giovedì 21 febbraio 2013
The Alan Parsons Project - La Sagrada Familia
Siamo nel 1987 ed esce l'ultimo album accreditato ufficialmente al mitico Projects, "Gaudì", dedicato all'architetto catalano purosangue Antonio Gaudì, di Barcellona. Egli era, è, e sarà sempre per i catalani un inviato di Dio, un profeta, colui che ha dato forza divina all'immagine della Catalogna indipendente. I suoi edifici avevano le stimmate del sovrannaturale. Allora (come ora...) c'era chi gridava al miracolo per come riuscivano a stare in piedi! E' lui il padre della maestosa cattedrale neogotica de "La Sagrada Familia" in Barcellona, che lo stesso lasciò incompiuta. Il brano di apertura è "La Sagrada Familia", di oltre 8 minuti. Sullo sfondo di un'atmosfera gelida, si ode il cammino di un cavallo stanco, forse alla ricerca di conforto nel suono delle campane di una cattedrale lontana. Mentre il cielo è solcato dal volo di un elicottero, una voce in sottofondo ci cala nel vivo dell'opera. L'incipit è affidato alle carezze di un piano elettrico, a riprodurre il tema che accompagnerà tutto l'intero brano. Su di esse cala la voce che in questo pezzo è di John Miles, con Eric Woolfson in sottofondo. Il tutto procede su sonorità profonde e ad un ritmo che si fa incalzante. Su di esso si inseriscono poco a poco strumenti ed effetti nuovi, fino ad aprirsi a maestose sonorità orchestrali. Il tutto a sintetizzare i dubbi di una vita che inizia, e l'impossibilità di darvi risposta. Un brano maestoso con una melodia molto incisiva e passaggi strumentali da manuale.
Il mistero dei cerchi africani detti delle ‘fate’
(Express-news.it) Nella savana della Namibia, nel sud Africa, esistono delle misteriose chiazze glabre di vegetazione, appaiono improvvisamente e scompaiono dopo anni, sempre improvvisamente.
I cerchi più grandi, possono persistere fino a 75 anni, mentre quelli più piccoli scompaiono mediamente dopo 24 anni, secondo una nuova ricerca.
“E ‘molto difficile dire perché si formano”, ha detto il biologo Walter Tschinkel della Florida State University.
“Ci sono un certo numero di ipotesi, ma l’evidenza non è molto convincente.” Tschinkel nel 2005 si interessò dei cerchi delle fate mentre partecipava ad un safari, nella Riserva Nazionale del Namib Rand nel sud-ovest della Namibia nel deserto del Namib.
Nella zona ci sono molte decine di migliaia di radure circolari.
Nel corso del tempo, intorno al cerchio cresce l’erba alta e da lonatno la zona calva è indistinguibile dalla zona circostante. Ci sono pochi ricercatori che hanno studiato i cerchi delle fate.
Ciò è dovuto in gran parte perché sono a 180 km di distanza dal paese più vicino. Si tratta di un paesaggio arido in cui è facile incontrare struzzi, leopardi e altri animali di grandi dimensioni.
Attraverso immagini satellitari del 2004 e del 2008 messe a confronto, si è scoperto che i cerchi sono piuttosto stabili e l’erba ricresce molto velocemente.
I piccoli cerchi sono delle dimensioni di circa 2 metri, mentre i maggiori hanno un diametro di 12 metri.
La maggior parte dei cerchi durano tra i 30 ei 60 anni.
Tschinkel sta effettuando alcuni esperimenti, ma finora non può dire con certezza perché i circoli si formino.
Non sembra siano creati dal vento, ne dall’acqua, forse è l’erba stessa che si ritira dal terreno, ma perchè?
Dato che nessuna ricerca oltre alla sua è in corso i cerchi delle fate probabilmente resteranno un mistero ancora per lungo tempo. Un mistero della natura che non trova ancora una soluzione.
In futuro, Tschinkel spera di tornare nella regione per condurre test in diversi momenti dell'anno, visto che secondo le sue osservazioni i cerchi tendono a formarsi dopo la stagione delle piogge.
