domenica 14 ottobre 2012
Rosso
“Il colore è un mezzo di esercitare sull'anima un'influenza diretta. Il colore è un tasto, l'occhio il martelletto che lo colpisce, l'anima lo strumento dalle mille corde”
(Vasilij Kandinskij)
Flying Fish
Pesci volanti vivono in tutti i mari , in particolare in acque tropicali e subtropicali. La loro caratteristica più evidente sono le pinne pettorali insolitamente grandi,con le quali possono fare potenti, salti fuori dall'acqua libandosi in aria.
Le loro lunghe ali o pinne consentono loro di planare a distanze considerevoli sopra la superficie dell'acqua. Questa capacità non comune è un meccanismo di difesa naturale per eludere i predatori. I loro voli sono in genere circa 50 metri
Per decollare verso l'alto fuori dall'acqua, un pesce volante muove la coda fino a 70 volte al secondo, apre poi le sue pinne pettorali e si inclina leggermente verso l'alto per ottenere l'ascensore. Al termine di una planata,piega le sue pinne pettorali per immettersi nuovamente in mare.
Borneo
Il Borneo malese e in particolar modo il Sarawak sono per gli amanti della natura un paradiso terrestre incontaminato: foreste, fiumi, montagne e mare, non manca niente in questo vasto territorio in gran parte inesplorato e abitato da specie animali rare o a rischio d'estinzione.
Capolavori artistici della miniera di Sale di Wieliczka
Le sculture della natura
Le sculture della natura e degli uomini
Le sculture della natura
Le sculture della natura e degli uomini
Questi candelieri sono fatti di sale |
Miniera di sale di Wieliczka Polonia
Situata nella città di Wieliczka, nell'Area metropolitana di Cracovia, in Polonia, è in servizio dal XIII secolo, ed è tuttora utilizzata per l'estrazione del sale. È una delle più antiche miniere di sale ancora operative al mondo (la più antica in assoluto si trova a Bochnia, sempre in Polonia, a 20 km da Wieliczka). La miniera raggiunge profondità di 327 metri, e presenta gallerie e cunicoli per un'estensione totale di più di 300 km. La miniera di sale di Wieliczka ha 3,5 km disponibili per le visite turistiche (meno dell'1% della lunghezza totale delle gallerie), che includono statue di figure storiche e mitiche, tutte scolpite dal minatori direttamente nel sale. Anche i cristalli dei candelieri sono stati forgiati nel sale. La miniera presenta anche stanze decorate, cappelle e laghi sotterranei, e mostra la storia della miniera. Quella di Wieliczka è comunemente detta "la cattedrale di sale sotterranea della Polonia", ed è visitata ogni anno da circa 800.000 persone
Situata nella città di Wieliczka, nell'Area metropolitana di Cracovia, in Polonia, è in servizio dal XIII secolo, ed è tuttora utilizzata per l'estrazione del sale. È una delle più antiche miniere di sale ancora operative al mondo (la più antica in assoluto si trova a Bochnia, sempre in Polonia, a 20 km da Wieliczka). La miniera raggiunge profondità di 327 metri, e presenta gallerie e cunicoli per un'estensione totale di più di 300 km. La miniera di sale di Wieliczka ha 3,5 km disponibili per le visite turistiche (meno dell'1% della lunghezza totale delle gallerie), che includono statue di figure storiche e mitiche, tutte scolpite dal minatori direttamente nel sale. Anche i cristalli dei candelieri sono stati forgiati nel sale. La miniera presenta anche stanze decorate, cappelle e laghi sotterranei, e mostra la storia della miniera. Quella di Wieliczka è comunemente detta "la cattedrale di sale sotterranea della Polonia", ed è visitata ogni anno da circa 800.000 persone
Lancia di Cunegonda |
L'Ultima Cena di Leonardo da Vinci scolpita nella roccia salina |
Halite della miniera di sale di Wieliczka |
Malala, la bambina coraggiosa
14.10.12 «Abbiamo paura dei talebani. Da un momento all’altro possono buttarti dell’acido in faccia. Sono dei barbari», confessava anni fa, nel blog che curava per la Bbc Urdu a soli undici anni, Malala Yousafzai. Quei «barbari» non hanno dimenticato. Né perdonato. Sono tornati, con il carico di morte. Hanno persino rivendicato, i talebani. Malala, 14 anni, aveva una sola colpa: aver sfidato il potere della barbarie. Non a colpi di bombe, ma con le parole. Rivendicando il diritto per le ragazze pachistane all’istruzione. Il diritto a un vita normale. A un’esistenza libera dai divieti imposti dai fondamentalisti. Il divieto di andare a scuola, di andare al mercato. Ora Malala lotta tra la vita e la morte. Chi le ha sparato – due colpi, una l’ha raggiunta al collo l’altro a un braccio – non voleva sbagliare. Voleva eseguire una sentenza. Forse due uomini armati, forse un solo killer. L’uomo ha intimato all’autista dello scuolabus sul quale la ragazza viaggiava con alcune compagne di fermarsi. Ha ordinato alle studentesse di scendere. Ha chiamato per nome Malala. Le ha sparato. La ragazza è stata portata nell’ospedale di Mingora nel capoluogo della valle dello Swat.
Malala vive in una terra maledetta. Quella valle dello Swat, a nord ovest rispetto alla capitale Islamabad, teatro di un conflitto sanguinoso tra talebani e governo. Alla fine del 2007 gli islamisti conquistano la valle. Signoreggiano. Impongono la sharia. Uccidono. Tormentano. Prendono di mira le scuole femminili. Il loro regno dura fino al 2009, quando un’offensiva dell’esercito spazza via il loro dominio.
Malala inizia a scrivere. Sotto pseudonimo, anche se la sua identità verrà poi svelata. Viene insignita della maggiore onorificenza civile del Paese. Sul blog confessa le sue paure. I «barbari» costringono le ragazze a rinunciare alle uniformi da scuole. Lei e le sue compagne fingono di non essere delle studentesse. Almeno 400 scuole vengono distrutte. «Non possiamo studiare nelle tende – scriveva Malala – fa troppo caldo». Con la “riconquista” fa parte dell’esercito, anche le ragazze sembrano riconquistare la normalità. «Ora possiamo tornare a scuola, siamo libere», giubilava. Ma era una normalità fragile, di carta. Malala viene minacciata. Sfugge a un attacco. I «barbari» non hanno dimenticato. «Ho sognato di un Paese in cui l’istruzione sia un diritto per tutti», ha scritto, piena di speranza, Malala. Per sognare ci vuole coraggio. (avvenire,it)
La Foresta Fossile di Dunarobba
La Foresta Fossile di Dunarobba.
Si tratta di una foresta fossile i cui tronchi sono ancora formati dal loro legno originario. Grazie alla realizzazione di esami sia istologici che dei pollini, dei frutti e delle impronte delle foglie, è stato affermato con certezza che si tratta di un bosco di conifere del genere Taxodion, probabilmente una forma estinta di Sequoia molto simile all'attuale Sequoia Sempervirens.
posizione ancora oggi eretta dei giganteschi tronchi, ha permesso agli scienziati di poter studiare il materiale che si trova alla base degli stessi che a suo tempo formava il suolo dove le piante vivevano ( circa 30 metri di profondità rispetto all'attuale piano di campagna). Da tali studi si è dedotto che la Foresta Fossile di Dunarobba è vissuta 3 milioni di anni fa, alla fine del Cenozoico e precisamente nel Pliocene superiore, sulla sponda di un immenso lago che solcava tutta l'Umbria, che a quel tempo era caratterizzata da un clima caldo umido dove vivevano mamuth ed altri animali preistorici. La Foresta Fossile di Dunarobba è stata riportata alla luce, tra i primi anni 70 ed il 1987, nel corso dei lavori di estrazione di una cava di argilla, che serviva ad alimentare la vicina fornace di laterizi. La FORESTA FOSSILE affiora in terreni di "proprietà privata" ed è vincolata sia dal Ministero per i Beni Culturali (come "Cosa" di Interesse Paleontologico) che dalla Regione dell’ Umbria (come "Bene" Ambientale). Per accordi fra proprietari ed enti interessati,la visita è permessa solo se è accompagnata dal personale appositamente incaricato.
posizione ancora oggi eretta dei giganteschi tronchi, ha permesso agli scienziati di poter studiare il materiale che si trova alla base degli stessi che a suo tempo formava il suolo dove le piante vivevano ( circa 30 metri di profondità rispetto all'attuale piano di campagna). Da tali studi si è dedotto che la Foresta Fossile di Dunarobba è vissuta 3 milioni di anni fa, alla fine del Cenozoico e precisamente nel Pliocene superiore, sulla sponda di un immenso lago che solcava tutta l'Umbria, che a quel tempo era caratterizzata da un clima caldo umido dove vivevano mamuth ed altri animali preistorici. La Foresta Fossile di Dunarobba è stata riportata alla luce, tra i primi anni 70 ed il 1987, nel corso dei lavori di estrazione di una cava di argilla, che serviva ad alimentare la vicina fornace di laterizi. La FORESTA FOSSILE affiora in terreni di "proprietà privata" ed è vincolata sia dal Ministero per i Beni Culturali (come "Cosa" di Interesse Paleontologico) che dalla Regione dell’ Umbria (come "Bene" Ambientale). Per accordi fra proprietari ed enti interessati,la visita è permessa solo se è accompagnata dal personale appositamente incaricato.
