domenica 5 maggio 2013
Come sono state costruite le piramidi?
Lo storico arabo Ibn Abd Hock affermò che la piramide fu costruita da Surid Ibn Salhouk, un antico re egizio vissuto 12000 anni fa, con lo scopo di preservare le conoscenze acquisite dal suo popolo; egli sognò che un disastro si sarebbe abbattuto sulla terra.
Non ultima la teoria di Davidovitz che propone la fabbricazione di un impasto di calcare effettuato sul luogo, ma che non spiega la presenza dei blocchi di granito.
Il calcare bianco si trova decine di metri di profondità nel sottosuolo in blocchi stimati di tre tonnellate, il granito proviene da cave distanti 500 chilometri.
Secondo Christofer Dunn i costruttori conoscevano gli ultrasuoni e si servivano di utensili che sfruttavano tale tecnologia.A riprova i sarcofagi di granito e di basalto con i resti dei tori Apis contenuti nel Serapeum di Saccara lunghi 4 metri, larghi oltre 2 e alti 3,30, del peso di circa 100 tonnellate Il coperchio è di 27 tonnellate.
Rifiniti con elevata accuratezza, i sarcofagi presentano superfici perfettamente piane e levigate tanto da potersi specchiare.
Gli angoli sono esattamente retti in ogni lato e di conseguenza le pareti interne risultano parallele fra loro. Il coperchio combacia in modo perfetto tanto da produrre una chiusura ermetica e impedire l’accesso dell’aria fra le due superfici.
Un lavoro di questa precisione appare estremamente difficile da realizzare con gli utensili ordinari che la scienza ufficiale assegna alla civiltà egizia.
Le pietre ritrovate a Baalbek pongono gli stessi quesiti con le loro dimensioni esagerate, 18x20 metri, un peso di 1000 tonnellate, e il loro posizionamento millimetrico.
Sono state estratte tutte da una cava vicina, dove ne possiamo ammirare ancora una, conosciuta come la "pietra del Sud", tuttora attaccata alla vena madre, di 21 metri di lunghezza, 10 di altezza con uno spessore di 4,5 metri nonché il ragguardevole peso di 1200 tonnellate.
Dove sono le macchine? Gli utensili serviti per lavorare il granito?
Non è razionale parlare di attrezzi di rame.
Il rame non ha certamente la durezza necessaria per tagliare il granito.
Il rame indurisce battendolo ripetutamente, ma poi inevitabilmente inizierà a sbriciolarsi, quindi deve essere ricotto e ammorbidito per far sì che rimanga intero.
Analizzando la teoria delle rampe giungiamo alla conclusione che non era realizzabile in quanto una rampa non può superare il 10% di pendenza e alla fine risulterà di 1450 metri; con un volume di oltre 7 milioni di metri cubi.
La piramide ne ha solo 2,5. Non solo, un uomo non traina più di 20 kg; per ogni blocco da 2,5 tonnellate, quindi, occorrono 125 uomini per percorrere 100 metri in dieci minuti; in un’ora si trascinano sei blocchi da 2,5 tonnellate. Ma i blocchi pesano circa 50 tonnellate. Una raffigurazione su di una tomba a Deir El Bersha indica 4 file di uomini che trascinano una statua posta su slitte.
Per la disposizione degli uomini occorrevano uno spazio di 10 metri. Calcolando il volume del materiale spostato le rampe costavano troppo; solo per la rampa quanti blocchi?
Sessanta al giorno, ventuno mila ogni anno, un periodo di 237 anni per costruire tre piramidi, senza calcolare i tempi per realizzare il cantiere, le strade, la Sfinge, i templi, i loculi per le barche ecc. E i 115.000 blocchi bianchi di dieci tonnellate l’uno?
Erodoto indica venti anni per la Grande Piramide e dieci per la rampa, ma Cheope visse solo 23 anni.
Tutte le attività antiche sono state riprodotte, ma non la costruzione delle piramidi. Perché? Non è stato mai trovato nessun utensile che possa spiegare le varie teorie riguardo alla costruzione dei manufatti in granito.
Considerando questo possiamo accertare che il metodo più semplice adottato per la produzione risulta inadeguato, quindi secondo il principio di Ockham dobbiamo prendere in esame altri metodi meno semplici; cosa che gli archeologi rifiutano.
Nonostante che dal 1880 la tecnologia abbia fatto passi da gigante per soddisfare i nostri bisogni, gli artigiani del nostro tempo restano esterrefatti di fronte al lavoro dei costruttori delle piramidi. Il ritrovamento di fibre organiche con bolle d’aria e pezzetti di intonaco colorato di rosso, hanno fatto presupporre che si trattasse di "pietra artificiale" ottenuta usando natron che si trova allo stato naturale in Egitto e minerali di rame, come crisocolla e silicati. Migliaia gli oggetti probabilmente lavorati con le tecniche adoperate per plasmare e modellare il materiale plastico prima che indurisca. I grandi blocchi venivano costruiti usando il calcare della piana di Giza, conosciuto come nummulitico.
Si tratta di una pietra fossilifera dove le minuscole conchiglie che la formano sono tutte orientate nella posizione assunta in fondo al mare, mentre quelle dei blocchi di calcare sono orientate disordinatamente, casualmente, quindi si deduce che il calcare sarebbe stato usato per un impasto.
Macerato in acqua si disgrega e diviene fanghiglia. Tutto questo avvalora la tesi di Davidovitz: Imhotep aveva scoperto il modo di produrre blocchi di pietra artificiale.
Al posto di centomila uomini ne sarebbero bastati 1400.
Nel Tempio delle Tre Finestre troviamo un’unica pietra curva di notevoli dimensioni che poggia su di un’altra stretta e lunga che ripete lo stesso motivo. Anche in Egitto si trovano pietre curve.
Ha ragione Davidovitz? Ma vi sono altre storie menzionate in "Un misterioso miscuglio che scioglie le pietre", che qui riassumiamo. Sir Fawcett, l’Architetto Marco Righetti, Mirella Rostaing, un padre missionario, hanno parlato di piante grasse le cui foglie sono in grado di ammorbidire la pietra e renderla malleabile.
La storia del cuore
C'era una volta un giovane in mezzo a una piazza gremita di persone: diceva di avere il cuore più bello del mondo, o quantomeno della vallata.
Tutti quanti glielo ammiravano: era davvero perfetto, senza alcun minimo difetto.
Erano tutti concordi nell'ammettere che quello era proprio il cuore più bello che avessero mai visto in vita loro, e più lo dicevano, più il giovane s'insuperbiva e si vantava di quel suo cuore meraviglioso. All'improvviso spuntò fuori dal nulla un vecchio, che emergendo dalla folla disse:
"Beh, a dire il vero... il tuo cuore è molto meno bello del mio." Quando lo mostrò, aveva puntati addosso gli occhi di tutti: della folla, e del ragazzo.
Certo, quel cuore batteva forte, ma era ricoperto di cicatrici. C'erano zone dove dalle quali erano stati asportati dei pezzi e rimpiazzati con altri, ma non combaciavano bene, così il cuore risultava tutto bitorzoluto.
Per giunta, era pieno di grossi buchi dove mancavano interi pezzi. Così tutti quanti osservavano il vecchio, colmi di perplessità, domandandosi come potesse affermare che il suo cuore fosse bello. Il giovane guardò com'era ridotto quel vecchio e scoppiò a ridere: "Starai scherzando!", disse.