Mistero a parte, negli ultimi 10 anni, il parco è stato vistato da molti eco-turisti che hanno potuto contribuire alla sua conservazione adottando dei cerchi di fata per circa 50 dollari.
Ai “proprietari” viene data la latitudine e longitudine del cerchio in modo tale che possano verificare il loro acquisto su Google Earth
I cerchi più grandi, possono persistere fino a 75 anni, mentre quelli più piccoli scompaiono mediamente dopo 24 anni, secondo una nuova ricerca.
“E ‘molto difficile dire perché si formano”, ha detto il biologo Walter Tschinkel della Florida State University.
“Ci sono un certo numero di ipotesi, ma l’evidenza non è molto convincente.” Tschinkel nel 2005 si interessò dei cerchi delle fate mentre partecipava ad un safari, nella Riserva Nazionale del Namib Rand nel sud-ovest della Namibia nel deserto del Namib.
Nella zona ci sono molte decine di migliaia di radure circolari.
Nel corso del tempo, intorno al cerchio cresce l’erba alta e da lonatno la zona calva è indistinguibile dalla zona circostante. Ci sono pochi ricercatori che hanno studiato i cerchi delle fate.
Ciò è dovuto in gran parte perché sono a 180 km di distanza dal paese più vicino. Si tratta di un paesaggio arido in cui è facile incontrare struzzi, leopardi e altri animali di grandi dimensioni.
Attraverso immagini satellitari del 2004 e del 2008 messe a confronto, si è scoperto che i cerchi sono piuttosto stabili e l’erba ricresce molto velocemente.
I piccoli cerchi sono delle dimensioni di circa 2 metri, mentre i maggiori hanno un diametro di 12 metri.
La maggior parte dei cerchi durano tra i 30 ei 60 anni.
Tschinkel sta effettuando alcuni esperimenti, ma finora non può dire con certezza perché i circoli si formino.
Non sembra siano creati dal vento, ne dall’acqua, forse è l’erba stessa che si ritira dal terreno, ma perchè?
Dato che nessuna ricerca oltre alla sua è in corso i cerchi delle fate probabilmente resteranno un mistero ancora per lungo tempo. Un mistero della natura che non trova ancora una soluzione.
In futuro, Tschinkel spera di tornare nella regione per condurre test in diversi momenti dell'anno, visto che secondo le sue osservazioni i cerchi tendono a formarsi dopo la stagione delle piogge.
Mistero a parte, negli ultimi 10 anni, il parco è stato vistato da molti eco-turisti che hanno potuto contribuire alla sua conservazione adottando dei cerchi di fata per circa 50 dollari.
Ai “proprietari” viene data la latitudine e longitudine del cerchio in modo tale che possano verificare il loro acquisto su Google Earth
Se saprai starmi vicino
Se saprai starmi vicino,
e potremo essere diversi,
se il sole illuminerà entrambi
senza che le nostre ombre si sovrappongano,
se riusciremo ad essere "noi" in mezzo al mondo
...e insieme al mondo, piangere, ridere, vivere.
Se ogni giorno sarà scoprire quello che siamo
e non il ricordo di come eravamo,
se sapremo darci l'un l'altro
senza sapere chi sarà il primo e chi l'ultimo
se il tuo corpo canterà con il mio perché insieme è gioia...
Allora sarà amore
e non sarà stato vano aspettarsi tanto.
e potremo essere diversi,
se il sole illuminerà entrambi
senza che le nostre ombre si sovrappongano,
se riusciremo ad essere "noi" in mezzo al mondo
...e insieme al mondo, piangere, ridere, vivere.
Se ogni giorno sarà scoprire quello che siamo
e non il ricordo di come eravamo,
se sapremo darci l'un l'altro
senza sapere chi sarà il primo e chi l'ultimo
se il tuo corpo canterà con il mio perché insieme è gioia...
Allora sarà amore
e non sarà stato vano aspettarsi tanto.
