martedì 7 gennaio 2014
Il “nón lá” vietnamita
È un simbolo quasi patriottico: il copricapo nazionale di una terra di riso e acqua. Un capolavoro semplice, efficiente, leggero ed elegante.
Semplice perché composto da poche foglie secche di palma latania (Latania lontaroides) unite tra loro su un cerchio di base.
Efficiente perché protegge dal sole e dalla pioggia (è impermeabile). Ciò spiega il suo successo in tutte le risaie del paese!
Leggero perché naturale.
Elegante, e aggiungiamo poetico, perché talvolta porta alcuni versi disegnati in filigrana.
Attraverso i secoli, il “nón lá”, è rimasto un oggetto della quotidianità delle donne vietnamite.
Il nón lá è rappresentato spesso su oggetti molto antichi come i tamburi di bronzo Ngoc Lu e i vasi di bronzo di Dao Thinh, datati da 2.500 a 3.000 anni fa.
Con il passare del tempo, non vi sono stati molti cambiamenti nello stile e nei materiali.
Originariamente, il nón lá era tessuto e intrecciato. Solo nel 3° secolo a.C. quando si cominciò ad utilizzare il ferro, che si iniziò ad utilizzare gli aghi per cucire le foglie del nón lá.
I materiali per la produzione sono tra i più semplici, il principale dei quali è dato dalle foglie e dalle fibre della palma Moc (questultimo è ora sostituito dal filo di nylon). Il telaio è di bambù.
Inizialmente, gli artigiani devono trattare le foglie mettendole di piatto su una piastra di ferro caldo pressandole ad una temperatura specifica, facendo in modo da non bruciarle. Un riscaldamento insufficiente, non permetterà però di raggiungere l’adeguata forma piatta alle foglie. Le foglie sono poi affumicate con lo zolfo sfumando così al bianco e diventando resistenti alla muffa. I bambù sono tagliati in senso longitudinale e vengono utilizzati per costruire i telai. Vengono poi affumicati per resistere alle termiti e ad altri insetti nocivi per il legno.
Vi sono molti villaggi specializzati nella produzione dei cappelli a cono, tra cui Chuông, nel distretto di Thanh Oai 30 km dal centro di Hanoi famosa per i suoi prodotti di qualità.
La struttura del nón lá, è composta da 16 cerchi di bambù. Il loro numero è rimasto invariato per molto tempo. La loro bellezza dipende molto dalla bravura degli artigiani.
Esistono molti tipi di nón lá, come il nón thung rông vành (canestro a forma di cappello a cono), il nón ba tâm (cappello a forma piatta con frange). Alle volte uno specchio è situato all'interno del nón lá. Sotto le foglie bianche quasi trasparenti, come in filigrana, si può intravedere una poesia popolare, o l'immagine di un tempio. Questo tipo di nón lá è conosciuto come Bài tho.
Il nón lá si abbina perfettamente con la tunica tradizionale chiamata Áo dài.
Le vietnamite indossando questo copricapo diventano più morbide, eleganti e sensibili. Viene indossato sia per andare a lavorare nei campi, che al mercato o per partecipare alle feste. Negli spettacoli, la danza con i cappelli a cono ed il vestito tradizionale Áo dài, esalta la morbidezza, la femminilità e la grazia delle donne vietnamita.
Tutte le vietnamite sentono un forte attaccamento al nón lá emblema della propria cultura.
La cascata di Hukou sul Fiume Giallo
Il famoso motivo intitolato "Ode al Fiume Giallo (DAL CONCERTO DEL FIUME GIALLO PER PIANOFORTE E ORCHESTRA DI XIAN XINGHAI), descrive il profondo amore popolare verso il Fiume Giallo, il fiume madre della nazione cinese.
L'impetuoso corso d'acqua ha nutrito centinaia di milioni di cinesi e concepito i 5000 anni di storia del paese, facendosi vettore delle aspirazioni e speranze per il futuro della nazione cinese.
Il Fiume Giallo nasce dal Monte Bayankela, nella provincia del Qinghai, Cina nord-occidentale, e percorre l'altopiano del Loess creando una grande curva, sfociando infine ad est nel mare.
Scorrendo nei pressi del distretto di Jixian, nella provincia dello Shanxi, il letto del fiume presenta una faglia con un dislivello di oltre 30 metri, che ha originato la famosa cascata di Hukou.
In cinese Hukou significa Bocca della teiera, la cascata si chiama così perché la sua forma è simile alla bocca di una teiera. Qui l'ampiezza del letto del fiume si riduce all'improvviso da oltre 300 a 50 metri, il corso d'acqua si restringe, precipitando repentinamente dall'alto per 30 metri.