"Confronta il tuo cuore col mio: il mio è perfetto, mentre il tuo è un rattoppo di ferite e lacrime.
"E' vero!", ammise il vecchio. "Il tuo ha un aspetto assolutamente perfetto, ma non farei mai cambio col mio.
Vedi, ciascuna ferita rappresenta una persona alla quale ho donato il mio amore: ho staccato un pezzo del mio cuore e gliel'ho dato, e spesso ne ho ricevuto in cambio un pezzo del loro cuore, a colmare il vuoto lasciato nel mio cuore.
Ma, certo, ciò che dai non è mai esattamente uguale a ciò che ricevi e così ho qualche bitorzolo, a cui però sono affezionato: ciascuno mi ricorda l'amore che ho condiviso.
Altre volte invece ho dato via pezzi del mio cuore a persone che non mi hanno corrisposto: questo ti spiega le voragini.
Amare è rischioso, certo, ma per quanto dolorose siano queste voragini che rimangono aperte nel mio cuore, mi ricordano sempre l'amore che ho provato anche per queste persone...e chissà?
Forse un giorno ritorneranno, e magari colmeranno lo spazio che ho riservato per loro.
Comprendi, adesso, che cosa sia il vero amore?"
Il giovane era rimasto senza parole, e lacrime copiose gli rigavano il volto.
Prese un pezzo del proprio cuore, andò incontro al vecchio, e gliel'offrì con le mani che tremavano.
Il vecchio lo accettò, lo mise nel suo cuore, poi prese un pezzo del suo vecchio cuore rattoppato e con esso colmò la ferita rimasta aperta nel cuore del giovane.
Ci entrava, ma non combaciava perfettamente, faceva un piccolo bitorzolo. Poi il vecchio aggiunse:
"Se la nota musicale dicesse:" Non è la nota che fa la musica..." Non ci sarebbero le sinfonie.
Se la parola dicesse:"Non è una parola che può fare una pagina..." Non ci sarebbero i libri.
Se la pietra dicesse: "Non è una pietra che può alzare un muro..." Non ci sarebbero case.
Se la goccia d'acqua dicesse:"Non è una goccia d'acqua che può fare un fiume..." Non ci sarebbero gli oceani.
Se l'uomo dicesse: "Non è un gesto d'amore che può rendere felici e cambiare il destino del mondo..
" Non ci sarebbero mai né giustizia, né pace, né felicità sulla terra degli uomini".
Dopo aver ascoltato, il giovane guardò il suo cuore, che non era più "il cuore più bello del mondo", eppure lo trovava meraviglioso più che mai: perchè l'amore del vecchio ora scorreva dentro di lui.
In questa storiella c'è racchiusa un pò di vita di tutte le persone, ognuna con il suo cuore, con i suoi bitorzoli, con i suoi vuoti, e con tutto ciò che nel corso degli anni si è donato e si è ricevuto.
E come la sinfonia ha bisogno di ogni nota; come il libro ha bisogno di ogni parola; come la casa ha bisogno di ogni pietra; come l'oceano ha bisogno di ogni goccia d'acqua; così il mondo ha bisogno di te, ha bisogno del tuo amore, perché sei unico ed insostituibile
Tutti quanti glielo ammiravano: era davvero perfetto, senza alcun minimo difetto.
Erano tutti concordi nell'ammettere che quello era proprio il cuore più bello che avessero mai visto in vita loro, e più lo dicevano, più il giovane s'insuperbiva e si vantava di quel suo cuore meraviglioso. All'improvviso spuntò fuori dal nulla un vecchio, che emergendo dalla folla disse:
"Beh, a dire il vero... il tuo cuore è molto meno bello del mio." Quando lo mostrò, aveva puntati addosso gli occhi di tutti: della folla, e del ragazzo.
Certo, quel cuore batteva forte, ma era ricoperto di cicatrici. C'erano zone dove dalle quali erano stati asportati dei pezzi e rimpiazzati con altri, ma non combaciavano bene, così il cuore risultava tutto bitorzoluto.
Per giunta, era pieno di grossi buchi dove mancavano interi pezzi. Così tutti quanti osservavano il vecchio, colmi di perplessità, domandandosi come potesse affermare che il suo cuore fosse bello. Il giovane guardò com'era ridotto quel vecchio e scoppiò a ridere: "Starai scherzando!", disse.
"Confronta il tuo cuore col mio: il mio è perfetto, mentre il tuo è un rattoppo di ferite e lacrime.
"E' vero!", ammise il vecchio. "Il tuo ha un aspetto assolutamente perfetto, ma non farei mai cambio col mio.
Vedi, ciascuna ferita rappresenta una persona alla quale ho donato il mio amore: ho staccato un pezzo del mio cuore e gliel'ho dato, e spesso ne ho ricevuto in cambio un pezzo del loro cuore, a colmare il vuoto lasciato nel mio cuore.
Ma, certo, ciò che dai non è mai esattamente uguale a ciò che ricevi e così ho qualche bitorzolo, a cui però sono affezionato: ciascuno mi ricorda l'amore che ho condiviso.
Altre volte invece ho dato via pezzi del mio cuore a persone che non mi hanno corrisposto: questo ti spiega le voragini.
Amare è rischioso, certo, ma per quanto dolorose siano queste voragini che rimangono aperte nel mio cuore, mi ricordano sempre l'amore che ho provato anche per queste persone...e chissà?
Forse un giorno ritorneranno, e magari colmeranno lo spazio che ho riservato per loro.
Comprendi, adesso, che cosa sia il vero amore?"
Il giovane era rimasto senza parole, e lacrime copiose gli rigavano il volto.
Prese un pezzo del proprio cuore, andò incontro al vecchio, e gliel'offrì con le mani che tremavano.
Il vecchio lo accettò, lo mise nel suo cuore, poi prese un pezzo del suo vecchio cuore rattoppato e con esso colmò la ferita rimasta aperta nel cuore del giovane.
Ci entrava, ma non combaciava perfettamente, faceva un piccolo bitorzolo. Poi il vecchio aggiunse:
"Se la nota musicale dicesse:" Non è la nota che fa la musica..." Non ci sarebbero le sinfonie.
Se la parola dicesse:"Non è una parola che può fare una pagina..." Non ci sarebbero i libri.
Se la pietra dicesse: "Non è una pietra che può alzare un muro..." Non ci sarebbero case.
Se la goccia d'acqua dicesse:"Non è una goccia d'acqua che può fare un fiume..." Non ci sarebbero gli oceani.
Se l'uomo dicesse: "Non è un gesto d'amore che può rendere felici e cambiare il destino del mondo..
" Non ci sarebbero mai né giustizia, né pace, né felicità sulla terra degli uomini".
Dopo aver ascoltato, il giovane guardò il suo cuore, che non era più "il cuore più bello del mondo", eppure lo trovava meraviglioso più che mai: perchè l'amore del vecchio ora scorreva dentro di lui.
In questa storiella c'è racchiusa un pò di vita di tutte le persone, ognuna con il suo cuore, con i suoi bitorzoli, con i suoi vuoti, e con tutto ciò che nel corso degli anni si è donato e si è ricevuto.