Foglie d'autunno
Quelle matte, matte foglie,
brune, rosse, verdi, gialle,
che disegnano nell’ aria
le figure più bizzarre,
per terra sono cadute,
ma senza farsi male.
Se taci, le puoi ascoltare :
sotto la pioggerella
canticchiano una canzone,
imparata dagli uccelli
nella bella stagione.
Castello da brivido
Nessuna principessa che si rispetti accetterebbe di trasferirsi in questo castello da fiaba. Per forza, il palazzo non è riscaldato e basta accendere una stufetta, perché inizi a squagliarsi! È fatto di ghiaccio, come le altre sculture esposte al Festival annuale del Ghiaccio e della Neve di Harbin, in Cina.
La temperatura da brividi della zona (che può scendere sotto i - 35 gradi) è un ottimo conservante per questi capolavori del freddo.
Anche se negli ultimi tempi le sculture si sciolgono più in fretta del previsto e richiedono una "manutenzione" extra. Qualcuno dirà che è colpa del riscaldamento globale. Una cosa che non cambia mai sono, invece, le cifre da capogiro che vengono spese per allestire ogni anno il festival: quest’anno sono stati spesi più di 5 milioni di euro.
PIRAMIDE DI CHEOPE
Pare sia stata scoperta una camera segreta dietro la porta n. 2 sigillata all'interno del vano sud nella camera della Regina. Si parla della piramide di Kufu (Cheope). Nello stanzino sembrerebbero esserci dei manufatti. Le investigazioni sono iniziate nel 1993, lungo alcuni canali di areazione che conducono alla camera della Regina, ma l'esplorazione per mezzo di droni è stata fatta nel 2002. Il locale individuato è approssimativamente grande 6 metri per 9 e si trova direttamente alle spalle di due porte sigillate. Sono state avvistate diverse piccole statue dalla videocamera, ma non è trapelato alcun dettaglio su cosa rappresentino. In un angolo della camera è stata vista una catena d'oro o di rame. Nel centro della camera si trova una scatola d'oro o di rame, chiusa. Nessun geroglifico è presente nella stanza. Il robot utilizzato per esplorare la stanza nascosta
Pare sia stata scoperta una camera segreta dietro la porta n. 2 sigillata all'interno del vano sud nella camera della Regina. Si parla della piramide di Kufu (Cheope). Nello stanzino sembrerebbero esserci dei manufatti. Le investigazioni sono iniziate nel 1993, lungo alcuni canali di areazione che conducono alla camera della Regina, ma l'esplorazione per mezzo di droni è stata fatta nel 2002. Il locale individuato è approssimativamente grande 6 metri per 9 e si trova direttamente alle spalle di due porte sigillate. Sono state avvistate diverse piccole statue dalla videocamera, ma non è trapelato alcun dettaglio su cosa rappresentino. In un angolo della camera è stata vista una catena d'oro o di rame. Nel centro della camera si trova una scatola d'oro o di rame, chiusa. Nessun geroglifico è presente nella stanza. Il robot utilizzato per esplorare la stanza nascosta
Il provincialismo
Il provincialismo è somaro. Non riesce proprio a vedere oltre il paraocchi del gretto pregiudizio
(Vito Nicassio)
Il re delle spezie. il pepe
Il PIPER NIGRUM, appartiene alla famiglia delle Piperaceae ed è una pianta che viene coltivata per i suoi frutti che danno una spezia molto particolare e conosciuta come "pepe".
Il genere Piper comprende circa 700 specie ma solo poche sono utilizzate per la loro spezia.
E' una pianta originaria dell'India sud occidentale, tipicamente tropicale e si ritrova allo stato spontaneo anche in Cina.
Si coltiva nella penisola di Malacca, nel Siam, Sumatra, Java, Borneo, Filippine, Giappone e nel litorale della costa di Malabar (tratto di costa dell'India sud-occidentale che si estende per circa 850 km negli stati del Kerala e del Karnataka) dove si produce la migliore qualità al mondo anche se Sumatra e Java sono i maggiori produttori.
Il Piper nigrum è una pianta perenne, semi rampicante e arbustiva che raggiunge anche i 4-5 metri di altezza con rami arrotondati, lisci con nodi molto larghi. Le foglie sono ovali-lanceolate, coriacee, di un bel verde intenso, lungamente acuminate e provviste nella pagina inferiore di una fitta peluria, lunghe mediamente dai 5-18 cm e larghe da 2-12 cm e provviste di un picciolo lungo da 1-4cm. I fiori ermafroditi, hanno due stami con ovario uniloculare che produce un solo ovulo quindi un solo seme. Sono piccoli, bianchi, profumati, sprovvisti di picciolo ma raccolti in infiorescenze a spiga lunghe dai 5 ai 20 cm, portate da dei lunghi piccioli .
I frutti sono delle piccole bacche, sessile (sprovviste di picciolo) che contengono un solo seme che dal verde si colora di giallo e poi rosso a maturazione. Una volta secche raggiungono delle dimensioni variabili da 0,3 a 0,6 cm di diametro. A secondo dello stadio di maturazione di raccolta e del tipo di lavorazione abbiamo le diverse varietà. ALTRE SPECIE Esistono numerose specie che differenziano tra loro dalla forma delle foglie e dalle caratteristiche del frutto ma solo poche hanno valore commerciale per le caratteristiche delle loro bacche. Il valore commerciale di una specie piuttosto che un'altra (e di una varietà) è dato oltre che dalle caratteristiche di adattamento alle diverse condizioni climatiche e di coltivazione, alla maggiore resistenza alle malattie (in particolare alla resistenza ai marciumi radicali provocati da Phytophthora) ma soprattutto devono avere un alto rendimento ed una uniformità di maturazione delle bacche, elemento indispensabile per una buona preparazione del tipo di spezia che si vuole ottenere. PIPER CLUSII (conosciuto anche come Piper guineense) (pepe africano o di ashantee o di Guinea) tipico delle zone tropicali dell'Africa ma molto poco conosciuto in Occidente perché usato quasi esclusivamente in Africa. La bacca rassomiglia molto a quella del pepe nero ma meno rugosa e con un peduncolo più corto.
PIPER CUBEBA (conosciuto anche come pepe di Java), molto simile al Piper nigrum ma dal quale differisce per le dimensioni molto più piccole delle bacche. Le bacche nel Piper cubeba sono raccolte quando sono mature e una volta essiccate diventano di colore nero. Sono molto profumate e aromatiche. Viene coltivato quasi esclusivamente a Java e a Sumatra.
PIPER LONGUM chiamato pepe lungo, originario delle Indie. Il Piper longum (chiamato anche pepe delle Indie) ha le bacche più corte e più larghe e rassomiglia di più a quello nero ma di qualità inferiore con un profumo molto debole ma un gusto molto pungente. Contengono entrambi circa il 6% di piperine. Entrambe queste specie sono molto rare ed è difficile trovarle in Europa mentre sono molto utilizzate nella cucina indiana ed africana. Proprietà aromatiche del pepe La piccantezza è data dalla piperina, una sostanza che si trova sia nella polpa che nel seme (al contrario della capsaicina del peperoncino), poco solubile in acqua, parzialmente solubile in etere ma totalmente solubile in alcool. La piperina è contenuta in quasi tutte le specie ma è nel Piper nigrum che si trova in maggiore quantità. E' ricco di tannini, amido, terpeni (lipidi, componenti essenziali di molte resine ed oli essenziali che conferiscono alle diverse piante il loro caratteristico aroma), pinene (composto aromatico che si trova nelle conifere), limonene (alchene che ha un caratteristico profumo di limone o di arancia), ecc. che tutte insieme gli conferiscono il suo straordinario aroma.