La stupenda cascata di Hukou costituisce la seconda maggiore cascata della Cina, subito dopo quella di Huangguoshu, nella provincia del Guizhou, Cina sud-occidentale. Si tratta anche di un sito paesaggistico di livello nazionale, dove si può ammirare un paesaggio naturale molto particolare
Ancora lontani dalla cascata, si ode chiaramente il rombo delle sue acque. Guardando in lontananza, emerge una nebbiolina mobile bianco- giallina, per cui non ci si può trattenere dal pensare di esclamare: "Sono a Hukou, ho visto il Fiume Giallo!!!".
La cascata di Hukou presenta caratteristiche diverse in ogni stagione. In primavera il ghiaccio comincia a sciogliersi e gli enormi ghiaccioli precipitano come frane, come se cielo e terra si aprissero, col rombo del tuono; d'estate e d' autunno le abbondanti precipitazioni rendono il fiume molto impetuoso, la cascata diventa ampia 100 metri e le acque coprono una decina di kmq, una scena davvero stupenda! D'inverno il fiume gela e la cascata si riempie di ghiaccioli, quasi indossasse un abito d'argento, molto affascinante...
Il Fiume Giallo è lungo 5464 km ed attraversa da ovest ad est il territorio cinese. Ma perchè si è formata proprio qui una cascata così grandiosa e particolare?
Quanto alla sua origine, esiste una leggenda sulla lotta di Da Yu contro le inondazioni. In merito la guida racconta :
"Secondo la leggenda, la cascata di Hukou sarebbe stata scavata al tempo in cui Da Yu era impegnato nella lotta contro le inondazioni, per permettere il libero scorrimento dell'acqua. Ciò corrisponde al modo di dire che Da Yu ha domato le piene incanalando l'acqua. Ora nella parte inferiore della cascata si erge una statua di Da Yu, per ricordare il suo contributo al controllo delle inondazioni."
Presso Hukou, oltre alla stupenda cascata, si possono anche ammirare le intense usanze e costumi del nord-ovest cinese.
Qui potete incontrare uomini con asciugamani bianchi avvolti intorno al capo e una cintura rossa in vita, che suonano la Suona, la tromba cinese, e anziani che percuotono i tamburi legati alla cintura tipici della regione.
Alle due estremità della cascata si trovano le province dello Shaanxi e dello Shanxi, tra cui sin dall'antichità esistono rapporti molto stretti. Secondo quanto illustrato dalla guida, d'inverno quando il fiume si ghiaccia qui si forma un ponte di ghiaccio che collega le due province. Allora i ragazzi dello Shanxi superano il ponte per incontrare le ragazze all'altra riva, da ciò è nato il famoso detto popolare "l'amore fra Qin e Jin", dove "Qin" è l'abbreviazione dello Shaanxi, e "Jin" dello Shanxi. Oggi l'espressione "l'amore fra Qin e Jin" è usata per indicare il matrimonio.
Il sito turistico della cascata di Hukou è stato costituito nel 1970 e nel 2001 è diventato Parco geologico nazionale. La cascata, con il suo particolare, straordinario paesaggio, ha apportato notevoli entrate all'economia turistica delle province dello Shaanxi e dello Shanxi. Infatti quasi tutti i turisti che raggiungono le due province vanno di sicuro ad ammirare la cascata, una delle meraviglie del Fiume Giallo.
Fonte : http://italian.cri.cn/
L'analfabetismo funzionale
Con il termine analfabetismo funzionale s'intende l'incapacità di un individuo ad usare efficientemente le sue abilità nella lettura, scrittura e calcolo nella vita quotidiana.
I paesi dove l'analfabetismo funzionale è minore, vi sono livelli di benessere più alti, una economia più produttiva e una maggior tecnologia.
Sarà un caso????
I paesi dove l'analfabetismo funzionale è minore, vi sono livelli di benessere più alti, una economia più produttiva e una maggior tecnologia.
Sarà un caso????
La mantide religiosa (Mantis religiosa Linnaeus, 1758)
Il nome del genere deriva dal greco "Mantis", cioè profeta, indovino, e fa riferimento alla postura delle zampe anteriori che ricorda un atteggiamento di preghiera.
Le neanidi della mantide in natura nascono in maggio/giugno, per diventare adulte nel mese di agosto.
Le uova vengono deposte in ovoteche, prodotte dalla femmina, durante la stagione fredda.
Ogni ovoteca contiene in media 60-70 uova e può arrivare fino a 200.
L'accoppiamento delle mantidi è caratterizzato da cannibalismo post-nuziale: la femmina, dopo essersi accoppiata, o anche durante l'atto, divora il maschio partendo dalla testa mentre gli organi genitali proseguono nell'accoppiamento.
Questo comportamento è dovuto al bisogno di proteine, necessarie ad una rapida produzione di uova; prova ne è che la femmina d'allevamento, essendo ben nutrita, sovente "risparmia" il maschio. Si nutrono di mosche, grilli e altri piccoli insetti.
Sanno camuffarsi facilmente tra le foglie, dove aspettano immobili le loro prede.
Per difendersi dagli attacchi di insetti antagonisti la mantide apre di scatto le proprie ali per sembrare più grande.