E come la sinfonia ha bisogno di ogni nota; come il libro ha bisogno di ogni parola; come la casa ha bisogno di ogni pietra; come l'oceano ha bisogno di ogni goccia d'acqua; così il mondo ha bisogno di te, ha bisogno del tuo amore, perché sei unico ed insostituibile
Federico II di Svevia Stupor Mundi
Federico II nacque il 26 dicembre 1194 a Jesi; figlio di Enrico di Hohenstaufen e di Costanza d'Altavilla, ultima discendente della dinastia normanna, già orfano a soli quattro anni di entrambi i genitori, ereditò sia l'Impero che il Regno di Sicilia.
Il meridione d’Italia dai Normanni-Svevi agli Angioini Sullo sfondo della lotta di Federico II di Svevia con il Papato
Gli anni dell'infanzia e dell'adolescenza, determinanti nella formazione della sua complessa e straordinaria personalità, Federico li trascorse a Palermo, capitale del regno normanno, già sede di un emirato arabo, in cui si erano intrecciate e avevano convissuto razze, religioni e culture diversissime.
Divenuto maggiorenne nel 1209, finalmente libero dalla tutela di papa Innocenzo III, sposò Costanza d'Aragona che gli portò in dote trecento cavalieri, grazie ai quali Federico II riuscì a riaffermare i sui diritti in Germania, sconfiggendo l'usurpatore Ottone IV di Brunswick e ripristinando pace ed ordine attraverso provvedimenti di risanamento e riorganizzazione dello stato.
Rientrato nell'amato Regno di Sicilia, nel marzo 1221 il re visitò per la prima volta la Puglia, terra ricca di boschi, fiumi e testimonianze artistiche; molto amata anche dai suoi discendenti.
Nei successivi trent'anni Federico istutuì con Decreto Imperiale del 5 ottobre 1239 emanato a Milano,la Castra exempta un elenco dei castelli demaniali del Regno di Sicilia che ritenne di gestire direttamente.
Fu avviato un censimento dei castelli e con il decreto Statutum de reparatione castrorum (1231-1240) venne imposta la loro ristrutturazione e manutenzione a carico dei cittadini.
Quasi contemporaneamente, col decreto del 1239, Federico individuava tra gli oltre 250 castelli, una ottantina particolarmente importanti per il controllo del territorio che, pertanto, determinò che dovessero essere definiti demaniali (exempta), ovvero dipendere direttamente dall'imperatore;
Che tuttora imprimono un carattere inconfondibile al paesaggio agrario ed all'assetto urbanistico, costituendo una parte significativa del patrimonio artistico della regione.
Morta Costanza, da cui aveva avuto il figlio Enrico, destinato ad ereditare la corona imperiale,
Federico sposò Jolanda di Brienne, figlia del re di Gerusalemme, che gli diede Corrado, destinato a regnare in Sicilia.
Anche la terza moglie, Isabella d'Inghilterra, morì giovanissima e come Jolanda fu sepolta nella cripta della cattedrale di Andria. Tuttavia la sola donna che probabilmente Federico amò fu Bianca Lancia, che gli diede altri figli, fra cui Manfredi, quello che più somigliava al padre, e che, alla sua morte, cercò disperatamente di ostacolare gli Angiò nella loro mira di conquista del Regno di Sicilia, forti della protezione del pontefice.
Alla corte di Federico venivano coltivate molte discipline ed attività, sia artistiche che scientifiche; fra queste la musica e la poesia e la caccia col falcone, svago preferito da Federico, ma anche occasione di studio della natura, come attesta il trattato da lui redattoDe arte venandi cum avibus, corredato da pregevoli miniature.
Grande spazio veniva dato anche alla cura corporis
in cui l'igiene quotidiana si univa ai precetti della medicina della scuola salernitana.
Augustale d'oro.
Questa moneta, la più nota e studiata, fatta coniare da Federico II, reca l'aquila monocefala circondata dalla scritta: +FRIDERICUS, Aperto ad una ampia gamma di interessi culturali, dalla matematica all'astronomia, dalle scienze naturali alla filosofia, il sovrano nel 1224 istituì a Napoli una scuola di diritto e riorganizzò la Scuola medica salernitana.
Insieme al figlio Enzo raccolse intorno alla Magna Curia di Palermo i poeti della cosiddetta "scuola siciliana", dando origine alla letteratura italiana in volgare, come venne riconosciuto sia da Dante che da Petrarca.
Nei pressi di Andria è presente la costruzione più affascinante voluta dall'imperatore, CASTEL DEL MONTE , dichiarato Patrimonio dell'umanità dall' UNESCO .
Dal punto di vista architettonico il castello è una sintesi tra le tendenze europee e quelle arabo-musulmane con soluzioni innovative,
quali torri sporgenti, feritoie ed elementi anticipatori del gotico La spada fa parte del parato utilizzato nel 1220 per l'incoronazione di Federico II a Roma, e da lui stesso commissionato agli opifici palermitani.
Nel Kunsthistorisches Museum di Vienna sono conservati anche i guanti appartenenti allo stesso corredo.
Alla fine degli anni '40 Federico non solo aveva subito pesanti sconfitte ma cominciava ad avere problemi di salute. Incurante dei disturbi fisici, a novembre del 1250 volle comunque partecipare ad una battuta di caccia nella zona fra Foggia e Lucera; colto da malore, probabilmente un'infezione intestinale dovuta a malattie trascurate, durante un soggiorno in Puglia; secondo Guido Bonatti , invece, fu avvelenato.
Egli, difatti, qualche tempo prima aveva scoperto un complotto, in cui fu coinvolto lo stesso medico di corte.
Il 1° dicembre 1250 fu trasportato a Castel Fiorentino, presso Torremaggiore, dove il 13 dicembre si compì la profezia che gli era stata rivelata anni addietro e che lo aveva indotto ad evitare sempre Firenze: "Tu morrai presso la porta di ferro, in un luogo che porta il nome fiore".
Papa Innocenzo IV, parlando di Federico II, aveva dichiarato: "Guai a lasciare a quest'uomo e alla sua stirpe viperina lo scettro col quale dominava il popolo di Cristo".
Le redini del regno meridionale furono assunte dal figlio Manfredi ma l'appoggio offerto dal pontefice agli Angiò fu determinante nella lotta per il potere e il giovane svevo nel 1266 morì combattendo presso Benevento e Clemente IV incoronò Re di Sicilia Carlo d'Angiò, fratello di Luigi re di Francia.
Due anni dopo un altro discendente appena sedicenne di Federico II di Svevia, Corradino, figlio di Corrado, tentò un'ultima disperata difesa del regno meridionale contro gli angioini ma, sconfitto a Tagliacozzo, fu consegnato a Carlo d'Angiò che, dopo un sommario processo, lo fece giustiziare a Napoli il 29 ottobre 1268 nella Piazza del Mercato, mettendo fine al sogno di un duraturo governo svevo nelle amate terre del meridione d'Italia accarezzato già da Federico I Barbarossa, nonno di Federico II.
Il meridione d’Italia dai Normanni-Svevi agli Angioini Sullo sfondo della lotta di Federico II di Svevia con il Papato
Gli anni dell'infanzia e dell'adolescenza, determinanti nella formazione della sua complessa e straordinaria personalità, Federico li trascorse a Palermo, capitale del regno normanno, già sede di un emirato arabo, in cui si erano intrecciate e avevano convissuto razze, religioni e culture diversissime.