Con la macinazione perde il suo aroma pertanto, se si vuole assaporare al pieno la sua fragranza, è bene macinarlo al momento di servire in tavola con i classici "macinapepe" che non dovrebbero mai mancare nelle nostre cucine.
Il Piper nigrum è una pianta perenne, semi rampicante e arbustiva che raggiunge anche i 4-5 metri di altezza con rami arrotondati, lisci con nodi molto larghi. Le foglie sono ovali-lanceolate, coriacee, di un bel verde intenso, lungamente acuminate e provviste nella pagina inferiore di una fitta peluria, lunghe mediamente dai 5-18 cm e larghe da 2-12 cm e provviste di un picciolo lungo da 1-4cm. I fiori ermafroditi, hanno due stami con ovario uniloculare che produce un solo ovulo quindi un solo seme. Sono piccoli, bianchi, profumati, sprovvisti di picciolo ma raccolti in infiorescenze a spiga lunghe dai 5 ai 20 cm, portate da dei lunghi piccioli .
I frutti sono delle piccole bacche, sessile (sprovviste di picciolo) che contengono un solo seme che dal verde si colora di giallo e poi rosso a maturazione. Una volta secche raggiungono delle dimensioni variabili da 0,3 a 0,6 cm di diametro. A secondo dello stadio di maturazione di raccolta e del tipo di lavorazione abbiamo le diverse varietà. ALTRE SPECIE Esistono numerose specie che differenziano tra loro dalla forma delle foglie e dalle caratteristiche del frutto ma solo poche hanno valore commerciale per le caratteristiche delle loro bacche. Il valore commerciale di una specie piuttosto che un'altra (e di una varietà) è dato oltre che dalle caratteristiche di adattamento alle diverse condizioni climatiche e di coltivazione, alla maggiore resistenza alle malattie (in particolare alla resistenza ai marciumi radicali provocati da Phytophthora) ma soprattutto devono avere un alto rendimento ed una uniformità di maturazione delle bacche, elemento indispensabile per una buona preparazione del tipo di spezia che si vuole ottenere. PIPER CLUSII (conosciuto anche come Piper guineense) (pepe africano o di ashantee o di Guinea) tipico delle zone tropicali dell'Africa ma molto poco conosciuto in Occidente perché usato quasi esclusivamente in Africa. La bacca rassomiglia molto a quella del pepe nero ma meno rugosa e con un peduncolo più corto.
PIPER CUBEBA (conosciuto anche come pepe di Java), molto simile al Piper nigrum ma dal quale differisce per le dimensioni molto più piccole delle bacche. Le bacche nel Piper cubeba sono raccolte quando sono mature e una volta essiccate diventano di colore nero. Sono molto profumate e aromatiche. Viene coltivato quasi esclusivamente a Java e a Sumatra.
PIPER LONGUM chiamato pepe lungo, originario delle Indie. Il Piper longum (chiamato anche pepe delle Indie) ha le bacche più corte e più larghe e rassomiglia di più a quello nero ma di qualità inferiore con un profumo molto debole ma un gusto molto pungente. Contengono entrambi circa il 6% di piperine. Entrambe queste specie sono molto rare ed è difficile trovarle in Europa mentre sono molto utilizzate nella cucina indiana ed africana. Proprietà aromatiche del pepe La piccantezza è data dalla piperina, una sostanza che si trova sia nella polpa che nel seme (al contrario della capsaicina del peperoncino), poco solubile in acqua, parzialmente solubile in etere ma totalmente solubile in alcool. La piperina è contenuta in quasi tutte le specie ma è nel Piper nigrum che si trova in maggiore quantità. E' ricco di tannini, amido, terpeni (lipidi, componenti essenziali di molte resine ed oli essenziali che conferiscono alle diverse piante il loro caratteristico aroma), pinene (composto aromatico che si trova nelle conifere), limonene (alchene che ha un caratteristico profumo di limone o di arancia), ecc. che tutte insieme gli conferiscono il suo straordinario aroma.
Con la macinazione perde il suo aroma pertanto, se si vuole assaporare al pieno la sua fragranza, è bene macinarlo al momento di servire in tavola con i classici "macinapepe" che non dovrebbero mai mancare nelle nostre cucine.
Castello Reale di Varsavia
Il Castello Reale (in polacco: Zamek Królewski) di Varsavia è il palazzo reale e residenza ufficiale dei monarchi polacchi. L'ufficio personale del Re, come gli uffici amministrativi della Corte Reale della Polonia si trovarono nel palazzo fino alle spartizioni della Polonia. Tra il 1926 e la seconda guerra mondiale il castello fu sede del Presidente della Polonia. Si trova nella piazza del Castello (Plac Zamkowy), all'ingresso della Città Vecchia. Nella sua struttura originaria il castello risale al XIV secolo, edificato dai duchi di Masovia e la città di Varsavia crebbe intorno ad esso. Nel 1596 il re Sigismondo III Wasa lo scelse come residenza quando la città di Varsavia venne scelta come capitale del regno. Il castello venne ristrutturato tra il 1598 e il 1619, ad opera di architetti italiani. La nuova struttura ebbe forma poligonale. L'ala orientale ("ala sassone"), verso la Vistola venne ristrutturata sotto il regno di Augusto III tra il 1740 e il 1752.
Parzialmente distrutto dalle bombe tedesche durante l'invasione della Polonia del settembre 1939, fu pesantemente danneggiato dai bombardamenti tedeschi durante la rivolta di Varsavia. Le rovine vennero fatte esplodere da ingegneri tedeschi nel settembre 1944 e non furono rimosse fino al 1971. La ricostruzione, interamente finanziata da donazioni private, iniziò all'inizio degli anni settanta e nel luglio 1974 tornò in servizio l'orologio della torre, all'ora esatta a cui si era fermato al momento del bombardamento della Luftwaffe. In seguito la ricostruzione venne completata nel 1988. Durante l'assedio di Varsavia del 1939 molte delle opere d'arte del castello furono trasferite o nascoste alle autorità naziste, per essere poi riesposte dopo la guerra.
Tutti gli ambienti interni vennero ricostruiti con le loro decorazioni originarie e ospitano le opere d'arte e gli arredi nascosti alle autorità naziste e salvati dalla distruzione.
Meraviglie al microscopio
Quasi irriconoscibile sotto la lente del microscopio elettronico, ecco un grano di pepe (Piper nigrum). ll frutto carnoso della pianta di pepe contiene un solo seme che, quando è raccolto non ancora maturo, rappresenta il pepe verde, maturo ed essiccato diventa la versione nera, mentre liberato dalla polpa è il pepe bianco.
Il pepe, originario dell'India, arrivò in Occidente duemilacinquecento anni fa: grazie al suo grande valore commerciale, alla conservazione illimitata e alla difficile sofisticazione, ha sempre rappresentato una merce rara con cui, per esempio, nel Medioevo i vassalli pagavano tributi o riscatti al loro signore. Alla fine del Cinquecento la sua fama di afrodisiaco cominciò a diffondersi e tuttora è conosciuto per questa virtù. Da aggiungere al vostro menu come Elisir d'amore...