Le neanidi della mantide in natura nascono in maggio/giugno, per diventare adulte nel mese di agosto.
Le uova vengono deposte in ovoteche, prodotte dalla femmina, durante la stagione fredda.
Ogni ovoteca contiene in media 60-70 uova e può arrivare fino a 200.
L'accoppiamento delle mantidi è caratterizzato da cannibalismo post-nuziale: la femmina, dopo essersi accoppiata, o anche durante l'atto, divora il maschio partendo dalla testa mentre gli organi genitali proseguono nell'accoppiamento.
Questo comportamento è dovuto al bisogno di proteine, necessarie ad una rapida produzione di uova; prova ne è che la femmina d'allevamento, essendo ben nutrita, sovente "risparmia" il maschio. Si nutrono di mosche, grilli e altri piccoli insetti.
Sanno camuffarsi facilmente tra le foglie, dove aspettano immobili le loro prede.
Per difendersi dagli attacchi di insetti antagonisti la mantide apre di scatto le proprie ali per sembrare più grande.
SUCCEDE SOLO IN ITALIA:
Pane e latte tassati 10 volte più del gioco d’azzardo (ma sapete, le lobby del pane e del latte non sono abbastanza ricche per “ricompensare” adeguatamente i nostri politici)
A far notare questo piccolo dettaglio è Simone Feder, che sottolinea come beni di prima necessità, come il pane o il latte, raggiungano tassazioni del 4% e del 8,4%, contro lo 0,6% del gioco online.
Da una parte si grida allo scandalo e si parla a voce forte di lotta al gioco d’azzardo, dall’altro si votano in sordina emendamenti dell’ultimo minuto che in realtà lo favoriscono.
Guardando meglio, poi, si osserva qualcosa di ancora più curioso: il gioco online, se paragonato ad altro, è praticamente esentasse.
Se prendiamo ad esempio due beni di prima necessità come il pane e il latte, scopriamo poi che la differenza è addirittura abissale:
il pane infatti è tassato al 4%, mentre il latte al 8,4%.
Il gioco d’azzardo online? 0,6%.
Ovviamente, in Italia.
A far notare questa piccola differenza è Simone Feder, psicologo e coordinatore dell’Area Giovani e Dipendenze della Casa del Giovane di Pavia.
Assurdo, se si pensa che poi vengono spesi soldi pubblici, raccolti proprio attraverso le tasse, per realizzare pubblicità contro quella che è una vera e propria malattia in grado di rovinare intere famiglie.
Ma si sia, l’Italia è la culla dei paradossi, e per mantenere alta la reputazione è diventata, per l’appunto, uno dei Paesi che più favorisce la diffusione della dipendenza da gioco d’azzardo.
“Ora stiamo geolocalizzando tutte le macchinette di Pavia” spiega Feder, il quale è uno dei massimi promotori del “Movimento No Slot” che ha dato vita a una campagna di sensibilizzazione direttamente nei bar, “la battaglia deve esser vinta sul piano culturale.
I gestori dei bar possono mettere sulla loro vetrina un adesivo che indica che nel loro esercizio commerciale non ci sono Slot o Video Lottery.
Bisogna scegliere di andare a bere il caffè in questi locali”. Strano ma vero, per combattere il gioco d’azzardo tocca ai semplici consumatori intervenire, boicottando dal basso una pratica che sembra sempre più favorita dal legislatore nostrano per motivazioni che, apparentemente, trascendono una logica sociale.
A far notare questo piccolo dettaglio è Simone Feder, che sottolinea come beni di prima necessità, come il pane o il latte, raggiungano tassazioni del 4% e del 8,4%, contro lo 0,6% del gioco online.
Da una parte si grida allo scandalo e si parla a voce forte di lotta al gioco d’azzardo, dall’altro si votano in sordina emendamenti dell’ultimo minuto che in realtà lo favoriscono.
Guardando meglio, poi, si osserva qualcosa di ancora più curioso: il gioco online, se paragonato ad altro, è praticamente esentasse.
Se prendiamo ad esempio due beni di prima necessità come il pane e il latte, scopriamo poi che la differenza è addirittura abissale:
il pane infatti è tassato al 4%, mentre il latte al 8,4%.
Il gioco d’azzardo online? 0,6%.
Ovviamente, in Italia.
A far notare questa piccola differenza è Simone Feder, psicologo e coordinatore dell’Area Giovani e Dipendenze della Casa del Giovane di Pavia.
Assurdo, se si pensa che poi vengono spesi soldi pubblici, raccolti proprio attraverso le tasse, per realizzare pubblicità contro quella che è una vera e propria malattia in grado di rovinare intere famiglie.
Ma si sia, l’Italia è la culla dei paradossi, e per mantenere alta la reputazione è diventata, per l’appunto, uno dei Paesi che più favorisce la diffusione della dipendenza da gioco d’azzardo.