Divenuto maggiorenne nel 1209, finalmente libero dalla tutela di papa Innocenzo III, sposò Costanza d'Aragona che gli portò in dote trecento cavalieri, grazie ai quali Federico II riuscì a riaffermare i sui diritti in Germania, sconfiggendo l'usurpatore Ottone IV di Brunswick e ripristinando pace ed ordine attraverso provvedimenti di risanamento e riorganizzazione dello stato.
Rientrato nell'amato Regno di Sicilia, nel marzo 1221 il re visitò per la prima volta la Puglia, terra ricca di boschi, fiumi e testimonianze artistiche; molto amata anche dai suoi discendenti.
Nei successivi trent'anni Federico istutuì con Decreto Imperiale del 5 ottobre 1239 emanato a Milano,la Castra exempta un elenco dei castelli demaniali del Regno di Sicilia che ritenne di gestire direttamente.
Fu avviato un censimento dei castelli e con il decreto Statutum de reparatione castrorum (1231-1240) venne imposta la loro ristrutturazione e manutenzione a carico dei cittadini.
Quasi contemporaneamente, col decreto del 1239, Federico individuava tra gli oltre 250 castelli, una ottantina particolarmente importanti per il controllo del territorio che, pertanto, determinò che dovessero essere definiti demaniali (exempta), ovvero dipendere direttamente dall'imperatore;
Che tuttora imprimono un carattere inconfondibile al paesaggio agrario ed all'assetto urbanistico, costituendo una parte significativa del patrimonio artistico della regione.
Morta Costanza, da cui aveva avuto il figlio Enrico, destinato ad ereditare la corona imperiale,
Federico sposò Jolanda di Brienne, figlia del re di Gerusalemme, che gli diede Corrado, destinato a regnare in Sicilia.
Anche la terza moglie, Isabella d'Inghilterra, morì giovanissima e come Jolanda fu sepolta nella cripta della cattedrale di Andria. Tuttavia la sola donna che probabilmente Federico amò fu Bianca Lancia, che gli diede altri figli, fra cui Manfredi, quello che più somigliava al padre, e che, alla sua morte, cercò disperatamente di ostacolare gli Angiò nella loro mira di conquista del Regno di Sicilia, forti della protezione del pontefice.
Alla corte di Federico venivano coltivate molte discipline ed attività, sia artistiche che scientifiche; fra queste la musica e la poesia e la caccia col falcone, svago preferito da Federico, ma anche occasione di studio della natura, come attesta il trattato da lui redattoDe arte venandi cum avibus, corredato da pregevoli miniature.
Grande spazio veniva dato anche alla cura corporis
in cui l'igiene quotidiana si univa ai precetti della medicina della scuola salernitana.
Augustale d'oro.
Questa moneta, la più nota e studiata, fatta coniare da Federico II, reca l'aquila monocefala circondata dalla scritta: +FRIDERICUS, Aperto ad una ampia gamma di interessi culturali, dalla matematica all'astronomia, dalle scienze naturali alla filosofia, il sovrano nel 1224 istituì a Napoli una scuola di diritto e riorganizzò la Scuola medica salernitana.
Insieme al figlio Enzo raccolse intorno alla Magna Curia di Palermo i poeti della cosiddetta "scuola siciliana", dando origine alla letteratura italiana in volgare, come venne riconosciuto sia da Dante che da Petrarca.
Nei pressi di Andria è presente la costruzione più affascinante voluta dall'imperatore, CASTEL DEL MONTE , dichiarato Patrimonio dell'umanità dall' UNESCO .
Dal punto di vista architettonico il castello è una sintesi tra le tendenze europee e quelle arabo-musulmane con soluzioni innovative,
quali torri sporgenti, feritoie ed elementi anticipatori del gotico La spada fa parte del parato utilizzato nel 1220 per l'incoronazione di Federico II a Roma, e da lui stesso commissionato agli opifici palermitani.
Nel Kunsthistorisches Museum di Vienna sono conservati anche i guanti appartenenti allo stesso corredo.
Alla fine degli anni '40 Federico non solo aveva subito pesanti sconfitte ma cominciava ad avere problemi di salute. Incurante dei disturbi fisici, a novembre del 1250 volle comunque partecipare ad una battuta di caccia nella zona fra Foggia e Lucera; colto da malore, probabilmente un'infezione intestinale dovuta a malattie trascurate, durante un soggiorno in Puglia; secondo Guido Bonatti , invece, fu avvelenato.
Egli, difatti, qualche tempo prima aveva scoperto un complotto, in cui fu coinvolto lo stesso medico di corte.
Il 1° dicembre 1250 fu trasportato a Castel Fiorentino, presso Torremaggiore, dove il 13 dicembre si compì la profezia che gli era stata rivelata anni addietro e che lo aveva indotto ad evitare sempre Firenze: "Tu morrai presso la porta di ferro, in un luogo che porta il nome fiore".
Papa Innocenzo IV, parlando di Federico II, aveva dichiarato: "Guai a lasciare a quest'uomo e alla sua stirpe viperina lo scettro col quale dominava il popolo di Cristo".
Le redini del regno meridionale furono assunte dal figlio Manfredi ma l'appoggio offerto dal pontefice agli Angiò fu determinante nella lotta per il potere e il giovane svevo nel 1266 morì combattendo presso Benevento e Clemente IV incoronò Re di Sicilia Carlo d'Angiò, fratello di Luigi re di Francia.
Due anni dopo un altro discendente appena sedicenne di Federico II di Svevia, Corradino, figlio di Corrado, tentò un'ultima disperata difesa del regno meridionale contro gli angioini ma, sconfitto a Tagliacozzo, fu consegnato a Carlo d'Angiò che, dopo un sommario processo, lo fece giustiziare a Napoli il 29 ottobre 1268 nella Piazza del Mercato, mettendo fine al sogno di un duraturo governo svevo nelle amate terre del meridione d'Italia accarezzato già da Federico I Barbarossa, nonno di Federico II.
Il Colosso di Rodi
Sul Colosso abbiamo meno notizie che su qualsiasi altra delle Sette Meraviglie. Non sappiamo dove sorgesse o quale fosse il suo aspetto; gli studiosi peraltro hanno trovato possibile, e non del tutto inutile, mettere insieme tutte le prove e le testimonianze disponibili, per rispondere in qualche misura a entrambi gli interrogativi. Prima di tutto: il significato della parola Colosso.
Era questa una voce pregreca, originaria dell’Asia occidentale, per indicare una statua, sia pure di modeste dimensioni. In questo senso fu usata dai Dori quando, nel 1000 a. C., si stanziarono nel Dodecanneso e nell’Asia Minore di sudovest. Come tale venne riferita originariamente anche alla statua di Carete dedicata a Elio. Ma dopo la creazione di questo monumento, e la sua inclusione fra le Sette Meraviglie del Mondo Antico, la parola passò a significare soltanto una statua gigantesca.
Sebbene il Colosso sia menzionato circa sedici volte dagli antichi scrittori, solo tre ne parlano a lungo: i loro resoconti però sollevano piú domande di quante siano le risposte che dànno. Si tratta di Strabone, di Plinio il Vecchio e di Filone di Bisanzio. Una quarta fonte è un carme greco, che si ritiene fosse l’iscrizione dedicatoria della statua stessa. Piú recentemente, dal secolo XV in poi, molti hanno scritto qualcosa a proposito del Colosso.