-Pablo Neruda-
Geotecnologie, scoperta una nuova città romana nel vicentino
Una «nuova» città romana è «emersa» dal nulla nella pianura veneta. Il suo nome potrebbe essere Dripsinum, un insediamento che non è presente su nessuna carta geografica moderna, ma che sulle mappe dell’impero romano dovrebbe essere stato ben indicato. Aveva le dimensioni equivalenti a quelle di mezza Pompei. Ora la presenza di questo antico insediamento romano è stata confermata grazie alle ricerche archeologiche condotte da Paolo Visonà, originario di Valdagno (Vicenza), e da George Crothers, rispettivamente professori di storia dell’arte e antropologia della School of Art and Visual Studies al College of Fine Arts (Gran Bretagna).
La ricerca, non invasiva, cioè condotta attraverso un’indagine archeologica senza scavi, è stata effettuata l’estate scorsa con strumentazioni quali georadar, radiometri e magnetometri in terreni privati presso la frazione di Tezze, in località Valbruna, ad Arzignano, in provincia di Vicenza. Visonà venne a conoscenza della possibile presenza di un antico insediamento da un agricoltore di Valbruna. Quest’ultimo, Battista Carlotto, mentre lavorava la sua terra aveva scoperto reperti antichi quali ceramiche, mosaici e vetri attribuibili all’epoca imperiale romana.
Visonà cominciò così a cercare testimonianze storiche relative a quella zona. E nella biblioteca Bertoliana di Vicenza trovò manoscritti che confermarono il suo sospetto. In quei manoscritti infatti si legge che nel tardo XVIII secolo testimoni avevano visto i resti della città romana. Così non volendo operare con metodi invasivi nei campi di Carlotto, Visonà ha dovuto escogitare un modo per trovare le prove dell’esistenza di quell’insediamento. In suo aiuto è giunto il collega George Crothers, professore associato di antropologia nel Regno Unito: «George aveva le basi per fare questo tipo di ricerca», dice Visonà, «con tecniche geofisiche e gli strumenti per scoprire le caratteristiche architettoniche nascoste di questo sito».
Crothers spiega: «Il sito non era stato scavato, e le tecniche geofisiche sono un modo per guardare sotto terra senza disturbare il terreno». Il team ha utilizzato un magnetometro e un radar per indagare il suolo. Il magnetometro misura le variazioni nell’intensità magnetica del terreno e può rilevare le caratteristiche degli oggetti seppelliti. Il radar emette onde sottoterra che poi vengono riflesse. È stato così possibile creare una mappa di ciò che c’è sotto la superficie.
In primo luogo la squadra ha confermato la presenza di una strada e pareti che indicano la presenza di edifici romani. A giudicare dai materiali trovati in superficie e durante i lavori agricoli, l’insediamento poteva essere esistito per più di 400 anni, dal I secolo a. C. al III-IV secolo d. C. Le informazioni del manoscritto indicarono che era molto vasto. «Riguardano un lungo periodo, alcune sono molto dettagliate, di testimoni oculari che hanno visto la città romana in due diverse occasioni», spiga Visonà, «quando venne in parte alla luce durante le inondazioni del fiume Guà. Ma erano informazioni sparse e mai davvero considerate dagli scienziati».
Le corna dell'antichità
Un nonno Neandertal ce lo abbiamo avuto tutti.
E' il risultato più clamoroso del sequenziamento del Dna di tre esemplari di Neandertal e dal loro confronto col genoma dell’uomo moderno, appena pubblicata dall’equipe di Svante Paabo sulla rivista Nature.
Sembra, dicono i ricercatori, che un incrocio tra i nostri antenati e gli antichi Neandertal estinti 30 000 anni fa ci sia stato davvero e che le sue tracce siano rimasti fino a oggi. Una scappatella preistorica? La questione è annosa ed è da un bel po’ che gli antropologi ne discutono.
Fino a oggi si diceva che i cugini Neandertal si erano estinti senza lasciare progenie e che se anche i sapiens nostri antenati si fossero accoppiati con loro non ne sarebbe nata prole fertile (quindi la cosa sarebbe rimasta lì e dell’imbarazzante faccenda, ai giorni nostri, non sarebbe giunta notizia). Invece adesso l’analisi genetica (quasi) completa mostra che una certa percentuale di Dna nucleare del Neandertal ce l’abbiamo tutti, circa tra l’1% e il 4%.
Ma per qualcuno, il campione di Dna studiato da Paabo e compagni era troppo limitato (solo tre individui!).