Nel più antico manoscritto berbero
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Il Corano non è increato”. Nel più antico manoscritto berbero, ritrovato in Tunisia, la visione ibadita dell’Islam. Milano, 13 ottobre 2010 - Gli Ibaditi praticavano poco il pellegrinaggio alla Mecca e consideravano i sunniti alla stregua di politeisti perché venerano il Corano quasi come un’entità divina a sé stante. Sono alcune delle anticipazioni che emergono da una prima lettura del più antico testo in lingua berbera finora conosciuto, ritrovato in Tunisia nell’aprile scorso. La scoperta di una copia di questo manoscritto si deve al professor Vermondo Brugnatelli, docente di lingue e letterature del Nordafrica nell’Università di Milano-Bicocca che da anni conduce ricerche e studi sulla lingua e la letteratura berbera, e che ha potuto individuarlo nella Biblioteca Nazionale di Tunisi nel corso dell’ultima campagna di ricerche linguistiche sul campo promossa dall’Ateneo in questo paese prima dell’estate. Si tratta del manoscritto conosciuto come Kitab al Barbariya, “il libro in berbero”, che contiene un commento alla Mudawwana (raccolta di pareri giuridici e di consuetudini delle prime comunità ibadite) di Abû Ghanim al Khurasani risalente all’VIII-IX secolo d.C. Il ritrovamento di questa copia completa, 896 pagine fotografate quando ancora la Tunisia era sotto il protettorato francese, è stato reso più difficoltoso da un'errata registrazione nei cataloghi dei manoscritti. Il Kitab al Barbariya è diviso in quattordici capitoli che affrontano diversi aspetti della vita e del comportamento del fedele. Nell’ordine: la teologia, la preghiera, l’elemosina, il digiuno, il matrimonio, il divorzio (in ben due capitoli), i risarcimenti alternativi al taglione, le bevande e le relative punizioni, le testimonianze, le vendite e i giudizi, le decisioni e i processi e il relativo commentario e, per finire, l’usura. Spicca l’assenza di un capitolo dedicato al pellegrinaggio. L’autore della raccolta di leggi, importante studioso di diritto, era nato nel Khorasan, regione della Persia orientale, intorno alla metà del 700 d.C. Studiò diritto a Bassora, nell’attuale Iraq, all’epoca il maggiore centro di diritto ibadita. La storia del libro La Mudawwana di Abû Ghanim fu scoperta alla fine dell’Ottocento da Francis Rebillet, un ufficiale dell’esercito francese di stanza in Algeria. Del libro iniziò a occuparsi l’orientalista francese Gustave-Adolphe de Calassanti-Motylinski il quale, scomparso prematuramente nel 1907, non riuscì a pubblicarlo ma potè solo dare comunicazione della scoperta in un congresso di orientalisti nel 1905. Da allora di questo testo si erano perse le tracce. Sembra sia ricomparso negli anni ’70 presso un libraio parigino, che lo avrebbe venduto a un acquirente giapponese. Ma una copia fotografica - cui lo stesso Motylinski accennava nei suoi scritti - doveva ancora esistere, e una ricerca approfondita ha permesso di individuarla, aprendo così nuovi e insperati orizzonti di indagine linguistica e storica su di un mondo fino ad oggi quasi del tutto sconosciuto. Chi sono gli Ibaditi Gli ibaditi sono l'unico ramo oggi esistente dei kharigiti, corrente religiosa islamica che costituisce una "terza via" tra sunniti e sciiti, le cui origini risalgono ai primi tempi dell'Islam. Originari del sud dell’Arabia gli ibaditi si diffusero prima in Oman, dove sono presenti ancora oggi, e successivamente sull’isola di Zanzibar e in Africa Orientale. A partire dal 750 d.C. la loro presenza si estese anche al Nord Africa dove fondarono il regno di Tahert che cadde intorno al Mille a causa degli scontri con la dinastia sciita dei Fatimidi. Oggi gli ibaditi sopravvivono in alcune comunità sparse tra Libia, Tunisia e Algeria dove si parla tuttora il berbero, anche se minacciato dalla progressiva arabizzazione. Molti testi religiosi degli ibaditi, scritti originariamente in berbero, sono oggi conosciuti solo nella loro versione araba. L’altro nome di Dio, le novità sulla lingua berbera Oltre al suo valore storico, questo testo ha un’importanza eccezionale per gli studi di lingua berbera. Esso infatti apporta una massa imponente di dati (quasi 900 pagine, circa 20.000 righe di testo) relativi al berbero usato circa mille anni fa: una lingua in gran parte ancora da decifrare sia per il lessico sia per la morfologia e la sintassi. Non è esagerato affermare che questa scoperta apre un nuovo e importante capitolo negli studi berberi. Tra le curiosità lessicali, emerse dai primi studi che il professor Brugnatelli ha condotto in questi mesi sul testo, ci sono svariate denominazioni di "Dio": Yush corrispondente al nome proprio “Allah”, Bab-ennegh “il nostro signore" e ababay “divinità” che al plurale fa ibabayen. «Si tratta di un nome assolutamente sconosciuto, almeno fino a oggi», spiega Brugnatelli il quale è convinto che lo studio del manoscritto «richiederà molti anni ma potrebbe essere la base per la nascita di una nuova scienza, la paleografia berbera che oggi non esiste ancora ». Tra gli altri termini in lingua berbera vi sono diverse parole riferite alla religione, un ambito semantico dove oggi gli stessi berberi tendono ad usare una terminologia eslusivamente araba. Tra le parole oggi non più usate e per lo più sconosciute vi sono iser (profeta), tira (il libro, il Corano), tazenna (la Sunna o tradizione) e addirittura una parola per Islam, aykuzen. Un altro gruppo di termini, poi, svela l’influsso sull’antica lingua berbera del greco e del latino. Tra questi, “angelo”: anjlus, pl. anjlusen (dal latino angelus); “demonio”: adaymun, pl. idaymunen (dal greco daimon); “ricompensa”: amerkidu (dal latino mercedem); “peccato”: abekkadu (dal latino peccatum)
Il Corano non è increato”. Nel più antico manoscritto berbero, ritrovato in Tunisia, la visione ibadita dell’Islam. Milano, 13 ottobre 2010 - Gli Ibaditi praticavano poco il pellegrinaggio alla Mecca e consideravano i sunniti alla stregua di politeisti perché venerano il Corano quasi come un’entità divina a sé stante. Sono alcune delle anticipazioni che emergono da una prima lettura del più antico testo in lingua berbera finora conosciuto, ritrovato in Tunisia nell’aprile scorso. La scoperta di una copia di questo manoscritto si deve al professor Vermondo Brugnatelli, docente di lingue e letterature del Nordafrica nell’Università di Milano-Bicocca che da anni conduce ricerche e studi sulla lingua e la letteratura berbera, e che ha potuto individuarlo nella Biblioteca Nazionale di Tunisi nel corso dell’ultima campagna di ricerche linguistiche sul campo promossa dall’Ateneo in questo paese prima dell’estate. Si tratta del manoscritto conosciuto come Kitab al Barbariya, “il libro in berbero”, che contiene un commento alla Mudawwana (raccolta di pareri giuridici e di consuetudini delle prime comunità ibadite) di Abû Ghanim al Khurasani risalente all’VIII-IX secolo d.C. Il ritrovamento di questa copia completa, 896 pagine fotografate quando ancora la Tunisia era sotto il protettorato francese, è stato reso più difficoltoso da un'errata registrazione nei cataloghi dei manoscritti. Il Kitab al Barbariya è diviso in quattordici capitoli che affrontano diversi aspetti della vita e del comportamento del fedele. Nell’ordine: la teologia, la preghiera, l’elemosina, il digiuno, il matrimonio, il divorzio (in ben due capitoli), i risarcimenti alternativi al taglione, le bevande e le relative punizioni, le testimonianze, le vendite e i giudizi, le decisioni e i processi e il relativo commentario e, per finire, l’usura. Spicca l’assenza di un capitolo dedicato al pellegrinaggio. L’autore della raccolta di leggi, importante studioso di diritto, era nato nel Khorasan, regione della Persia orientale, intorno alla metà del 700 d.C. Studiò diritto a Bassora, nell’attuale Iraq, all’epoca il maggiore centro di diritto ibadita. La storia del libro La Mudawwana di Abû Ghanim fu scoperta alla fine dell’Ottocento da Francis Rebillet, un ufficiale dell’esercito francese di stanza in Algeria. Del libro iniziò a occuparsi l’orientalista francese Gustave-Adolphe de Calassanti-Motylinski il quale, scomparso prematuramente nel 1907, non riuscì a pubblicarlo ma potè solo dare comunicazione della scoperta in un congresso di orientalisti nel 1905. Da allora di questo testo si erano perse le tracce. Sembra sia ricomparso negli anni ’70 presso un libraio parigino, che lo avrebbe venduto a un acquirente giapponese. Ma una copia fotografica - cui lo stesso Motylinski accennava nei suoi scritti - doveva ancora esistere, e una ricerca approfondita ha permesso di individuarla, aprendo così nuovi e insperati orizzonti di indagine linguistica e storica su di un mondo fino ad oggi quasi del tutto sconosciuto. Chi sono gli Ibaditi Gli ibaditi sono l'unico ramo oggi esistente dei kharigiti, corrente religiosa islamica che costituisce una "terza via" tra sunniti e sciiti, le cui origini risalgono ai primi tempi dell'Islam. Originari del sud dell’Arabia gli ibaditi si diffusero prima in Oman, dove sono presenti ancora oggi, e successivamente sull’isola di Zanzibar e in Africa Orientale. A partire dal 750 d.C. la loro presenza si estese anche al Nord Africa dove fondarono il regno di Tahert che cadde intorno al Mille a causa degli scontri con la dinastia sciita dei Fatimidi. Oggi gli ibaditi sopravvivono in alcune comunità sparse tra Libia, Tunisia e Algeria dove si parla tuttora il berbero, anche se minacciato dalla progressiva arabizzazione. Molti testi religiosi degli ibaditi, scritti originariamente in berbero, sono oggi conosciuti