Le varie opinioni sono state mirabilmente riassunte, in un articolo pubblicato nel 1932, dallo studioso francese A. Gabriel, che vi aggiunse qualche sua costruttiva intuizione personale. Dall’articolo di Gabriel in poi ben poco lavoro è stato compiuto in merito: un articolo di Herbert Maryon del 1956 avanzò nuove ipotesi, soprattutto riguardo alla parte tecnica:
ipotesi che, subito in gran parte demolite da Denys Haynes, lo indussero a pubblicare la prima ricostruzione accettabile del vero aspetto del Colosso.
In sostanza, dell’aspetto esteriore della statua sappiamo troppo poco, ma alcuni accenni a questo riguardo, fatti da Plinio e Strabone, meritano di essere citati, anche se molto incompleti.
Plinio, nella sua Naturalis historia, ha scritto: Il piú ammirato di tutti i colossi era quello del Sole che si trovava a Rodi opera di Carete di Lindo, discepolo di Lisippo. Esso era alto 70 cubiti [c. 32 metri]. Questa statua, caduta a terra dopo sessantasei anni a causa di un terremoto, anche se a terra, costituisce tuttavia ugualmente uno spettacolo meraviglioso. Pochi possono abbracciare il suo pollice, e le dita sono piú grandi che molte altre statue tutte intere. Vaste cavità si aprono nelle membra spezzate; all’interno si possono osservare pietre di grande dimensione, del cui peso l’artista si era servito per consolidare il colosso durante la costruzione. Dicono che fu costruito in dodici anni e con una spesa di 300 talenti ricavati dalla vendita del materiale abbandonato dal re Demetrio allorché, stanco del suo prolungarsi, tolse l’assedio a Rodi. Nella stessa città ci sono cento altri colossi piú piccoli di questo, ma tali da rendere famoso qualunque luogo in cui si trovasse anche uno solo di essi. (Plinio, Naturalis historia XXXIV 41 sg).
Strabone, nella sua Geografia, riferisce: La città dei Rodiesi è situata sul promontorio orientale dell’isola, ed è di tanto superiore alle altre città per i suoi porti, le strade, le mura e ogni attrezzatura, che, non sarei in grado di citarne una uguale o tanto meno superiore ad essa. È notevole anche per l’ordine che vi regna e per l’attenta cura agli affari di stato, e in particolare alle questioni navali; grazie a ciò mantenne il predominio sui mari per molto tempo, debellando i pirati e divenendo amica sia dei Romani, sia dei re alleati ai Romani come ai Greci. Perciò, non solo ha conservato la sua autonomia, ma fu anche adorna di molte offerte votive, che per lo piú si trovano nel Dionisio e nel ginnasio, ma anche altrove. Tra le piú importanti di queste vi è anzitutto il Colosso di Elio, che un poeta giambico dice «di 70 cubiti d’altezza, opera di Carete di Lindo». Ora però giace al suolo, abbattuto da un terremoto che gli ha spezzato le ginocchia.
Il popolo rodio, ammonito da un oracolo, non lo rimise in piedi. Questa dunque è la piú importante delle offerte votive; e ad ogni modo è considerato per opinione generale una delle Sette Meraviglie. (Strabone, Geografia XIV 2.5).
Resoconti che ci informano pochissimo sull’aspetto reale del Colosso; ma il buon senso, unito a ciò che gli antichi scrittori dicono, o non dicono, porta alla conclusione che il dio stava ritto in piedi e probabilmente nudo.
Possiamo formulare altre congetture, e dedurre che una statua di 33 metri, per stare in piedi, doveva avere una linea semplice, pressappoco la forma di una colonna, con una sagoma e un atteggiamento non dissimile da quello di un kuros greco del periodo arcaico. Prima di tutto, dobbiamo rifiutare la ricostruzione di Maryon, che ci presentava un uomo nudo in atto di alzare la destra verso il capo; essa è basata su un frammento di bassorilievo marmoreo rinvenuto a Rodi, che in modo molto evidente rappresenta un atleta in atto di posarsi una corona sul capo, e non ha nulla a che vedere con Elio. Sulla base delle testimonianze credibili, Gabriel ha ipotizzato una possibile, anche se non in alcun modo certa, struttura della statua, che consiste in un giovane nudo, rigidamente diritto, con le gambe unite, una torcia in una mano e una lancia nell’altra.
Quanto alla testa del dio, gli studiosi hanno sempre fatto riferimento alle monete di Rodi dell’epoca che raffigurano la testa di Elio.
Molte di esse, circa dello stesso periodo, mostrano il capo circondato dai raggi solari, immagine allora assai comune nelle rappresentazioni di Elio.
Ma su altre monete rodiesi dello stesso periodo si trova la variante di una testa senza raggi: la questione rimane aperta, con una certa propensione – da parte nostra – per la testa raggiata.
L’elemento piú sorprendente dev’essere stato la grandezza della statua, ugualmente impressionante sia dopo la caduta, sia da eretta. La maggior parte delle descrizioni è d’accordo sui 70 cubiti di altezza, anche se una fonte che, nella misura data, forse comprendeva la base, parla invece di 80. La lunghezza del cubito nell’antichità poteva leggermente variare a seconda del luogo o dell’epoca, ma pensiamo di essere nel giusto indicando la statura complessiva del monumento in circa 33 metri.
Statue al disopra dei 10 metri non erano rare allora in Grecia, ma nessuna è citata grande come il Colosso, né prima né dopo la sua comparsa. L’ispirazione derivò forse dall’Egitto, dove si conoscevano enormi statue di pietra fin dai tempi più antichi; e sappiamo Rodi e l’Egitto strettamente legati nel III secolo a. C. Una delle pochissime statue di tale grandezza, al giorno d’oggi, è quella in bronzo della Libertà, nel porto di New York, eseguita dallo scultore francese Frédéric-Auguste Bartholdi, che aveva nella sua mente il Colosso di Rodi. Inaugurata nel 1886 per commemorare le rivoluzioni francese e americana, con i suoi 46 metri è persino piú alta del Colosso.
Per renderci conto del metodo incredibilmente complicato con cui il Colosso fu costruito, dobbiamo ricorrere a Filone di Bisanzio. Come egli sostiene, non vi è dubbio alcuno che fu forgiata a pezzi, e che Herbert Maryon si sbagliava supponendola fatta di lastre di bronzo martellato.
Filone racconta: Steso al di sotto un basamento di marmo bianco, l’artefice vi appoggiò anzitutto i piedi della statua fino ai talloni, concepiti in proporzione alle misure del dio, che doveva sollevarsi fino a 70 cubiti di altezza; e la sola pianta del piede superava di già le altre statue. Infatti non era possibile sovrapporre le altre parti dell’opera trasportandole da altri luoghi; bisognava invece sovrapporre le caviglie e far salire l’intera opera su se stessa, come un edificio in muratura. Per questo, mentre gli artisti modellano le altre statue in un primo tempo, poi fondono le varie membra separatamente e finalmente le compongono tutte insieme, qui alla parte fusa per prima era subito attaccata sopra la seconda, e su questa veniva sistemata la terza dopo la fusione, quindi la successiva, ancora con lo stesso sistema. Infatti non era possibile rimuovere le singole membra metalliche. Avvenuta la fusione sopra le parti precedentemente disposte, si assicuravano gli stacchi degli agganci e le giunture delle graffe, e si garantiva l’equilibrio gettando pietre nell’interno. Per continuare poi su basi salde il piano delle operazioni, al compimento di ciascuna delle sezioni del colosso l’artista accumulava tutt’intorno una massa mostruosa di terra, nascondendovi sotto la parte già finita e fondendo su quella piattaforma le successive.