“Ora stiamo geolocalizzando tutte le macchinette di Pavia” spiega Feder, il quale è uno dei massimi promotori del “Movimento No Slot” che ha dato vita a una campagna di sensibilizzazione direttamente nei bar, “la battaglia deve esser vinta sul piano culturale.
I gestori dei bar possono mettere sulla loro vetrina un adesivo che indica che nel loro esercizio commerciale non ci sono Slot o Video Lottery.
Bisogna scegliere di andare a bere il caffè in questi locali”. Strano ma vero, per combattere il gioco d’azzardo tocca ai semplici consumatori intervenire, boicottando dal basso una pratica che sembra sempre più favorita dal legislatore nostrano per motivazioni che, apparentemente, trascendono una logica sociale.
Tashirojima, l’isola dei gatti
Tashirojima non è altro che una piccola isola rurale, a largo della città di Ishinomaki nella prefettura di Miyagi.
Informalmente è conosciuta come “Cat Island”, perché abitata da diverse centinaia di gatti che vengono curati e venerati dalla popolazione dell’isola.
Un vero paradiso per i gatti, in cui è vietato l’ingresso ai cani e diversi momumenti sono dedicati in loro onore.
Inizialmente i gatti furoni portati sull’isola per cacciare i topi dagli allevamenti di bachi da seta, e da allora, la loro popolazione è aumentata a tal punto che sono più numerosi degli umani per una media di 4-1.
La pesca è stata per secoli una delle principali risorse di Tashirojima, e i pescatori che lavoravano sull’isola si sono sempre presi cura dei gatti semi-selvatici, perché ritenevano che gli avrebbero portato fortuna nelle loro uscite in mare. In cambio nutrivano i gatti con il pesce, convinti che tutto questo gli avrebbe garantito prosperità e ricchezza.
Seguendo questa tradizione, hanno costruito diversi santuari dedicati proprio ai questi felini. Quello più popolare è il “Neko-jinja”, che secondo la leggenda fu costruito da un pescatore addolorato per aver accidentalmente ucciso un randagio mentre raccoglieva delle pietre.
Sono diventati una vera e propria attrazione turistica, a seguito di un documentario girato sull’isola. Il documentario ha inoltre dato molto risalto a un maschio bianco e nero con un orecchio un po cadente. Questo gatto è diventato una celebrità locale ed è stato soprannominato con il nome “ Jack the Lop Ear”.
I gatti di Tashirojima si trovano principalmente nella zona del porto di Nitoda, sul lato sud-est dell’isola. Vagano limberamente per le strade e sembrano godere dell’attenzione che ricevono dai turisti che li fotografano e giocano con loro.
La popolazione felina ha ispirato anche una grande varietà di gadegt che sono venduti ai turisti come souvenir.
Coloro che prevedono di passare una notte sull’isola, possono soggiornare presso il Lodge progettato dal famoso artista di fumetti manga Shotaro Ishinomori. Questo dispone di diversi cottage a forma di gatto, ognuno con camera da letto, cucina e bagno e arredati con dipinti e altri oggetti a tema.
Tutto quello che non ha fatto la politica del «noi faremo»
Il punto su questo 2013 appena passato.
Editoriale pubblicato dal Corriere della Sera.
di Milena Gabbanelli
A fine anno, nella vita come in tv, si replica.
Il Capo dello Stato fa il suo discorso, quello del Governo ricicla le dichiarazioni di 6 mesi fa in occasione del decreto del fare, con l’enfasi di un brindisi:
«Faremo».
Vorremmo un governo che a fine anno dica «abbiamo fatto» senza dover essere smentito.
Il Ministro Lupi fa l’elenco della spesa:
10 miliardi per i cantieri, «saranno realizzate cose come piazze, tutto ciò di cui c’è un bisogno primario».
C’è un bisogno primario di piazze e di rotatorie?
«Trecentoventi milioni per la Salerno-Reggio Calabria».
Ancora fondi per la Salerno Reggio-Calabria?
Fondi per l’allacciamento wi-fi. Ma non erano già nel piano dell’Agenda Digitale?
E poi la notizia numero uno: «Le tasse sono diminuite». Vorrei sapere dal premier Letta per chi sono diminuite, perché le mie sono aumentate, e anche quelle di tutte le persone che conosco o che a me si rivolgono.
È aumentata la bolletta elettrica, l’Iva, l’Irpef, la Tares.
L’acconto da versare a fine anno è arrivato al 102% delle imposte pagate nel 2012, quando nel 2013 tutti hanno guadagnato meno rispetto all’anno prima.
Certo l’anno prossimo si andrà a credito, ma intanto magari chiudi o licenzi.
E tu Stato, quando questi soldi li dovrai restituire dove li trovi? Farai una manovra che andrà a penalizzare qualcuno.
I debiti della pubblica amministrazione con le imprese ammontano a 91 miliardi.
A giugno il Governo dichiara: «Stanziati 16 miliardi».
È un falso, perché quei 16 miliardi sono un prestito fatto da Cassa Depositi e Prestiti agli enti locali.