solo nella loro versione araba. L’altro nome di Dio, le novità sulla lingua berbera Oltre al suo valore storico, questo testo ha un’importanza eccezionale per gli studi di lingua berbera. Esso infatti apporta una massa imponente di dati (quasi 900 pagine, circa 20.000 righe di testo) relativi al berbero usato circa mille anni fa: una lingua in gran parte ancora da decifrare sia per il lessico sia per la morfologia e la sintassi. Non è esagerato affermare che questa scoperta apre un nuovo e importante capitolo negli studi berberi. Tra le curiosità lessicali, emerse dai primi studi che il professor Brugnatelli ha condotto in questi mesi sul testo, ci sono svariate denominazioni di "Dio": Yush corrispondente al nome proprio “Allah”, Bab-ennegh “il nostro signore" e ababay “divinità” che al plurale fa ibabayen. «Si tratta di un nome assolutamente sconosciuto, almeno fino a oggi», spiega Brugnatelli il quale è convinto che lo studio del manoscritto «richiederà molti anni ma potrebbe essere la base per la nascita di una nuova scienza, la paleografia berbera che oggi non esiste ancora ». Tra gli altri termini in lingua berbera vi sono diverse parole riferite alla religione, un ambito semantico dove oggi gli stessi berberi tendono ad usare una terminologia eslusivamente araba. Tra le parole oggi non più usate e per lo più sconosciute vi sono iser (profeta), tira (il libro, il Corano), tazenna (la Sunna o tradizione) e addirittura una parola per Islam, aykuzen. Un altro gruppo di termini, poi, svela l’influsso sull’antica lingua berbera del greco e del latino. Tra questi, “angelo”: anjlus, pl. anjlusen (dal latino angelus); “demonio”: adaymun, pl. idaymunen (dal greco daimon); “ricompensa”: amerkidu (dal latino mercedem); “peccato”: abekkadu (dal latino peccatum)
La tecnica della presa in giro
Scritto da Nicolò Vergata domenica 14 ottobre 2012
Quello di Monti è governo tecnico o politico? Il quesito ha arrovellato le più brillanti menti del giornalismo nostrano, cercando di volta in volta di diagnosticare se un singolo provvedimento governativo abbia la natura del primo o del secondo. Ma la risposta, a mio avviso, è semplice: trattasi un governo politico composto da tecnici. Il fatto che non sia stato eletto dal popolo ma nominato e insediato quasi manu militari per l’emergenza non rileva, atteso che, in teoria, la qualifica di tecnico è autonoma rispetto alla funzione politica. Che poi la funzione politica non si riveli democratica, dipende dal tipo di azione che quel governo pone in essere. Essa attiene al momento successivo alla nomina e all’insediamento. In ogni caso, è ovvio che sia più importante il tipo di funzione praticamente svolta che l’essere teoricamente qualificato a svolgerla. Il problema, allora, non è quello di esaminare la qualifica ma di osservare la funzione e se questa è compatibile con la democrazia intesa, però, non secondo l’etimo della parola di origine greca e poi latina di “governo del popolo” cioè eletto dal popolo, ma secondo il più recente significato da essa assunto, cioè di governo che fa l'interesse del popolo. Infatti, il vero senso della democrazia è quello di avere, attraverso libere elezioni, la garanzia che l’eletto faccia l'interesse di chi lo ha eletto. Ma, se caliamo questo ragionamento nella nostra realtà politica e storica, constatiamo che questa garanzia difficilmente si è realizzata. Anzitutto, il nostro sistema elettivo ci ha finora imposto candidati scelti dai partiti e non dagli elettori e il voto è sovente condizionato da loro, mentre ulteriori fattori esterni, non sempre legittimi, incidono pesantemente sulla nomina. Ora, se analizziamo la funzione finora svolta dal governo Monti, la possiamo considerare democratica? Direi proprio che qualche serio e fondato dubbio lo pone: va bene l’emergenza, va bene tutto ma se per democrazia si intende, come l’ho intesa e cioè fare l’interesse del popolo, proprio non ci siamo e non so se pesa di più la qualifica di governo tecnico o la sicurezza che, dato l’anomalo contesto politico, si può confidare in una certa inamovibilità. Si dirà che, abbattendo il debito pubblico, lo spread, e tutto il resto, si fa l’interesse del popolo. Ciò sarebbe vero se non fosse che solo il popolo, anzi quello più debole è chiamato a pagare, con propri grandi sacrifici, colpe non sue ma ascrivibili a lobbies internazionali, ai poteri forti, alle banche speculatrici e, non ultima, a buona parte della classe politica nostrana. egoista, sperperona e truffaldina e che, quanto meno, aveva il dovere di vigilare. Non dimentichiamo che questo governo, inizialmente, ha tentato di giustificare le pesanti tasse sulla classe media con l’accusa di aver finora vissuto con un tenore di vita al di sopra delle proprie possibilità. Cosa, ovviamente, non plausibile, atteso che se non ci sono i soldi in tasca non si possono fare vacanze, viaggi e persino prendersi una tazza di caffè al bar. Invece, i veri colpevoli la fanno franca e gli innocenti pagano. E questa non è una funzione democratica. Il fatto, poi, che i due più grandi partiti della maggioranza più quello di centro, appoggino incondizionatamente l’attuale governo tecnico, conferendogli un alone di legittimità democratica, come funziona: lo sostengono più per difficoltà interne che per intima condivisione dell’azione. Formalmente acconsentono, salvando la faccia con innocue critiche e con appariscenti sfilate di piazza ma, in realtà ingoiano continuamente rospi pur di prepararsi le poltrone non ancora sicure. Se proprio vogliamo trovare una cosa buona in questo anomalo e nuovo assetto politico è che siamo di fronte alla dimostrazione che per governare un Paese come il nostro ci vuole un governo meno dipendente dalle miserevoli lotte tra i partiti. Un esecutivo che possa governare. Lo sostenne Berlusconi ma fu subito crocifisso. L’attuale governo è in grado di governare con una certa arroganza e sopraffazione e, in caso di brontolii, pone la fiducia e il gioco è fatto. Il guaio è che sta governando male, tartassando le classi medie senza né sviluppo, né equità, né colpendo i veri colpevoli. E questo non è democrazia. In particolare, la classe media e gli statali, sono quelli da cui spremere alla fonte il denaro senza possibilità di difesa. Un metodo tradizionale che non abbisognava di un economista per applicarlo. Ma quello che crea malcontento è non poter conoscere come verrà utilizzato il bottino acquisito d’imperio: ad esempio, le banche hanno ottenuto miliardi dalla Bce con il formale scopo di erogare credito alle imprese e far ripartire l’economia. Ma non è stato concepito alcun vincolo e alcuna sanzione, per cui gli istituti di credito hanno preferito rivolgere questi fondi verso speculazioni ad alto rischio, con il silente beneplacito del governo. Un altro esempio: ogni giorno si sentono sequestri di beni di mafiosi dal valore di molti milioni. Il governo perché non li vende, invece di regalare gli immobili ai Comuni competenti per territorio, i cui amministratori li assegnano poi a familiari e amici previa nascita di false Onlus? Si dice che se si mettessero all’asta li ricomprerebbe la mafia. Meglio! Vuol dire che glieli risequestriamo e guadagneremo il doppio con gli stessi beni. Lo chiamano “patto di stabilità”, ma chi è la controparte? I patti presuppongono l’incontro di volontà paritarie. Qui non siamo più nell’emergenza. Siamo nell’arroganza del potere. Niente di nuovo sotto il sole: anche i governi tecnici riproducono la vecchia concezione politica del popolo bue. Anzi, mi sembra che il governo tecnico sia un prodromo per l’instaurazione di una monarchia ereditaria, dove il re succede a sé stesso e i partiti fanno da vassalli e valvassori. Chiamiamolo, allora, come si vuole: governo tecnico, tecnico-politico, politico-tecnico, la sostanza non cambia. E chiamiamo il suo operato come si vuole: manovra, patto, riforma, misure urgenti… ma sempre presa in giro della “vile plebaglia” (come chiamava il popolo Ettore Petrolini nelle vesti di Nerone) si tratta. Un altro esempio? Con l’ultima legge di stabilità, si abbassano le aliquote Irpef più basse che fanno gioire i falsi poveri e lasciano indifferente chi va a mangiare alla mensa della Caritas. Che poi non si dica che questo governo non pensa al sociale. In compenso lascia in tela di brache la classe media e i pensionati, quelli che sono considerati ricchi perché percepiscono ben duemila euro al mese e che il governo immagina che se li spendano tutti in divertimenti, ignorando che i padri devono sostenere i figli disoccupati, i nonni devono sostenere i nipoti… Questo non importa. E allora giù con inique decurtazioni, tagli e altre marchingegni fiscali del genere. Inoltre, in un sadico intento di maggiore presa per i fondelli, il governo prima fa credere che l’Iva diminuirà di un punto, poi a frittata cotta, apprendiamo che la diminuzione riguarda l’aumento di un punto anziché di due. L’olio di ricino, così, è più digeribile. Perché, allora, non ci diceva che l’aumento era solo di un punto anziché di quattro? Saremmo stati più contenti e avremmo detto “Com’è buono lei !”. Così il popolo, distolto dalla ricerca del pane quotidiano, zittisce e non reagisce, subisce e non percepisce e il potere su di lui infierisce. Siamo come al Casinò: noi mettiamo i soldi ma il banco vince sempre. E l’Equità? Buoni! Anche qui il governo ci è venuto incontro: ha promesso che Equitalia sarà più umana. D’ora in avanti il pagamento sarà, come dicono nelle Tv commerciali “A vostra scelta”. O anticipato o contanti. Fino a quando abuseranno della nostra pazienza?