È evidente che, dato un simile modo di procedere, la statua non poteva avere braccia tese in nessuna direzione, se non forse verso l’alto. Il fatto che Carete fosse allievo di Lisippo ci suggerisce qualcosa sull’aspetto dell’opera, quello che era in uso al tempo in cui la statua fu costruita. Anche se immobile, non poteva avere l’austera e grave fissità di uno degli arcaici kuroi greci. Lisippo si compiaceva di aggiungere un agile senso di moto a un corpo atletico in riposo, e l’Elio di Carete non deve aver fatto eccezione.
Nessuna delle fonti antiche riferisce sulla collocazione esatta del Colosso nella città di Rodi, un’omissione che ha dato luogo a innumerevoli tentativi di situarlo, tentativi tutti scrupolosamente analizzati da Gabriel. Possiamo non tenere in alcun conto la teoria che la statua fosse nel deigma, o bazar, a sudest del porto di Mandraki, poiché tale teoria si basa sull’errata lettura di certi testi antichi. Si è anche asserito che nella città bassa vi era una cappella di San Giovanni al Colosso, eretta sul sito del Colosso stesso; ma Gabriel ha dimostrato non esservi mai stata una cappella in quella parte della città.
La credenza che la statua fosse collocata a cavallo del porto, poi denominato Mandraki, è riportata negli scritti di un pellegrino italiano, un certo De Martoni, che visitò Rodi nel 1394-95. Egli citava una tradizione popolare, secondo la quale la statua poggiava un piede dove, al tempo suo, sorgeva la chiesa di San Nicola (oggi forte San Nicola), all’ingresso orientale del porto, mentre l’altro piede poggiava sul fianco opposto dell’imbocco del porto. Cosa chiaramente impossibile, perché l’apertura delle gambe della statua, come fece osservare Gabriel, avrebbe dovuto superare in tal caso i 400 metri. Eppure quest’idea, insieme all’altra che il Colosso reggesse una torcia a mo’ di faro, ebbe ampia diffusione nel Medioevo, sia in racconti scritti sia su disegni.
Questa credenza può esser anche derivata dalla cattiva interpretazione di un carme tramandato nell’Antologia Palatina. Con ogni probabilità è l’iscrizione dedicatoria del Colosso: Sole, per te gli abitanti di Rodi la dorica, al cielo il colosso levarono di bronzo, quando, sopiti marosi di guerra, di spoglie nemiche fecero per la patria una corona. Ché sulla terra né solo sul mare l’eressero, lume dolce di libertà senza servaggio. Sono Eraclidi di stirpe, non è che un avito retaggio sulla terra e sul pelago l’impero. (Antologia Palatina VI 171).
Forse ispirata a quanto sopra è la supposizione, risalente al XV secolo, che il Colosso si ergesse dove De Martoni aveva collocato il piede destro della statua, e cioè all’imbocco orientale del porto di Mandraki. Qui, al tempo dei Cavalieri, vi erano prima una chiesa, poi un forte (che esiste tuttora), dedicato a San Nicola. Questa è la posizione che Gabriel preferisce, e molti elementi l’appoggiano. Certamente nel forte è incorporato materiale da costruzione antico, e Gabriel ha dimostrato la fondata possibilità che le macerie della statua non siano rotolate nel mare, ma siano rimaste sulla terra. Sappiamo anche che, dopo il Colosso, si diffuse il costume di collocare statue gigantesche all’ingresso dei porti, come quelle di Ostia, il porto di Roma, e di Cesarea in Palestina.
Quest’ultimo è menzionato da Giuseppe Flavio nella sua Guerra Giudaica (I 413):
«La bocca del porto guardava verso nord, [...], e su ciascuno dei due lati si elevavano su colonne tre colossali statue».
Il porto fu costruito da Erode il Grande fra il 22 e il 20 a. C. Rappresentazioni di simili statue appaiono su monete come elemento essenziale nella raffigurazione dei porti. Parecchie di esse, aventi funzione di faro all’ingresso della rada, dovevano essere di proporzioni gigantesche.
Tuttavia vi sono due obiezioni principali alla teoria che la statua stesse all’imbocco del porto. Prima di tutto, sembra improbabile che gli abitanti di Rodi accettassero, dopo la distruzione del Colosso nel 226 a. C., che un’enorme massa di macerie occupasse indefinitamente un tratto di terreno cosí vasto e importante. In secondo luogo, un autore antico ci informa che la statua, nella caduta, causò il crollo di molte case all’intorno, il che non sarebbe potuto accadere se fosse stata sul molo di un porto.
Tutto ciò conduce a un’ipotesi conclusiva, che sembra la piú probabile a chi scrive.
In cima alla Strada dei Cavalieri vi è una vecchia scuola turca, che si sa essere stata costruita nel secolo scorso sul luogo della chiesa conventuale dei Cavalieri, dedicata a San Giovanni al Colosso. La chiesa, iniziata nel 1310, fu disintegrata accidentalmente da un’esplosione di polvere da sparo nel 1856. Prima di attribuire troppo peso alla denominazione data alla chiesa di San Giovanni al Colosso, occorre notare che, per la grande fama della statua, l’aggettivo colossensis («del Colosso») nel Medioevo era applicato all’intera città di Rodi.
Tuttavia, da numerose iscrizioni trovate vicino a questo luogo si ha la certezza quasi assoluta che il tempio di Elio anticamente sorgeva lí o nelle immediate vicinanze. Era pratica comune presso i Greci dedicare offerte votive nei santuari degli dèi, cosí che grandi santuari come quello di Delfi ed Olimpia divennero veri musei di sculture.
Poiché sappiamo che il Colosso era un ex voto per la liberazione della città dall’assedio di Demetrio, esso doveva essere stato elevato nel tempio di Elio. Se è da escludere la localizzazione a San Nicola, la zona della scuola turca ha molti motivi per essere ritenuta la piú probabile e potrebbe premiare le operazioni di scavo. Al momento, intorno alla scuola, si può vedere molto materiale da costruzione antico, ed esso indica forse che la scuola è stata costruita proprio sul quadrato delle primitive fondamenta. Inoltre, vi sono resti delle antiche mura sia subito fuori dai cancelli della scuola, sia nella parte bassa del muro perimetrale di fronte al Palazzo dei Grandi Maestri.
Il terremoto che abbatté il Colosso (e anche molti altri edifici della città di Rodi) avvenne nel 226 a. C. Strabone annota che la statua si spezzò all’altezza delle ginocchia, e che l’offerta di Tolomeo III d’Egitto di pagarne subito il restauro fu declinata dai Rodiesi, ammoniti da un oracolo a non provvedere a ricostruirla. Cosí la statua rimase per circa 900 anni dov’era caduta, e i viandanti potevano vederne i resti nonché la massa di pietra e ferro che un tempo l’aveva sorretta.
Quando gli Arabi, nel 654, saccheggiarono Rodi, trasportarono i pezzi del Colosso attraverso il mare in Asia Minore e li vendettero a un ebreo di Emesa.