Poi è strano che il flusso di geni sia andato solo dal Neandertal al Sapiens, senza contare la stranezza di aver trovato solo somiglianze nel Dna nucleare e non in quello mitocondriale, come se fosse ragionevole pensare che solo le donne sapiens (e non i maschi) avessero avuto occasione di spassarsela con gli uomini Neandertal.
La questione non è ancora chiusa, insomma, e gli antropologi continueranno a cercare nel Dna le tracce delle avventure extraconiugali dei nostri antenati. Fuor di pettegolezzo: quello che invece è rilevante in questa ricerca è l’aver notato le differenze, più che le somiglianze tra il Neandertal e noi.
Per esempio, nei geni sullo sviluppo cognitivo, in quelli che regolano lo sviluppo delle ossa e in quelli responsabili di certi metabolismi.
E' il risultato più clamoroso del sequenziamento del Dna di tre esemplari di Neandertal e dal loro confronto col genoma dell’uomo moderno, appena pubblicata dall’equipe di Svante Paabo sulla rivista Nature.
Sembra, dicono i ricercatori, che un incrocio tra i nostri antenati e gli antichi Neandertal estinti 30 000 anni fa ci sia stato davvero e che le sue tracce siano rimasti fino a oggi. Una scappatella preistorica? La questione è annosa ed è da un bel po’ che gli antropologi ne discutono.
Fino a oggi si diceva che i cugini Neandertal si erano estinti senza lasciare progenie e che se anche i sapiens nostri antenati si fossero accoppiati con loro non ne sarebbe nata prole fertile (quindi la cosa sarebbe rimasta lì e dell’imbarazzante faccenda, ai giorni nostri, non sarebbe giunta notizia). Invece adesso l’analisi genetica (quasi) completa mostra che una certa percentuale di Dna nucleare del Neandertal ce l’abbiamo tutti, circa tra l’1% e il 4%.
Ma per qualcuno, il campione di Dna studiato da Paabo e compagni era troppo limitato (solo tre individui!).
Poi è strano che il flusso di geni sia andato solo dal Neandertal al Sapiens, senza contare la stranezza di aver trovato solo somiglianze nel Dna nucleare e non in quello mitocondriale, come se fosse ragionevole pensare che solo le donne sapiens (e non i maschi) avessero avuto occasione di spassarsela con gli uomini Neandertal.
La questione non è ancora chiusa, insomma, e gli antropologi continueranno a cercare nel Dna le tracce delle avventure extraconiugali dei nostri antenati. Fuor di pettegolezzo: quello che invece è rilevante in questa ricerca è l’aver notato le differenze, più che le somiglianze tra il Neandertal e noi.
Per esempio, nei geni sullo sviluppo cognitivo, in quelli che regolano lo sviluppo delle ossa e in quelli responsabili di certi metabolismi.
Chenonceaux – Il castello delle dame
Elegante e fastoso, Chenonceaux è legato alle grandi dame della corte francese.
‘Le chàteau des Dames’, il castello delle dame, venne eretto nel 1513-21 per una nobildonna dell’epoca, Catherine Briçonnet. Dal 1547 al 1559 fu una delle residenze preferite dell’amante di Enrico II, Diana di Poiters: che, secondo le dicerie popolari, era solita, la mattina, fare il bagno nuda nel fiume. Dopo la morte di Enrico, Diana fu costretta a lasciare la tenuta a Caterina de’ Medici, vedova del re, che organizzò nel castello e nel parco ricevimenti spettacolari e travolgenti, allietati da fuochi d’artificio. La sola festa allestita per Francesco II e sua moglie, la regina scozzese Maria Stuarda, sarebbe costata una somma da capogiro.
Gran parte del fascino dei castelli rinascimentali francesi deriva dall’abile uso dell’acqua come elemento architettonico: quasi sempre si tratta di costruzioni circondate, o addirittura affioranti dalle acque, cosi da rispecchiarsi, con scenografici e romantici effetti. Da un punto di vista funzionale, l’acqua era uno strumento di difesa, o quanto meno di selezione. I castelli non avevano più apparati bellici e le torrette che li ornavano non avevano funzioni militari ma solo decorative: l’acqua costituiva una buona barriera contro ladri, banditi o visitatori indesiderati. Tuttavia, da un punto di vista più generale, era un elemento naturale che dava dolcezza e risalto all’architettura, conferendole un aspetto magico.