Scritto da Nicolò Vergata domenica 14 ottobre 2012
Quello di Monti è governo tecnico o politico? Il quesito ha arrovellato le più brillanti menti del giornalismo nostrano, cercando di volta in volta di diagnosticare se un singolo provvedimento governativo abbia la natura del primo o del secondo. Ma la risposta, a mio avviso, è semplice: trattasi un governo politico composto da tecnici. Il fatto che non sia stato eletto dal popolo ma nominato e insediato quasi manu militari per l’emergenza non rileva, atteso che, in teoria, la qualifica di tecnico è autonoma rispetto alla funzione politica. Che poi la funzione politica non si riveli democratica, dipende dal tipo di azione che quel governo pone in essere. Essa attiene al momento successivo alla nomina e all’insediamento. In ogni caso, è ovvio che sia più importante il tipo di funzione praticamente svolta che l’essere teoricamente qualificato a svolgerla. Il problema, allora, non è quello di esaminare la qualifica ma di osservare la funzione e se questa è compatibile con la democrazia intesa, però, non secondo l’etimo della parola di origine greca e poi latina di “governo del popolo” cioè eletto dal popolo, ma secondo il più recente significato da essa assunto, cioè di governo che fa l'interesse del popolo. Infatti, il vero senso della democrazia è quello di avere, attraverso libere elezioni, la garanzia che l’eletto faccia l'interesse di chi lo ha eletto. Ma, se caliamo questo ragionamento nella nostra realtà politica e storica, constatiamo che questa garanzia difficilmente si è realizzata. Anzitutto, il nostro sistema elettivo ci ha finora imposto candidati scelti dai partiti e non dagli elettori e il voto è sovente condizionato da loro, mentre ulteriori fattori esterni, non sempre legittimi, incidono pesantemente sulla nomina. Ora, se analizziamo la funzione finora svolta dal governo Monti, la possiamo considerare democratica? Direi proprio che qualche serio e fondato dubbio lo pone: va bene l’emergenza, va bene tutto ma se per democrazia si intende, come l’ho intesa e cioè fare l’interesse del popolo, proprio non ci siamo e non so se pesa di più la qualifica di governo tecnico o la sicurezza che, dato l’anomalo contesto politico, si può confidare in una certa inamovibilità. Si dirà che, abbattendo il debito pubblico, lo spread, e tutto il resto, si fa l’interesse del popolo. Ciò sarebbe vero se non fosse che solo il popolo, anzi quello più debole è chiamato a pagare, con propri grandi sacrifici, colpe non sue ma ascrivibili a lobbies internazionali, ai poteri forti, alle banche speculatrici e, non ultima, a buona parte della classe politica nostrana. egoista, sperperona e truffaldina e che, quanto meno, aveva il dovere di vigilare. Non dimentichiamo che questo governo, inizialmente, ha tentato di giustificare le pesanti tasse sulla classe media con l’accusa di aver finora vissuto con un tenore di vita al di sopra delle proprie possibilità. Cosa, ovviamente, non plausibile, atteso che se non ci sono i soldi in tasca non si possono fare vacanze, viaggi e persino prendersi una tazza di caffè al bar. Invece, i veri colpevoli la fanno franca e gli innocenti pagano. E questa non è una funzione democratica. Il fatto, poi, che i due più grandi partiti della maggioranza più quello di centro, appoggino incondizionatamente l’attuale governo tecnico, conferendogli un alone di legittimità democratica, come funziona: lo sostengono più per difficoltà interne che per intima condivisione dell’azione. Formalmente acconsentono, salvando la faccia con innocue critiche e con appariscenti sfilate di piazza ma, in realtà ingoiano continuamente rospi pur di prepararsi le poltrone non ancora sicure. Se proprio vogliamo trovare una cosa buona in questo anomalo e nuovo assetto politico è che siamo di fronte alla dimostrazione che per governare un Paese come il nostro ci vuole un governo meno dipendente dalle miserevoli lotte tra i partiti. Un esecutivo che possa governare. Lo sostenne Berlusconi ma fu subito crocifisso. L’attuale governo è in grado di governare con una certa arroganza e sopraffazione e, in caso di brontolii, pone la fiducia e il gioco è fatto. Il guaio è che sta governando male, tartassando le classi medie senza né sviluppo, né equità, né colpendo i veri colpevoli. E questo non è democrazia. In particolare, la classe media e gli statali, sono quelli da cui spremere alla fonte il denaro senza possibilità di difesa. Un metodo tradizionale che non abbisognava di un economista per applicarlo. Ma quello che crea malcontento è non poter conoscere come verrà utilizzato il bottino acquisito d’imperio: ad esempio, le banche hanno ottenuto miliardi dalla Bce con il formale scopo di erogare credito alle imprese e far ripartire l’economia. Ma non è stato concepito alcun vincolo e alcuna sanzione, per cui gli istituti di credito hanno preferito rivolgere questi fondi verso speculazioni ad alto rischio, con il silente beneplacito del governo. Un altro esempio: ogni giorno si sentono sequestri di beni di mafiosi dal valore di molti milioni. Il governo perché non li vende, invece di regalare gli immobili ai Comuni competenti per territorio, i cui amministratori li assegnano poi a familiari e amici previa nascita di false Onlus? Si dice che se si mettessero all’asta li ricomprerebbe la mafia. Meglio! Vuol dire che glieli risequestriamo e guadagneremo il doppio con gli stessi beni. Lo chiamano “patto di stabilità”, ma chi è la controparte? I patti presuppongono l’incontro di volontà paritarie. Qui non siamo più nell’emergenza. Siamo nell’arroganza del potere. Niente di nuovo sotto il sole: anche i governi tecnici riproducono la vecchia concezione politica del popolo bue. Anzi, mi sembra che il governo tecnico sia un prodromo per l’instaurazione di una monarchia ereditaria, dove il re succede a sé stesso e i partiti fanno da vassalli e valvassori. Chiamiamolo, allora, come si vuole: governo tecnico, tecnico-politico, politico-tecnico, la sostanza non cambia. E chiamiamo il suo operato come si vuole: manovra, patto, riforma, misure urgenti… ma sempre presa in giro della “vile plebaglia” (come chiamava il popolo Ettore Petrolini nelle vesti di Nerone) si tratta. Un altro esempio? Con l’ultima legge di stabilità, si abbassano le aliquote Irpef più basse che fanno gioire i falsi poveri e lasciano indifferente chi va a mangiare alla mensa della Caritas. Che poi non si dica che questo governo non pensa al sociale. In compenso lascia in tela di brache la classe media e i pensionati, quelli che sono considerati ricchi perché percepiscono ben duemila euro al mese e che il governo immagina che se li spendano tutti in divertimenti, ignorando che i padri devono sostenere i figli disoccupati, i nonni devono sostenere i nipoti… Questo non importa. E allora giù con inique decurtazioni, tagli e altre marchingegni fiscali del genere. Inoltre, in un sadico intento di maggiore presa per i fondelli, il governo prima fa credere che l’Iva diminuirà di un punto, poi a frittata cotta, apprendiamo che la diminuzione riguarda l’aumento di un punto anziché di due. L’olio di ricino, così, è più digeribile. Perché, allora, non ci diceva che l’aumento era solo di un punto anziché di quattro? Saremmo stati più contenti e avremmo detto “Com’è buono lei !”. Così il popolo, distolto dalla ricerca del pane quotidiano, zittisce e non reagisce, subisce e non percepisce e il potere su di lui infierisce. Siamo come al Casinò: noi mettiamo i soldi ma il banco vince sempre. E l’Equità? Buoni! Anche qui il governo ci è venuto incontro: ha promesso che Equitalia sarà più umana. D’ora in avanti il pagamento sarà, come dicono nelle Tv commerciali “A vostra scelta”. O anticipato o contanti. Fino a quando abuseranno della nostra pazienza?