La tradizione vuole che questi li portasse in Siria sul dorso di 900 cammelli; e qui finisce la storia del Colosso di Rodi, la meno conosciuta delle Sette Meraviglie.
Linee di Nazca: gli squatters minacciano il sito archeologico
Con il termine "squatters" vengono definiti gruppi di persone, di ispirazione anarchica, intente all'occupazione abusiva di proprietà pubbliche e private, per motivi sostanzialmente politici. Nell'idea degli squatters, l’occupazione e l’autogestione di spazi pubblici sono giustificati dalla necessità di liberare degli spazi dall’influenza delle istituzioni e dei partiti.
Un gruppo di queste persone, però, sta diventando un problema per uno dei siti archeologici più importanti del pianeta: il deserto di Nazca. Gli squatters stanno impiantando allevamenti di maiali proprio nel sito delle linee, i famosi geoglifici giganti incisi misteriosamente nel deserto più di 1500 anni fa.
Secondo le dichiarazioni di Blanca Alva, direttore presso il ministero della cultura del Perù, gli occupanti hanno già distrutto un area cimiteriale antica quanto i geoglifici. Il gruppo di occupanti è arrivato sul sito nell'aprile del 2012, approfittando delle leggi peruviane in materia di occupazione di beni pubblici, intese a proteggere i poveri e i senza terra.
In Perù, gli abusivi che occupano un terreno per più di un giorno, hanno diritto ad un processo giudiziario prima di essere sfrattati, che normalmente viene celebrato due o tre anni dopo la denuncia. "Il problema è che fino ad allora, il sito sarà distrutto", ha detto la dott.ssa Alva. In una recente ispezione del sito, gli archeologi hanno contato già la presenza di 14 allevamenti di suini.
Già nel mese di gennaio del 2012, il ministero della cultura si vide costretto a sfrattare un altro gruppo di abusivi che si era insediato nei pressi del disegno tentacolare conosciuto come "Orologio Solare".
Il territorio sul quale insistono le Linee di Nazca è stato dichiarato patrimonio dell'umanità dall'UNESCO nel 1994.
I giganteschi geoglifici, visibili solo sorvolando la zona ad alta quota, sono stati incisi in un arco di tempo di 1000 anni, su di un'area di 500 km quadrati di deserto costiero. I disegni rappresentano enormi uccelli, scimmie e altre forme geometriche. I geoglifici di Nazca sono è uno dei patrimoni archeologici più importanti ed enigmatici dell'intero pianeta. Essi parlano di un passato precolombiano ricco di storia e di cultura e, nonostante sia oggetto di studio di numerosi ricercatori, la causa della loro realizzazione rimane ancora avvolta nel mistero.
"Le linee sono molto delicate, eppure sono sopravvissute per 1500 anni", spiega Ann Peters, archeologa affiliata con l'Università della Pennsylvania, durante un simposio internazionale sulla cultura Nazca. I Nazcani hanno inciso i geoglifici asportando la parte superiore del suolo del deserto, formato da ciottoli di ossido di ferro, fino a far emergere la parte inferiore bianca, roccia di origine calcarea. Peters ha detto che le occupazioni abusive minacciano la ricerca di circa 60 archeologi specializzati sui geoglifici di Nazca.
Il capo del villaggio squatter, Jesus Arias, nega che la sua comunità abbia danneggiato la zona. "Per noi non è un sito archeologico. Non c'è nessun cimitero lì e non esiste nessuna linea di Nazca o cultura", ha dichiarato Arias. Come lui stesso ha spiegato, gli occupanti sono i figli adulti di persone provenienti dalla vicina città di San Pablo: "La nostra popolazione continua a crescere", continua Arias. "Si tratta di persone povere che non hanno i soldi per comprare un terreno o una casa". Arias ha detto anche che il ministero della cultura dovrebbe fare un lavoro migliore per permettere di identificare le aree protette.
In effetti, il problema in Perù esiste.
L'occupazione è un modo comune per i poveri di acquistare proprietà in Perù. Molto spesso, però, dietro a questi gruppi di disperati, si nascondono dei veri e propri trafficanti di terra sempre più organizzati e potenti.
Secondo Blanca Alva, gli squatters sono la più grande minaccia per gli oltre 13000 siti del patrimonio archeologico del Perù, un tesoro ricco di informazioni per gli studiosi di tutto il mondo. "Riceviamo 120-180 segnalazioni di abusi ogni anno", continua Alva. "Per i miei colleghi che operano nel resto dell'America Latina, e che hanno a che fare con quattro o cinque casi l'anno, questa cifra è incredibile".
Pierangelo Bertoli La strada
Pierangelo Bertoli un cantautore semi sconosciuto
Perchè per far carriera devi salire sul carrozzone e avere sempre il lato B a disposizione
Un artista troppo scomodo per permettergli di avere visibita
Testo
In un mattino tiepido mi siederò in un prato
E tornerò giorno per giorno nel passato
E solcherò le rapide della mia fantasia,
dei giorni di poesia
E sarò consapevole che la mia testa strana sognava un mondo senza figli di puttana
Un mondo senza deboli con esseri pensanti
Padroni della vita, un mondo senza santi
Spenderò attentamente la mia sincerità
Parlerò di rivolta con caparbietà
Seguirò, traccerò un sentiero ovunque sia
Una strada forse buia, forse, ma mia
Supino lungo un argine ricorderò gli amici
E quanto fossimo distanti dai nemici
Per poi trovarci fragili ai trucchi dei bugiardi
Davanti ai disonesti, ai moralisti e ai ladri
Ma poi le cose cambiano e tutto lascia il segno
E impari l'arte del cinismo e del contegno
E credi di essere libero, diverso tra gli eguali
Che il mondo ha un'altra faccia da sotto i tuoi stivali
Spenderò attentamente la mia sincerità
Parlerò di rivolta con caparbietà
Seguirò, traccerò un sentiero ovunque sia
Una strada forse buia, forse, ma mia
Sì, sono stato giovane e privo di esperienza
E ho amato molto la parola intelligenza
Capace di una favola dove una vita vale
In termini di vita e non di capitale
Il tempo non è un giudice, non è nemmeno onesto
È solo un modo per finirla troppo presto
Ognuno vive attimi che cerca di fermare
Con reti di egoismo in un immenso mare
Spenderò attentamente la mia sincerità
Parlerò di rivolta con caparbietà
Seguirò, traccerò un sentiero ovunque sia
Una strada forse buia, forse, ma mia.
Il castello di Herrenchiemsee
Herrenchiemsee è stato costruito da re Ludwig II a partire dal 21 maggio 1878 (posa della prima pietra) in una posizione splendida: il castello sorge infatti in un'isola del lago Chiemsee, la Herreninsel, ed è raggiungibile con un traghetto che parte dal paese di Prien.
La Herreninsel - "isola degli uomini" - è così chiamata perché ospitava un convento dei Canonici Agostiniani e si contrappone alla vicina Fraueninsel - "isola delle donne" - che ospita tuttora una comunità di Monache Benedettine.
La facciata è una copia esatta di quella di Versailles: Herrenchiemsee si presenta come un inno alla potenza ed alla gloria del Re Sole, Luigi XIV di Francia, e Ludwig, da sempre profondo ammiratore di questa mitica figura storica, decise di erigere un castello che fosse l'esatta copia dell'originale francese.