Tra le tante novità giunte dall’Italia una di quelle destinate ai massimi fasti fu la ‘galleria’. Fino ad allora, le stanze dei castelli e dei palazzi non erano – per usare termini attuali –disimpegnate: al contrario, erano accostate tra di loro, e la porta di una stanza si apriva direttamente sulla stanza vicina. Con quanta intimità e con quale agio per gli abitanti è facile capire. Nel corso del Rinascimento si diffuse in Italia l’abitudine di allineare le stanze lungo un corridoio di disimpegno, in modo che per andare da una stanza a un’altra si potesse usare tale spazio, senza disturbare gli occupanti delle stanze intermedie. Questo corridoio portava il nome di ‘galleria’ e fu per lungo tempo, aperto sul lato esterno, finché nel corso del Seicento, con il progredire della tecnica vetraria, si prese l’abitudine di chiuderlo con ampi finestroni. Poiché questo nuovo locale era il primo che si incontrava nella casa, e godeva di abbondante luce, divenne consueto esporvi i pezzi pregiati della casa: statue, quadri, arazzi, mobili. Cosi il termine galleria acquisto il significato di raccolta d’arte che mantiene ancora. A Chenonceaux si ha uno dei primi esempi di galleria di questo tipo: un lungo ambiente senza più stanze da disimpegnare, che ha in sé la sua giustificazione, e poteva essere usato per esporre opere d’arte, passeggiare o ammirare il panorama del fiume.
Le grandi dimore, soprattutto se prestigiose, non erano all’epoca solo esempi di architettura ma anche, grazie al loro valore aggiunto, manifestazioni di gusto e prestigio, teatri per la vita aristocratica, strumenti di potere assai ambiti, intorno a cui si consumavano spesso segrete quanto spietate lotte. Alla fine del Cinquecento Chenonceaux fu la posta in gioco di una lotta serrata e alquanto complicata. Alla sua morte, nel 1589, Caterina de’ Medici aveva lasciato in eredità alla nuora Luisa di Lorena, moglie di Enrico III, la proprietà del castello. Purtroppo, il sovrano fu assassinato lo stesso anno, e Luisa apprese proprio a Chenonceaux la funesta notizia che la privava dell’adorato marito. Decise quindi di ritirarsi in stetta vedovanza nel castello, scomparendo dalla corte. L’amante del nuovo re, Gabrielle d’Estrées, bramava di impossessarsi della splendida proprietà, ed esercitò tutto il suo potere per riuscirci. Fu organizzata allora una complicatissima serie di scambi, secondo quale Luisa cedeva il castello alla nipote, Francesca di Lorena, di sei anni. Questa, a sua volta, veniva promessa in sposa al figlio naturale di Enrico IV, César de Vendòme, di quattro anni. In tal modo Gabrielle d’Estrées poteva avere il castello, nominalmente del figlio. Luisa fu invece indennizzata con l’usufrutto a vita del feudo d’origine del re, il Borbonese, dove morì nel 1601. Chenonceaux passò cosi ai Vendòme, cui rimase fino al 1720.
A rischio la nostra bella tazzina di caffè
I cambiamenti climatici potrebbero fare estinguere le specie selvatiche di Coffea arabica, la pianta da cui si ricava una delle bevande più diffuse del pianeta.
Preoccupante, economicamente che dal punto di vista ambientale Il caffè è considerato un bene di prima necessità.Si stima che ogni anno un italiano ne consumi quasi sei kilogrammi e il suo commercio internazionale è secondo solo a quello del petrolio.
I paesi produttori sono pochissimi e generalmente in regioni poco industrializzate.
La varietà attualmente più coltivata appartiene alla specie Coffea arabica, originaria dell’Etiopia dove è ancora presente allo stato selvatico.
Secondo la rivista Plos One queste specie, già in rapida riduzione, potrebbero estinguersi nei prossimi decenni.