E per rimborsare questo mutuo, i comuni, le province e regioni hanno aumentato le imposte.
L’Assessore al Bilancio della Regione Piemonte in un’intervista a Report ha detto: «Per non caricare il pagamento dei debiti sui cittadini, si doveva tagliare sul corpo centrale delle spese del Governo, e se non si raggiungeva la cifra… non so.. vendo la Rai!». Privatizzare la Rai è un tema ricorrente.
Nessun paese europeo pensa di vendersi il servizio pubblico perché è un cardine della democrazia non sacrificabile.
In nessun paese europeo però ci sono 25 sedi locali: Potenza, Perugia, Catanzaro, Ancona. In Sicilia ce ne sono addirittura due, a Palermo e a Catania, ma anche in Veneto c’è una sede a Venezia e una a Verona, in Trentino Alto Adige una a Trento e una a Bolzano. La Rai di Genova sta dentro ad un grattacielo di 12 piani…ma ne occupano a malapena 3.
A Cagliari invece l’edificio è fatiscente con problemi di incolumità per i dipendenti.
Poi ci sono i Centri di Produzione che non producono nulla, come quelli di Palermo e Firenze. A cosa servono 25 sedi?
A produrre tre tg regionali al giorno, con prevalenza di servizi sulle sagre, assessori che inaugurano mostre, qualche fatto di cronaca. L’edizione di mezzanotte, che è una ribattuta, costa 4 milioni l’anno solo di personale.
Perché non cominciare a razionalizzare?
Se informazione locale deve essere, facciamola sul serio, con piccoli nuclei, utilizzando agili collaboratori sul posto in caso di eventi o calamità, e in sinergia con Rai news 24.
Non si farà fatica, con tutte le scuole di giornalismo che sfornano ogni anno qualche centinaio di giornalisti! Vogliamo cominciare da lì nel 2014?
O ci dobbiamo attendere presidenti di Regione che si imbavagliano davanti a Viale Mazzini per chiedere la testa del direttore di turno che ha avuto la malaugurata idea di fare il suo mestiere?
È probabile, visto che la maggior parte di quelle 25 sedi serve a garantire un microfono aperto ai politici locali.
Le Regioni moltiplicano per 21 le attività che possono essere fatte da un unico organismo.
Prendiamo un esempio cruciale: il turismo.
Ogni regione ha il suo ente, la sua sede, il suo organico, il suo budget, le sue consulenze, e ognuno si fa la sua campagna pubblicitaria.
La Basilicata si fa il suo stand per sponsorizzare Metaponto a Shangai.
Ognuno pensa a sé, alla sua clientela (non turistica, sia chiaro) da foraggiare.
E alla fine l’Italia, all’estero, come offerta turistica, non esiste.
Dal mio modesto osservatorio che da 16 anni verifica e approfondisce le ricadute di leggi approvate e decreti mai emanati che mettono in difficoltà cittadini e imprese, mi permetto di fare un elenco di fatti che mi auguro, a fine 2014, vengano definitivamente risolti.
Punto 1.
Ridefinizione del concetto di flessibilità.
Chi legifera dentro al palazzo forse non conosce il muro contro cui va a sbattere chi vorrebbe dare lavoro, e chi lo cerca.
Un datore di lavoro (che sia impresa o libero professionista) se utilizza un collaboratore per più di 1 mese l’anno, lo deve assumere. Essendo troppo oneroso preferisce cambiare spesso collaboratore.
Il precario, a sua volta, se offre una prestazione che supera i 5000 euro per lo stesso datore di lavoro, non può fare la prestazione occasionale, ma deve aprire la partita Iva, che pur essendo nel regime dei minimi lo costringe comunque al versamento degli acconti; inoltre deve rivolgersi ad un commercialista per la dichiarazione dei redditi, perché la norma è di tre righe, ma per dirti come interpretare quelle tre righe, ci sono delle circolari ministeriali di 30 pagine, che cambiano continuamente.
Il principio di spingere le persone a mettersi in proprio è buono, ma poi le regole vengono rimpinzate di lacci e alla fine la partita Iva diventa poco utilizzabile.
Perché non alzare il tetto della «prestazione occasionale» fino a quando il precario non ha definito il proprio percorso professionale? Il mondo del lavoro non è fatto solo da imprese che sfruttano, ma da migliaia di micropossibilità che vengono annientate da una visione che conosce solo la logica del posto fisso.
Si dirà: «Ma se non metti dei paletti ci troveremo un mondo di precari a cui nessuno versa i contributi».
Allora cominci lo Stato ad interrompere il blocco delle assunzioni e smetta di esternalizzare!
Oggi alle scuole servono 11.000 bidelli che costerebbero 300 milioni l’anno.
Lo Stato invece preferisce dare questi 300 milioni ad alcune imprese, che ricavano i loro margini abbassando gli stipendi (600 euro al mese) e di conseguenza i contributi.
Che pensione avranno questi bidelli?