Il senso del nulla
Passiamo una vita
a cercare
il senso delle cose,
ma non lo troviamo mai.
Allora, per non impazzire, per non morire, inventiamo un surrogato di senso che attribuiamo al nostro esistere.
Ma, in fondo, nulla ha un senso e solo il nulla ha senso.
Il senso del nulla
di FIORELLA CARCERERI
Allora, per non impazzire, per non morire, inventiamo un surrogato di senso che attribuiamo al nostro esistere.
Ma, in fondo, nulla ha un senso e solo il nulla ha senso.
Il senso del nulla
di FIORELLA CARCERERI
LA SFORTUNATA VICENDA DEL TITANIC, TUTTA COLPA DI UNA MALEDIZIONE?
Il 15 aprile del 1912, una nave alla sua prima traversata tra Southampton e New York affondò trascinando con sé 1498 passeggeri. Si trattava del Titanic, definito “l’inaffondabile”, un prestigioso transatlantico proprietà della White Star Line.
Le cause del disastro furono attribuite ufficialmente alla collisione tra la nave e un grosso iceberg che avrebbe squarciato, in maniera molto grave, parte della sua fiancata destra.
In oltre novant’anni sono state avanzate le ipotesi più disparate sulla causa, o le cause, che provocarono quella terribile disgrazia, dall’errore umano alla sfortuna di schiantarsi sull’iceberg nell’attimo sbagliato. Infatti è stato affermato da parecchi studiosi che se il Titanic avesse virato dieci secondi prima avrebbe sicuramente evitato la collisione, mentre se lo avesse fatto dieci secondi più tardi avrebbe spaccato l’iceberg con la sua robustissima chiglia riportando così dei danni meno gravi di quelli subiti. Questo in base a calcoli e simulazioni effettuate tramite computer.
Ma abbandoniamo per un attimo le congetture logiche e razionali per fare un breve viaggio nel mondo dell’irrazionale. La vera causa potrebbe risiedere in un’antica maledizione.
Facciamo un salto al Cairo nell’anno 1910, due anni prima della disgrazia del Titanic, quando un americano di cui non è noto il nome avvicinò l’egittologo inglese Douglas Murray, proponendogli l’acquisto di un prezioso reperto. Si trattava di un sarcofago rinvenuto nel tempio di Ammon-ra, appartenente ad una principessa di rango vissuta a Tebe attorno al 1600 a.C.
All’esterno del sarcofago erano raffigurate in smalto e oro, con tecnica raffinata, le fattezze della principessa. Il sarcofago si presentava in perfette condizioni di conservazione. Murray non si lasciò sfuggire l’occasione e staccò subito un assegno all’americano, il quale non arrivò mai ad incassarlo perché morì la sera stessa. Nel frattempo Murray aveva già preso provvedimenti affinché il sarcofago venisse spedito nella sua casa di Londra. Un altro egittologo che si trovava al Cairo raccontò a Murray la sinistra storia legata al sarcofago. La principessa di Ammon-ra, sacerdotessa del culto dei morti, aveva fatto incidere sulle pareti della sua camera mortuaria un inquietante monito: su chiunque avesse spogliato il suo sacello si sarebbero abbattute disgrazie e terrore. Douglas Murray, però, si fece beffe di quella superstizione fino a tre giorni dopo, quando un fucile gli esplose misteriosamente in mano, durante una battuta di caccia lungo il Nilo. Dopo una settimana di atroci sofferenze in ospedale, il braccio rimastogli ferito dovette essere amputato all’altezza del gomito.
Quello non fu che l’inizio. Durante il suo viaggio di ritorno in Gran Bretagna, due amici di Murray morirono per “cause ignote”. Inoltre i due domestici egiziani che avevano trasportato la mummia morirono nel giro di un anno o poco più. Per Murray quel sarcofago diventò un’ossessione. Quando vi posava gli occhi, il viso modellato della principessa sembrava tornare in vita con uno sguardo che gelava il sangue. Alla fine decise di disfarsene ma una sua amica lo convinse a consegnarglielo. In poche settimane la madre della donna morì, lei fu abbandonata dal suo innamorato e in seguito venne colpita da una sconosciuta malattia da deperimento. Alla fine lasciò come disposizione testamentaria che il sarcofago dovesse ritornare a Douglas Murray. Però Murray, ormai malridotto, non ne volle più sapere e donò il sarcofago al British Museum. Anche all’interno di questa istituzione, ben nota per il suo rigore scientifico, il sarcofago acquistò un’oscura fama. Un fotografo che aveva scattato alcune foto morì sul colpo, mentre un egittologo responsabile di quel sinistro reperto fu trovato morto nel suo letto. A questo punto gli amministratori del museo si riunirono in gran segreto, votando all’unanimità di spedire il sarcofago ad un museo di New York, che aveva accettato il dono a patto che però venisse consegnato senza troppa pubblicità e con un mezzo fra i più sicuri. Il sarcofago non raggiunse mai New York, perché si trovava proprio nella stiva del Titanic quando affondò.
Coincidenza? Disgrazia? O la maledizione della principessa aveva colpito ancora una volta? Un’enorme incognita rimane per adesso sospesa su queste domande, ma forse un giorno qualcuno riuscirà a trovare delle risposte concrete per svelare questo inquietante mistero.
Luigi M.C. Urso.
All’esterno del sarcofago erano raffigurate in smalto e oro, con tecnica raffinata, le fattezze della principessa. Il sarcofago si presentava in perfette condizioni di conservazione. Murray non si lasciò sfuggire l’occasione e staccò subito un assegno all’americano, il quale non arrivò mai ad incassarlo perché morì la sera stessa. Nel frattempo Murray aveva già preso provvedimenti affinché il sarcofago venisse spedito nella sua casa di Londra. Un altro egittologo che si trovava al Cairo raccontò a Murray la sinistra storia legata al sarcofago. La principessa di Ammon-ra, sacerdotessa del culto dei morti, aveva fatto incidere sulle pareti della sua camera mortuaria un inquietante monito: su chiunque avesse spogliato il suo sacello si sarebbero abbattute disgrazie e terrore. Douglas Murray, però, si fece beffe di quella superstizione fino a tre giorni dopo, quando un fucile gli esplose misteriosamente in mano, durante una battuta di caccia lungo il Nilo. Dopo una settimana di atroci sofferenze in ospedale, il braccio rimastogli ferito dovette essere amputato all’altezza del gomito.
