori dalle statistiche, ad esempio, gran parte del Medio Oriente.
IL MARITO:
Le minorenni tendono ad essere date in moglie a uomini molto più vecchi di loro.
In Africa centrale e occidentale, un terzo delle bambine spose dichiarano che i mariti hanno almeno 11 anni più di loro.
In tutti i Paesi della Top 20 ci sono poi casi in cui la differenza d’età è di decenni: anche 70 anni.
CONSEGUENZE:
Le spose bambine si vedono negare la possibilità di studiare e di lavorare, continuano così ad alimentare il ciclo di povertà da cui provengono.
Non possono lasciare il marito perché non hanno i soldi per restituire la dote, e il divorzio è spesso considerato inaccettabile.
Il problema non è solo il matrimonio precoce, ma anche il parto precoce.
La morte di parto è 5 volte più probabile per le bambine al di sotto dei 15 anni che per le ventenni, secondo l’agenzia per la popolazione dell’Onu (Unfpa).
Il rischio di morte del feto è del 73% maggiore che per le ventenni.
Non essendo le bambine fisicamente pronte alla gravidanza, le complicazioni sono frequenti:
2 milioni di donne sono affette da fistole vescico- vaginali o retto-vaginali, in seguito a lacerazioni prodotte dalla pressione della testa del feto.
Le fistole causano incontinenza. «Le ragazze vengono ostracizzate dai loro mariti e dalla comunità — spiega la dottoressa Nawal Nour, direttrice del Centro per la salute delle donne africane di Boston —.
L’odore di urina che proviene dalla fistola è così forte che le ragazze sono piene di vergogna.
Sono scansate, abbandonate, sole».
Nell’Africa sub-sahariana, inoltre, diversi studi mostrano che le ragazze sposate hanno più probabilità di contrarre l’Aids rispetto a ragazze single e sessualmente attive:
perdono la verginità con mariti malati e non hanno il potere di negarsi o chiedere loro di usare il preservativo.
A cura di: Andrea Mavilla.
Anno 2012 sono 60 milioni di spose bambine, hanno solamente tra gli 8 e i 14 anni.
Unicef: I matrimoni precoci violano i diritti dei bambini, ma il mondo rimane indifferente.
Lo scorso aprile, in Yemen, una bambina di 8 anni di nome Nojoud si presentò da sola in tribunale, dicendo che era stata costretta dal padre a sposare un uomo trentenne che l’aveva picchiata e forzata ad avere rapporti sessuali.
Ci sono 60 milioni di «spose bambine » nel mondo, secondo le Nazioni Unite. Il giorno delle nozze arriva in genere tra i 12 e i 14 anni, a volte anche prima. Il marito è spesso un uomo più anziano, mai incontrato prima. Ad aprile Nojoud ha chiesto e ottenuto il divorzio. Ma per la maggior parte delle piccole spose come lei non c’è via d’uscita.
CLASSIFICA:
L’organizzazione americana International Center for Research on Women (Icrw) ha compilato una «Top 20» dei Paesi in cui i matrimoni di minorenni sono più diffusi:
il Niger è al primo posto (il 76,6% delle spose hanno meno di 18 anni), seguito da Ciad, Bangladesh, Mali, Guinea, Repubblica centrafricana, Nepal, Mozambico, Uganda, Burkina Faso, India, Etiopia, Liberia, Yemen, Camerun, Eritrea, Malawi, Nicaragua, Nigeria, Zambia.
La «classifica » è basata su questionari standardizzati che non sono però disponibili per tutti i Paesi.
Resta fuori dalle statistiche, ad esempio, gran parte del Medio Oriente.
IL MARITO:
Le minorenni tendono ad essere date in moglie a uomini molto più vecchi di loro.
In Africa centrale e occidentale, un terzo delle bambine spose dichiarano che i mariti hanno almeno 11 anni più di loro.
In tutti i Paesi della Top 20 ci sono poi casi in cui la differenza d’età è di decenni: anche 70 anni.