In compenso lo Stato non ha risparmiato nulla…però obbliga un libero professionista o una piccola impresa ad assumere un collaboratore che gli serve solo qualche mese l’anno.
Il risultato è un incremento della piaga che si voleva combattere: il lavoro nero.
Punto 2.
Giustizia. Mentre aspettiamo di vedere l’annunciata legge che archivia i reati minori (chi falsifica il biglietto dell’autobus si prenderà una multa senza fare 3 gradi di giudizio), occorrerebbe cancellare i processi agli irreperibili.
Oggi chi è beccato a vendere borse false per strada viene denunciato; però l’immigrato spesso non ha fissa dimora, e diventa impossibile notificare gli atti, ma il processo va avanti lo stesso, con l’avvocato d’ufficio, pagato dallo Stato, il quale ha tutto l’interesse a ricorrere in caso di condanna.
Una macchina costosissima che riguarda circa il 30% delle sentenze dei tribunali monocratici, per condannare un soggetto che «non c’è».
Se poi un giorno lo trovi, poiché la legge europea prevede il suo diritto a difendersi, si ricomincia da capo.
Perché non fare come fan tutti, ovvero sospendere il processo fino a quando non trovi l’irreperibile?
Siamo anche l’unico paese al mondo ad aver introdotto il reato di clandestinità: una volta accertato che tizio è clandestino, anziché imbarcarlo subito su una nave verso il suo paese, prima gli facciamo il processo e poi lo espelliamo.
Una presa in giro utile a far credere alla popolazione, che paga il conto, che «noi ce l’abbiamo duro».
Punto 3.
L’autorità che vigila sui mercati e sul risparmio. Dal 15 dicembre, scaduto il mandato del commissario Pezzinga, la Consob è composta da soli due componenti. La nomina del terzo commissario compete al Presidente del Consiglio sentito il Ministro dell’Economia ed avviene con decreto del Presidente della Repubblica.
Nella migliore delle ipotesi ci vorranno un paio di mesi di burocrazia una volta che si sono messi d’accordo sul nome.
Ad oggi l’iter non è ancora stato avviato e l’Autorità non assolve il suo ruolo indipendente proprio quando si deve occupare di dossier strategici per il futuro economico-finanziario del Paese come MPS, Unipol-Fonsai e Telecom.
Di fatto Vegas può decidere come vigilare sui mercati finanziari e sul risparmio, direttamente da casa, magari dopo essersi consultato con Tremonti (che lo aveva a suo tempo indicato), visto che il voto del Presidente vale doppio in caso di parità, e i Commissari hanno facoltà di astensione.
Perché il Governo non si è posto il problema qualche mese fa, e perché non si è ancora fatto carico di una nomina autorevole, indipendente e in grado di riportare al rispetto delle regole?
Punto 4.
Ilva. È alla firma del Capo dello Stato il decreto «terra dei fuochi», dentro ci hanno messo un articolo che autorizza l’ottantenne Commissario Bondi a farsi dare i circa 2 miliardi dei Riva sequestrati dalla procura di Milano.
Ottimo! Peccato che non sia specificato che quei soldi devono essere investiti nella bonifica.
Inoltre Bondi è inadempiente, ma il decreto gli da una proroga di altri 3 anni, e se poi non sarà riuscito a risanare, non è prevista nessuna sanzione.
Nel frattempo che ne è del diritto non prorogabile della popolazione a non respirare diossina?
Ovunque, di fronte ad un disastro ambientale, si sequestra, si bonifica e i responsabili pagano.
Per il nostro governo si può morire ancora un po’.
Come contribuente e come cittadina non mi interessa un governo di giovani quarantenni.
Pretendo di essere governata da persone competenti e responsabili, che blaterino meno e ci tirino fuori dai guai.
Pretendo che l’età della pensione valga per tutti, che il rinnovo degli incarichi operativi non sia più uno orrendo scambio di poltrone fra la solita compagnia di giro.
Pretendo di essere governata da una classe politica che non insegna ai nostri figli che impegnarsi a dare il meglio è inutile.
Editoriale pubblicato dal Corriere della Sera.
di Milena Gabbanelli
A fine anno, nella vita come in tv, si replica.
Il Capo dello Stato fa il suo discorso, quello del Governo ricicla le dichiarazioni di 6 mesi fa in occasione del decreto del fare, con l’enfasi di un brindisi:
«Faremo».
Vorremmo un governo che a fine anno dica «abbiamo fatto» senza dover essere smentito.
Il Ministro Lupi fa l’elenco della spesa:
10 miliardi per i cantieri, «saranno realizzate cose come piazze, tutto ciò di cui c’è un bisogno primario».
C’è un bisogno primario di piazze e di rotatorie?
«Trecentoventi milioni per la Salerno-Reggio Calabria».
Ancora fondi per la Salerno Reggio-Calabria?
Fondi per l’allacciamento wi-fi. Ma non erano già nel piano dell’Agenda Digitale?
