Pompei, città commerciale, era attrezzata per accogliere numerosi forestieri e, come avveniva in tutte le città di questo tipo, tra i tanti luoghi d’interesse, non spiccavano solo la Palestra e il Teatro, ma vi erano anche numerosi luoghi di ristoro e di alloggio e non potevano di certo mancare quei luoghi dove si incontravano giovani donne e ragazzi disponibili….. a pagamento.
A Pompei sono stati riconosciuti oltre trenta bordelli, alcuni erano molto modesti, altri erano posti nei piani superiori delle cauponae (alloggio), altri ancora erano appositamente costruiti e organizzati per questo tipo di attività.
Nel 2006, dopo un accurato e intenso lavoro di restauro che ha interessato i complessi architettonici e gli apparati decorativi, è stato riaperto al pubblico uno degli edifici più noti dell’antica Pompei, trattasi del Lupanare (nome derivato dal latino lupa e che vuol dire prostituta) il più importante dei numerosi bordelli di Pompei, l’unico costruito con questa finalità.
Esso era il luogo del piacere erotico trasgressivo, una vera e propria casa d’appuntamento, quella che noi oggi chiamiamo comunemente “casa a luci rosse”.
Il lupanare è un piccolo edificio che si trova all’incrocio di due strade secondarie ed era costituito da un piano terra e un primo piano. Al piano terra si accedeva da due ingressi separati: il primo si trovava nel cosiddetto “Vicolo del Lupanare” il secondo, comodo per chi arrivava dal Foro, si trovava al vicolo sud-ovest.
Entrambi gli ingressi conducevano in una specie di saletta centrale , intorno alla quale si aprivano cinque cellae meretriciae con i letti in muratura.
Le pareti delle celle erano intonacate di bianco e quasi completamente coperte da graffiti incisi sia dagli avventori che dalle ragazze che vi lavoravano. I graffiti è certo che sono posteriori al 72 d.C. ciò si può asserire dall’impronta lasciata da una moneta sull’intonaco fresco.
Le pareti della saletta centrale erano decorate con riquadri e ghirlande stilizzate su fondo bianco, ma al disopra delle porte d’ingresso alle celle, erano sistemate, come fregio, una serie di pitture murali erotiche che, probabilmente, costituivano una specie di catalogo circa le possibili prestazioni che le prostitute potevano offrire al cliente.
Al piano superiore si poteva accedere tramite una scaletta posta nella stradina che scendeva dal Foro.
La scala conduceva in una specie di corridoio esterno che permetteva l’accesso ad altre cinque stanze che presentavano una decorazione più ricercata, in IV stile, prive però di scene erotiche e sicuramente riservate ad una clientela di rango più elevato.
Il lupanare era l’unico luogo in cui si praticava la prostituzione, come viene definita dal diritto romano: “in maniera notoria e indiscriminata” cioè, senza la possibilità di scegliersi i clienti.
L’antico lupanare di Pompei attira attualmente l’attenzione di molti visitatori i quali, visitando gli ambienti, vengono a diretta conoscenza della vita erotica di nobili patrizi, uomini giovani e non dell’antica epoca romana.
I lupanari, non mancavano di certo a Roma, anzi potremo dire che ce n’erano tanti. Erano per lo più concentrati nella Suburra, abitata dalla plebe, o nei luoghi circostanti il Circo Massimo, allineati uno accanto all’altro.
Erano tutti personalizzati da una particolare lanterna e dagli organi maschili scolpiti, ben visibili, mentre gli interni erano caratterizzati da un desolante squallore, da un ambiente sporco e saturo di fumo delle lanterne. I romani più ricchi ricevevano le prostitute in casa ma vi erano anche locali per uomini d’elite, come il lupanare costruito sul Palatino, di proprietà di Caligola, dove esercitavano donne di classe e fanciulli liberi.
Il lupanare era un’istituzione sociale tesa a soddisfare le molteplici tendenze della sfera sessuale dei romani con assoluta e totale tolleranza ed è per questo motivo che si trovavano anche i lupanari per gli omosessuali dove si recavano schiavi e gladiatori.
Le lupe che esercitavano nei postriboli dovevano fronteggiare perennemente la concorrenza di una significativa quota di patriziato femminile che amava camuffarsi per poi prostituirsi nei lupanari.
Questo era il passatempo preferito dell’imperatrice Messalina, moglie di Tiberio Claudio, che amava prostituirsi con lo pseudonimo di Lycisca.
Messalina si presentava nei bordelli con i capezzoli dorati e gli occhi segnati da una mistura di antimonio e nerofumo, offrendosi a gladiatori e marinai per qualche ora al giorno.
Plinio il Vecchio racconta che una volta sfidò in gara la più celebre prostituta dell’epoca e la vinse nell’avere 25 concubitus (rapporti) in 24 ore.
Fu proclamata invicta e, secondo Giovenale, “lassata viris, nondum satiata, recessit” (stanca, ma non sazia, smise).
La prostituzione a Roma come a Pompei e come d’altronde in tutto il mondo romano, seppur molto diffusa, era comunque considerata infamante al pari del mestiere di attore o di chi praticava l’usura ed è per questo che qualche patrizio preferiva non farsi riconoscere in questo caso si serviva di una parrucca e si copriva il volto con una maschera.
Intorno al I secolo d.C., come conseguenza dl divieto d’introdurre all’interno dei lupanari monete con l’effige imperiale, furono battute apposite monete che presero il nome di spintria, erano più precisamente tesserae eroticae, con le quali era possibile pagare le prestazioni sessuali alle prostitute.
Samantha Lombardi