CONSEGUENZE:
Le spose bambine si vedono negare la possibilità di studiare e di lavorare, continuano così ad alimentare il ciclo di povertà da cui provengono.
Non possono lasciare il marito perché non hanno i soldi per restituire la dote, e il divorzio è spesso considerato inaccettabile.
Il problema non è solo il matrimonio precoce, ma anche il parto precoce.
La morte di parto è 5 volte più probabile per le bambine al di sotto dei 15 anni che per le ventenni, secondo l’agenzia per la popolazione dell’Onu (Unfpa).
Il rischio di morte del feto è del 73% maggiore che per le ventenni.
Non essendo le bambine fisicamente pronte alla gravidanza, le complicazioni sono frequenti:
2 milioni di donne sono affette da fistole vescico- vaginali o retto-vaginali, in seguito a lacerazioni prodotte dalla pressione della testa del feto.
Le fistole causano incontinenza. «Le ragazze vengono ostracizzate dai loro mariti e dalla comunità — spiega la dottoressa Nawal Nour, direttrice del Centro per la salute delle donne africane di Boston —.
L’odore di urina che proviene dalla fistola è così forte che le ragazze sono piene di vergogna.
Sono scansate, abbandonate, sole».
Nell’Africa sub-sahariana, inoltre, diversi studi mostrano che le ragazze sposate hanno più probabilità di contrarre l’Aids rispetto a ragazze single e sessualmente attive:
perdono la verginità con mariti malati e non hanno il potere di negarsi o chiedere loro di usare il preservativo.
A cura di: Andrea Mavilla.
Vogliamo abolire i privilegi, la casta di oppone
RISULTATO DELLA VOTAZIONE
498 hanno votato NO all'eliminazione
22 hanno votato SI all'eliminazione
Ecco come ci governano e questo è solo un esempio
Miriam Makeba - Pata Pata
Oggi, 4 marzo 2013, il Google Doogle è dedicato a Miriam Makeba, cantante sudafricana di jazz nata in questo giorno, nel lontano 1932. E’ stata delegata delle Nazioni Unite e ha lottato strenuamente contro l’apartheid. Una donna che ha lasciato una grande importante nella musica internazionale, distinguendosi come cantante e come persona, proprio in seguito alla lotta per i diritti umani e civili.
E’ nata Johannesburg e negli anni ‘50 aveva iniziato a cantare dando poi vita ad una propria band, i The Skylarks. Il successo aumentò e, allo stesso tempo, anche il timore politico che potesse diventare simbolo della popolazione oppressa (dopo un tour negli Usa). Questo le causò l’esilio da parte del governo di Pretoria. Non poteva più rientrare in quella che era stata la tua terra di nascita, d’origine, per ben trent’anni. Un dolore fortissimo, una costrizione a non rivedere i luoghi in cui era nata e vissuta. Per ben trent’anni
Interprete del documentario video anti-apartheid Come Back, Africa, si trasferì a Londra e conobbe Harry Belafont che l’aiutò a consolidare il suo successo in America, convincendola a trasferirsi proprio negli Usa.
Nel 1966 vinse un Grammy come miglior incisione per il disco “An Evening with Belafonte/Makeba”. Non a caso, nei testi delle canzoni, ritorna prepotentemente la sua battaglia contro l’apartheid, per denunciare la situazione sudafricana. I suoi album vennero vietati in quei luoghi, proprio per impedire qualsiasi influenza di pensiero.
Negli anni ‘80 fu delegata della Guinea presso le Nazioni Unite, ebbe una figlia che morì nel 1985. Fu cinque anni dopo, nel 1990, il momento del rientro in Sudafrica per Miriam, consigliata profondamente sulla scelta anche da Nelson Mandela. Nel 2005 i suoi problemi di salute aumentarono con l’età e così Makeba decise di fare un tour mondiale come segno di addio.
Morì in Italia, tra il 9 e il novembre 2008 a Castel Volturno. Qualche mese prima, sei immigrati del Sud Africa furono assassinati dalla camorra. Dedicò il live a Roberto Saviano ma quella stessa notte fu colpita da un attacco cardiaco.
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