E poi la notizia numero uno: «Le tasse sono diminuite». Vorrei sapere dal premier Letta per chi sono diminuite, perché le mie sono aumentate, e anche quelle di tutte le persone che conosco o che a me si rivolgono.
È aumentata la bolletta elettrica, l’Iva, l’Irpef, la Tares.
L’acconto da versare a fine anno è arrivato al 102% delle imposte pagate nel 2012, quando nel 2013 tutti hanno guadagnato meno rispetto all’anno prima.
Certo l’anno prossimo si andrà a credito, ma intanto magari chiudi o licenzi.
E tu Stato, quando questi soldi li dovrai restituire dove li trovi? Farai una manovra che andrà a penalizzare qualcuno.
I debiti della pubblica amministrazione con le imprese ammontano a 91 miliardi.
A giugno il Governo dichiara: «Stanziati 16 miliardi».
È un falso, perché quei 16 miliardi sono un prestito fatto da Cassa Depositi e Prestiti agli enti locali.
E per rimborsare questo mutuo, i comuni, le province e regioni hanno aumentato le imposte.
L’Assessore al Bilancio della Regione Piemonte in un’intervista a Report ha detto: «Per non caricare il pagamento dei debiti sui cittadini, si doveva tagliare sul corpo centrale delle spese del Governo, e se non si raggiungeva la cifra… non so.. vendo la Rai!». Privatizzare la Rai è un tema ricorrente.
Nessun paese europeo pensa di vendersi il servizio pubblico perché è un cardine della democrazia non sacrificabile.
In nessun paese europeo però ci sono 25 sedi locali: Potenza, Perugia, Catanzaro, Ancona. In Sicilia ce ne sono addirittura due, a Palermo e a Catania, ma anche in Veneto c’è una sede a Venezia e una a Verona, in Trentino Alto Adige una a Trento e una a Bolzano. La Rai di Genova sta dentro ad un grattacielo di 12 piani…ma ne occupano a malapena 3.
A Cagliari invece l’edificio è fatiscente con problemi di incolumità per i dipendenti.
Poi ci sono i Centri di Produzione che non producono nulla, come quelli di Palermo e Firenze. A cosa servono 25 sedi?
A produrre tre tg regionali al giorno, con prevalenza di servizi sulle sagre, assessori che inaugurano mostre, qualche fatto di cronaca. L’edizione di mezzanotte, che è una ribattuta, costa 4 milioni l’anno solo di personale.
Perché non cominciare a razionalizzare?
Se informazione locale deve essere, facciamola sul serio, con piccoli nuclei, utilizzando agili collaboratori sul posto in caso di eventi o calamità, e in sinergia con Rai news 24.
Non si farà fatica, con tutte le scuole di giornalismo che sfornano ogni anno qualche centinaio di giornalisti! Vogliamo cominciare da lì nel 2014?
O ci dobbiamo attendere presidenti di Regione che si imbavagliano davanti a Viale Mazzini per chiedere la testa del direttore di turno che ha avuto la malaugurata idea di fare il suo mestiere?
È probabile, visto che la maggior parte di quelle 25 sedi serve a garantire un microfono aperto ai politici locali.
Le Regioni moltiplicano per 21 le attività che possono essere fatte da un unico organismo.
Prendiamo un esempio cruciale: il turismo.
Ogni regione ha il suo ente, la sua sede, il suo organico, il suo budget, le sue consulenze, e ognuno si fa la sua campagna pubblicitaria.
La Basilicata si fa il suo stand per sponsorizzare Metaponto a Shangai.
Ognuno pensa a sé, alla sua clientela (non turistica, sia chiaro) da foraggiare.
E alla fine l’Italia, all’estero, come offerta turistica, non esiste.
Dal mio modesto osservatorio che da 16 anni verifica e approfondisce le ricadute di leggi approvate e decreti mai emanati che mettono in difficoltà cittadini e imprese, mi permetto di fare un elenco di fatti che mi auguro, a fine 2014, vengano definitivamente risolti.
Punto 1.
Ridefinizione del concetto di flessibilità.
Chi legifera dentro al palazzo forse non conosce il muro contro cui va a sbattere chi vorrebbe dare lavoro, e chi lo cerca.
Un datore di lavoro (che sia impresa o libero professionista) se utilizza un collaboratore per più di 1 mese l’anno, lo deve assumere. Essendo troppo oneroso preferisce cambiare spesso collaboratore.
Il precario, a sua volta, se offre una prestazione che supera i 5000 euro per lo stesso datore di lavoro, non può fare la prestazione occasionale, ma deve aprire la partita Iva, che pur essendo nel regime dei minimi lo costringe comunque al versamento degli acconti; inoltre deve rivolgersi ad un commercialista per la dichiarazione dei redditi, perché la norma è di tre righe, ma per dirti come interpretare quelle tre righe, ci sono delle circolari ministeriali di 30 pagine, che cambiano continuamente.
Il principio di spingere le persone a mettersi in proprio è buono, ma poi le regole vengono rimpinzate di lacci e alla fine la partita Iva diventa poco utilizzabile.