Il grande interesse che nutre Ludwig verso il Re sole e la famiglia reale francese va oltre ad una semplice rimembranza storica o ad una passione-venerazione: Luigi XVI di Francia fu il padrino di battesimo di suo nonno, re Ludwig I di Baviera.
La prematura morte del quarantenne sovrano, avvenuta il 13 giugno 1886 in circostante mai chiarite nel lago di Starnberg, non consentì di portare a compimento il progetto. Oggi Herrenchiemsee è infatti costituito solo dal corpo centrale: l'ala di sinistra, incompiuta, è stata demolita nel 1907 mentre quella di destra non ha mai visto la luce.
La visita nella Versailles bavarese vede tra i primi ambienti lo scalone d'onore. Come modello per Herrenchiemsee, Versailles non corrispondeva sempre all'idea omogenea che Ludwig II aveva della reggia francese e così richiese nuove creazioni nello spirito dello stile dell'Ottocento: la grande scala ricostruisce, sulla base di incisioni contemporanee, la scala degli ambasciatori di Versailles ma ha un'impronta tutta diversa a causa del moderno tetto di vetro.
La sala della guardia è la prima delle sale di parata. Ricca di raffinati stucchi d'oro e preziosi marmi, è adornata dalle alabarde della guardia reale, la cosiddetta Hartschiere. Nei rivestimenti in legno bianco e oro della prima anticamera sono inseriti dei quadri con scene del tempo di Luigi XIV mentre nel grande affresco del soffitto è raffigurato il trionfo di Bacco e Cerere. Il magnifico armadio con applicazioni in bronzo dorato è lavorato con la tecnica del Boulle.
La seconda anticamera ha finestre in forma ogivale come il "Salon de L'Oeil de Boeuf" di Versailles. I quadri al muro rappresentano Luigi XIV e membri della sua famiglia; la grande statua equestre rappresenta sempre il "Re sole".
Nel cerimoniale di corte la camera da letto di parata era il luogo dell'udienza serale e del mattino: non una semplice camera per dormire e riposare ma addirittura il centro focale del castello.
Quella di Herrenchiemsee è qualcosa di straordinario: stucchi, arredi e tessuti sono di una ricchezza che è difficile descrivere a parole.
La galleria degli specchi, con i suoi 98 metri di lunghezza (quella di Versailles si ferma a 73 metri), 52 candelabri e 33 lampadari, è il gioiello del castello; qualche critico d'arte la ritiene superiore all'originale. La sala da pranzo in forma ogivale, disegnata sul modello di un salone dell'Hotel de Soubise di Parigi, è arredato con i busti di Luigi XV, della duchessa di Lavalliere e delle grandi dame di corte come la contessa Dubarry e la marchesa de Pompadour. Sotto un gigantesco lampadario di porcellana di Meissen c'è un curioso tavolo, il "Tischlein-deck-dich" (tavolo che si apparecchia da sé), direttamente collegato con le sottostanti cucine attraverso uno speciale marchingegno creato per evitare che il re venisse disturbato dai camerieri mentre mangiava.
In alcuni locali del palazzo è allestito il museo di Re Ludwig II, con fotografie, dipinti, lettere, oggetti e arredi originali, molti dei quali provenienti dalla Residenza di Monaco dove il sovrano visse durante i primi anni di regno prima di trasferirsi definitivamente nei suoi castelli.
E' l'unico museo al mondo dedicato al "re delle favole", nemmeno Neuschwanstein ne ha uno.
Scoperta nei dintorni di Vienna un'imponente scuola per gladiatori
Gli archeologi al lavoro nei dintorni di Vienna, in Austria, hanno individuato i resti di un'imponente scuola gladiatoria di epoca romana. Si tratta di un complesso così esteso da rivaleggiare con quelli che sorgevano attorno al Colosseo a Roma. Nell'immagine una ricostruzione digitale del grande complesso rinvenuto vicino Vienna.
Il complesso presenta elementi mai riscontrati prima in una scuola gladiatoria romana (ludus), come resti di un manichino di legno utilizzato negli allenamenti. Inoltre, fuori al perimetro della struttura, gli archeologi hanno individuato quello che forse è il primo cimitero per gladiatori vicino a una scuola.
Il complesso "è decisamente enorme", dice Franz Humer, direttore scientifico del Parco archeologico di Carnunto, nei pressi del Danubio, in cui è stata effettuata la scoperta, "una delle cose più interessanti che mi siano capitate durante la mia carriera”.
La scuola probabilmente fu costruita contemporaneamente al vicino anfiteatro da 13.000 posti eretto attorno al 150 d.C., durante il regno dell'imperatore romano Marco Aurelio, e riportato alla luce negli anni Venti e Trenta del Novecento.
Si sa che che l'imperatore trascorse del tempo a Carnunto, ed è possibile che suo figlio Commodo (la cui passione per i giochi gladiatori è stata anche fonte d'ispirazione per il film del 2000 Il gladiatore) abbia assistito per la prima volta a un combattimento proprio in questo centro di origine celtica. "È possibile che abbia iniziato ad appassionarsi ai combattimenti a Carnunto”, dice Humer. "Non possiamo provarlo… ma in base alla cronologia, è possibile".
Gli archeologi hanno individuato il complesso grazie al rilevamento di un radar montato su un trattore che permette una visualizzazione tridimensionale degli oggetti sepolti. È stato così possibile scoprire, disposte attorno a un cortile centrale, una serie di strutture sotterranee che vanno dalle piccole stanze del dormitorio fino a una grande sala dal pavimento riscaldato, come suggeriscono le zone vuote sottostanti.
All'interno del cortile sorgeva un mini-anfiteatro, completo di gradinate, in cui i gladiatori potevano allenarsi o forse, essendo nella maggior parte dei casi schiavi, esibirsi per eventuali compratori, ipotizza Humer.
Nei pressi del complesso sorgeva un'area murata che può essere stata utilizzata per ospitare le belve utilizzate nei combattimenti o i cavalli - anche questa una struttura mai trovata prima in una scuola, sottolinea Humer.
L'intero complesso occupava un'area di 19.000 metri quadri, pari a un centro commerciale di medie dimensioni. Gli edifici centrali della scuola gladiatoria di Carnunto, comunque, somigliano molto ai loro omologhi di Roma e Pompei, il che costituisce una ulteriore conferma per gli archeologi che quella trovata a Carnunto sia effettivamente una scuola, anche se non è ancora stata riportata alla luce.
Gli scavi al cimitero e nelle altre strutture potrebbero fornire nuovi elementi alle attuali conoscenze sulla vita quotidiana dei gladiatori, commenta l'archeologo Ian Haynes della Newcastle University. Ad esempio, sui resti ossei rinvenuti in un cimitero di gladiatori in Turchia è stato possibile rilevare segni dei traumi subiti nei combattimenti.
Ma anche se il complesso non venisse mai scavato, dice Haynes, "esso rimarrebbe un'importante testimonianza di come le culture dei centri urbani dell'impero fossero collegate assieme”.
"Quel che è stato scoperto sulle rive del Danubio regge il confronto con i ritrovamenti effettuati nel cuore della stessa Roma... Il che ci porta a concludere che città come Carnunto ospitavano moltissimi aspetti della cultura cosmopolita romana".
Fonte:National Geographic
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