Infatti, in assenza di contromisure e a causa dei rapidi mutamenti climatici, nel 2080 la varietà selvatica di una delle piante economicamente più importanti del pianeta sarà totalmente perduta.
In alcune aree del Kenya, il bioclima consentirebbe sufficientemente la coltivazione della Coffea arabica.
Dal punto di vista bioclimatico, esistono nicchie adatte oltre a quelle attualmente effettivamente già occupate.
Nella più rosea delle aspettative nel 2080 il 65% delle località bioclimaticamente compatibili con la pianta sarà scomparsa, nel peggiore degli scenari saranno scomparse.
Visto che si sta parlando di cespugli di caffè selvatico e non delle immense piantagioni che sostentano il nostro consumo, preso atto dell’enorme danno ambientale, ci si potrebbe però chiedere quale sia, dopotutto, il problema per quanto riguarda la produzione della bevanda.
Anche se è da ingenui ritenere che i cambiamenti climatici non causeranno danni economici all’industria del caffè (gli stessi autori degli studi stimano che l'Etiopia in particolare sarà molto colpita)
Ogni pianta coltivata è stata ottenuta per domesticazione, cioè tramite una selezione artificiale dei suoi caratteri geneticamente trasmissibili.
Il processo ci dà piante e animali con le caratteristiche che vogliamo, ma ne riduce enormemente la variabilità.
Per questo le varietà selvatiche, come quelle antiche, sono preziosissime per mantenere a nostra disposizione la ricchezza genetica necessaria a migliorare le colture a seconda dei nostri nuovi bisogni.
Perdere le specie di caffè selvatico, così diverse e adattabili, sarebbe catastrofico sul lungo periodo.
Le banche del germoplasma, secondo gli autori, non sono sufficienti, e bisogna attuare da subito opere di protezione
Preoccupante, economicamente che dal punto di vista ambientale Il caffè è considerato un bene di prima necessità.Si stima che ogni anno un italiano ne consumi quasi sei kilogrammi e il suo commercio internazionale è secondo solo a quello del petrolio.
I paesi produttori sono pochissimi e generalmente in regioni poco industrializzate.
La varietà attualmente più coltivata appartiene alla specie Coffea arabica, originaria dell’Etiopia dove è ancora presente allo stato selvatico.
Secondo la rivista Plos One queste specie, già in rapida riduzione, potrebbero estinguersi nei prossimi decenni.
Infatti, in assenza di contromisure e a causa dei rapidi mutamenti climatici, nel 2080 la varietà selvatica di una delle piante economicamente più importanti del pianeta sarà totalmente perduta.
In alcune aree del Kenya, il bioclima consentirebbe sufficientemente la coltivazione della Coffea arabica.
Dal punto di vista bioclimatico, esistono nicchie adatte oltre a quelle attualmente effettivamente già occupate.
Nella più rosea delle aspettative nel 2080 il 65% delle località bioclimaticamente compatibili con la pianta sarà scomparsa, nel peggiore degli scenari saranno scomparse.
Visto che si sta parlando di cespugli di caffè selvatico e non delle immense piantagioni che sostentano il nostro consumo, preso atto dell’enorme danno ambientale, ci si potrebbe però chiedere quale sia, dopotutto, il problema per quanto riguarda la produzione della bevanda.
Anche se è da ingenui ritenere che i cambiamenti climatici non causeranno danni economici all’industria del caffè (gli stessi autori degli studi stimano che l'Etiopia in particolare sarà molto colpita)
Ogni pianta coltivata è stata ottenuta per domesticazione, cioè tramite una selezione artificiale dei suoi caratteri geneticamente trasmissibili.
Il processo ci dà piante e animali con le caratteristiche che vogliamo, ma ne riduce enormemente la variabilità.
Per questo le varietà selvatiche, come quelle antiche, sono preziosissime per mantenere a nostra disposizione la ricchezza genetica necessaria a migliorare le colture a seconda dei nostri nuovi bisogni.
Perdere le specie di caffè selvatico, così diverse e adattabili, sarebbe catastrofico sul lungo periodo.
Le banche del germoplasma, secondo gli autori, non sono sufficienti, e bisogna attuare da subito opere di protezione
Amore il motore della vita
Iscriviti a:
Post (Atom)