Perché non alzare il tetto della «prestazione occasionale» fino a quando il precario non ha definito il proprio percorso professionale? Il mondo del lavoro non è fatto solo da imprese che sfruttano, ma da migliaia di micropossibilità che vengono annientate da una visione che conosce solo la logica del posto fisso.
Si dirà: «Ma se non metti dei paletti ci troveremo un mondo di precari a cui nessuno versa i contributi».
Allora cominci lo Stato ad interrompere il blocco delle assunzioni e smetta di esternalizzare!
Oggi alle scuole servono 11.000 bidelli che costerebbero 300 milioni l’anno.
Lo Stato invece preferisce dare questi 300 milioni ad alcune imprese, che ricavano i loro margini abbassando gli stipendi (600 euro al mese) e di conseguenza i contributi.
Che pensione avranno questi bidelli?
In compenso lo Stato non ha risparmiato nulla…però obbliga un libero professionista o una piccola impresa ad assumere un collaboratore che gli serve solo qualche mese l’anno.
Il risultato è un incremento della piaga che si voleva combattere: il lavoro nero.
Punto 2.
Giustizia. Mentre aspettiamo di vedere l’annunciata legge che archivia i reati minori (chi falsifica il biglietto dell’autobus si prenderà una multa senza fare 3 gradi di giudizio), occorrerebbe cancellare i processi agli irreperibili.
Oggi chi è beccato a vendere borse false per strada viene denunciato; però l’immigrato spesso non ha fissa dimora, e diventa impossibile notificare gli atti, ma il processo va avanti lo stesso, con l’avvocato d’ufficio, pagato dallo Stato, il quale ha tutto l’interesse a ricorrere in caso di condanna.
Una macchina costosissima che riguarda circa il 30% delle sentenze dei tribunali monocratici, per condannare un soggetto che «non c’è».
Se poi un giorno lo trovi, poiché la legge europea prevede il suo diritto a difendersi, si ricomincia da capo.
Perché non fare come fan tutti, ovvero sospendere il processo fino a quando non trovi l’irreperibile?
Siamo anche l’unico paese al mondo ad aver introdotto il reato di clandestinità: una volta accertato che tizio è clandestino, anziché imbarcarlo subito su una nave verso il suo paese, prima gli facciamo il processo e poi lo espelliamo.
Una presa in giro utile a far credere alla popolazione, che paga il conto, che «noi ce l’abbiamo duro».
Punto 3.
L’autorità che vigila sui mercati e sul risparmio. Dal 15 dicembre, scaduto il mandato del commissario Pezzinga, la Consob è composta da soli due componenti. La nomina del terzo commissario compete al Presidente del Consiglio sentito il Ministro dell’Economia ed avviene con decreto del Presidente della Repubblica.
Nella migliore delle ipotesi ci vorranno un paio di mesi di burocrazia una volta che si sono messi d’accordo sul nome.
Ad oggi l’iter non è ancora stato avviato e l’Autorità non assolve il suo ruolo indipendente proprio quando si deve occupare di dossier strategici per il futuro economico-finanziario del Paese come MPS, Unipol-Fonsai e Telecom.
Di fatto Vegas può decidere come vigilare sui mercati finanziari e sul risparmio, direttamente da casa, magari dopo essersi consultato con Tremonti (che lo aveva a suo tempo indicato), visto che il voto del Presidente vale doppio in caso di parità, e i Commissari hanno facoltà di astensione.
Perché il Governo non si è posto il problema qualche mese fa, e perché non si è ancora fatto carico di una nomina autorevole, indipendente e in grado di riportare al rispetto delle regole?
Punto 4.
Ilva. È alla firma del Capo dello Stato il decreto «terra dei fuochi», dentro ci hanno messo un articolo che autorizza l’ottantenne Commissario Bondi a farsi dare i circa 2 miliardi dei Riva sequestrati dalla procura di Milano.
Ottimo! Peccato che non sia specificato che quei soldi devono essere investiti nella bonifica.
Inoltre Bondi è inadempiente, ma il decreto gli da una proroga di altri 3 anni, e se poi non sarà riuscito a risanare, non è prevista nessuna sanzione.
Nel frattempo che ne è del diritto non prorogabile della popolazione a non respirare diossina?
Ovunque, di fronte ad un disastro ambientale, si sequestra, si bonifica e i responsabili pagano.
Per il nostro governo si può morire ancora un po’.
Come contribuente e come cittadina non mi interessa un governo di giovani quarantenni.
Pretendo di essere governata da persone competenti e responsabili, che blaterino meno e ci tirino fuori dai guai.
Pretendo che l’età della pensione valga per tutti, che il rinnovo degli incarichi operativi non sia più uno orrendo scambio di poltrone fra la solita compagnia di giro.
Pretendo di essere governata da una classe politica che non insegna ai nostri figli che impegnarsi a dare il meglio è inutile.
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