La prima è un’isola. La seconda lo è stata in epoche geologiche lontane, finché il destino e i detriti alluvionali non l’hanno ricongiunta alla terraferma.
L’Isola Comacina e la penisola di Lavedo sono due degli angoli più affascinanti e meno conosciuti del Lario.
Visitarle d’autunno, quando il clima favorisce la malinconia e le strettoie della Statale Regina sono meno affollate di targhe tedesche e olandesi, le fa sembrare ancora più belle.
Arrivando da Milano la prima tappa è l’Antiquarium di Ossuccio, ospizio dei pellegrini in epoca medievale (poco lontano c’è il campanile gotico della chiesa di Santa Maria Maddalena, patrimonio dell’Unesco) e oggi punto di partenza per accedere ai due chilometri quadrati a forma di apostrofo, o di lacrima, dell’isola.
Scendendo dal taxi boat la cosa migliore è perdersi un po’ a camminare fra le piante per poi scoprire gli edifici dell’isola: la settecentesca chiesa di San Giovanni, la locanda nella quale amava tornare Alfred Hitchcock (grande amante del lago di Como fin dal viaggio di nozze nel 1926) ma soprattutto le tre ville razionaliste in pietra di Moltrasio e legno di castagno, progettate da Pietro Lingeri e recentemente restaurate, che incarnano il genius loci e che sono un prolungamento ideale del lavoro dei Magistri Cumacini, la corporazione di scalpellini che a partire dal IX secolo fece conoscere il nome di Como in tutta Europa.
Le villette vennero costruite nel 1939 su modello delle case per vacanze di Le Corbusier.
Il committente era l’Accademia di Belle Arti di Brera: l’istituzione culturale milanese cercava di esaudire i desideri di Alberto I del Belgio, che nel 1919 le aveva donato l’isolotto con l’obiettivo di farne un villaggio per gli artisti.
Per esplorare il dosso di Lavedo, che si trova a un paio di chilometri più a nord, si può scegliere una camminata di mezz’ora fra le querce lungo il sentiero che dal paese di Lenno si inerpica fino a villa Balbianello oppure arrivare via lago sbarcando al porticciolo della dimora costruita nel Settecento dal cardinal Angelo Maria Durini su ciò che rimaneva di un antico convento francescano.
I giardini e gli edifici che compongono la tenuta, frequentata durante l’Ottocento da Silvio Pellico e da altri intellettuali risorgimentali, sembrano usciti da un quadro di Arnold Böcklin o da una poesia di Shelley: ci sono un Ficus repens attorcigliato come un serpente sulle pareti e sulle colonne, una loggia con vista mozzafiato sul golfo di Venere e sulla Tremezzina, stanze arredate con pezzi unici di ebanisti francesi e inglesi e passaggi segreti utilizzati per far entrare e uscire le amanti dei padroni di casa.
Il fascino di villa Balbianello, però, deve tanto anche al suo ultimo proprietario: il conte Guido Monzino, che ereditò la Standa dal padre, la vendette alla Montedison e dedicò la sua vita all’alpinismo e alle esplorazioni.
Monzino la acquistò nel 1974, un anno dopo aver guidato una spedizione italiana sulla cima dell’Everest, e la trasformò nel mausoleo delle sue avventure fra gli inuit della Groenlandia e le popolazioni dell’Africa subsahariana.
Oggi il complesso è il bene del Fai più visitato d’Italia e i vip di tutto il mondo lo scelgono come set del loro matrimonio (l’ultimo in ordine di tempo è stato quello di Chris Smalling, calciatore del Manchester United), ma basta sfogliare le statistiche per capire che dai tempi del Grand Tour a oggi non è cambiato poi molto: l’87% dei 113 mila biglietti staccati quest’anno è finito nelle tasche di un turista straniero.
Fonte: lastampa.it