Quello non fu che l’inizio. Durante il suo viaggio di ritorno in Gran Bretagna, due amici di Murray morirono per “cause ignote”. Inoltre i due domestici egiziani che avevano trasportato la mummia morirono nel giro di un anno o poco più. Per Murray quel sarcofago diventò un’ossessione. Quando vi posava gli occhi, il viso modellato della principessa sembrava tornare in vita con uno sguardo che gelava il sangue. Alla fine decise di disfarsene ma una sua amica lo convinse a consegnarglielo. In poche settimane la madre della donna morì, lei fu abbandonata dal suo innamorato e in seguito venne colpita da una sconosciuta malattia da deperimento. Alla fine lasciò come disposizione testamentaria che il sarcofago dovesse ritornare a Douglas Murray. Però Murray, ormai malridotto, non ne volle più sapere e donò il sarcofago al British Museum. Anche all’interno di questa istituzione, ben nota per il suo rigore scientifico, il sarcofago acquistò un’oscura fama. Un fotografo che aveva scattato alcune foto morì sul colpo, mentre un egittologo responsabile di quel sinistro reperto fu trovato morto nel suo letto. A questo punto gli amministratori del museo si riunirono in gran segreto, votando all’unanimità di spedire il sarcofago ad un museo di New York, che aveva accettato il dono a patto che però venisse consegnato senza troppa pubblicità e con un mezzo fra i più sicuri. Il sarcofago non raggiunse mai New York, perché si trovava proprio nella stiva del Titanic quando affondò.
Coincidenza? Disgrazia? O la maledizione della principessa aveva colpito ancora una volta? Un’enorme incognita rimane per adesso sospesa su queste domande, ma forse un giorno qualcuno riuscirà a trovare delle risposte concrete per svelare questo inquietante mistero.
Luigi M.C. Urso.
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Riporto l'elenco incompleto, ma non per questo meno interessante, degli ingredienti del vaccino, che cambia un po' in ogni ditta produttric...
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Baccarat: un cristallo dalle mille sfaccettature
Dal 1764, la celebre cristalleria, situata in Lorena, detiene un eccezionale know-how nel campo delle arti decorative. Le sue creazioni vengono acquistate da clienti prestigiosi, provenienti da tutto il mondo.
Caso o coincidenza? L’epopea del Baccarat inizia a metà del Secolo dei Lumi. La Lorena era già una regione tradizionalmente rinomata per l’arte vetraria quando, nel 1764, Luigi XV autorizza l’installazione di una fabbrica in questo villaggio, sulla riva destra della Meurthe. In breve tempo, la fabbrica ottiene un prestigio incomparabile. Ammirato dalla "raffinatezza e bellezza dell’opera", Luigi XVIII diventa cliente nel 1823, seguito da maharajah del Rajasthan, corti imperiali giapponesi, sovrani arabi e dell’impero ottomano, senza dimenticare la corte russa, alla quale la Fabbrica riserverà addirittura un forno! E ovviamente non possono mancare all’appello monarchi e presidenti della Repubblica francese.
Grazie alla purezza e ai giochi di luce che giungono sino al cuore del cristallo, il servizio Harcourt si rivela un successo, ma saranno i pezzi colorati a rendere celebre il cristallo Baccarat. Ottenuto con l’aggiunta di polvere d’oro, il rosso rubino, il colore della passione, ha un successo immediato. Seguiranno il "blu celeste", il rosa, il "verde crisoprasio", il "blu cobalto", "l’ametista" e "l’onice", un cristallo nero sulla cui composizione si mantiene tutt’ora il riserbo più assoluto.
Oggi, i flaconi di profumo delle case più prestigiose (Boucheron, Cartier, Dior, Guerlain) sono realizzati in cristallo Baccarat. E il know-how dei suoi artigiani vetrai ispira le visioni più folli. Philippe Airaud, Elie Top e Stefano Poletti sposano il cristallo all’oro, all’argento o alla ceramica e fanno scintillare sulla pelle delle donne straordinari gioielli dai colori del tempo.
Il video che vi propongo è in lingua francese , ma non servono le parole per ammirare l'opera di questi eccezionali maestri... Buona visione !
Il video che vi propongo è in lingua francese , ma non servono le parole per ammirare l'opera di questi eccezionali maestri... Buona visione !
USI E COSTUMI DELL'ANTICA ROMA
L’EDUCAZIONE DELLA RAGAZZA Agli inizi della Repubblica, le figlie erano considerate effettivamente delle piccole madri: apprendevano a cucinare, a filare e a tessere: Più tardi, nelle famiglie tradizionaliste, le figlie continuavano a filare e a tessere; fierissimo, il padre faceva ammirare agli amici la toga tessuta dalla figlia La figlia di una famiglia agiata era affidata alle cure di una nutrice greca che le raccontava le prime favole in lingua greca. La ragazza doveva imparare a dipingere, poiché la madre pensava che ciò le sarebbe più tardi servito nella scelta dei tappeti e dei tendaggi per la sua casa. Imparava anche a cantare, a danzare e a suonare alcuni strumenti. Se la famiglia non aveva precettore, a 6 anni la fanciulla veniva mandata a scuola per imparare a leggere e a scrivere. Verso i 10 anni veniva fidanzata dal padre o dal tutore, che le sceglievano il futuro sposo, a volte anche con l’aiuto di un sensale di matrimoni. Il futuro sposo regalava alla fidanzata un anello di fidanzamento d’oro o di ferro su cui aveva fatto incidere due mani che si stringevano. Il matrimonio avveniva alcuni anni dopo. Alla fine della Repubblica, essendo divenuto il divorzio un fatto assai comune, non era difficile vedere uomini o donne che si sposavano quattro cinque o volte . Cesare si sposò quattro volte; Cicerone divorziò da sua moglie per sposare un’ereditiera più giovane della figlia Tullia. Sua moglie però non si disperò a lungo. Si risposò infatti per ben due volte. Quando il matrimonio veniva celebrato religiosamente, la futura sposa portava sul capo un velo arancione sormontato da una corona di fiori d’arancio. Dopo aver firmato il contratto di matrimonio, una matrona la conduceva dal suo sposo. Anche presso i Romani, come presso i Greci, la sposa superava la soglia della casa fra le braccia del marito. Verso la fine della Repubblica, il matrimonio generalmente si limitava a una cerimonia civile. Lo sposo, davanti ai testimoni, domandava alla sposa se voleva diventare "madre di famiglia": ella rispondeva di sì e a sua volta domandava allo sposo se voleva diventare " padre di famiglia": Dopo di che, essi erano legalmente marito e moglie. Benché la sposa potesse disporre liberamente dei propri beni e della propria dote, in realtà il capo di casa era sempre il marito. Ma secondo quanto diceva un romano: "Noi governiamo il mondo, ma sono le nostre mogli a governare noi". Non era cosa rara che una sposa dodicenne abbandonasse la casa paterna per stabilirsi nella propria, passando per così dire dalla balia alla vita pubblica. Altre donne si occupavano di politica, preparavano le campagne elettorali in occasione delle elezioni e addirittura dipingevano frasi di incitamento sui muri delle case. Dopo le elezioni, iscrizioni del genere venivano cancellate con una mano di calce. Avendo il Senato proposto un giorno una legge tendente a limitare i gioielli di proprietà di una donna, una matrona infuriata tenne nel Foro, il luogo delle pubbliche riunioni, un discorso così violento che la legge fu subito abrogata. Negli ultimi anni della Repubblica vi furono perfino avvocatesse che difendevano i loro clienti nei tribunali. Durante l’Impero, donne di nobili famiglie lottarono come gladiatori nell’arena, parteciparono a incontri di lotta e guidarono carri durante la caccia al cinghiale. La matrona romana formosa era ormai una figura del passato: le ragazze portavano busti fin dall’infanzia . Quelle che non avevano forme snelle e aggraziate erano considerate "lottatrici". Tuttavia le matrone romane non persero mai il oro coraggio. Quando l’imperatore Claudio ordinò a Cecina Peto di uccidersi e questi esitò per paura, la sua sposa si pugnalò, estrasse il pugnale dalla ferita e lo tese al marito dicendo: " Non fa male, Peto": Sulla tomba delle loro spose i Romani facevano incidere epitaffi di questo genere: "Viandante, breve è il mio messaggio; arrestati leggi ! Questa pietra odiosa copre una bella donna"
VESTI E ORNAMENTI FEMMINILI Mentre nel mondo moderno l’abbigliamento della donna si distingue nettamente da quello dell’uomo, in Roma la differenza non consisteva tanto nella foggia del vestire quanto piuttosto nei tessuti impiegati e nella varietà dei colori. Anche le donne usano la tunica, più lunga di quella maschile; su di essa indossano la "stola" che è la veste caratteristica della matrona romana, così come la toga è il costume nazionale degli uomini. La stola, che ha subito attraverso il tempo vari mutamenti a seconda della moda, è una sopravveste molto ampia che scende sino ai piedi; è stretta in vita da una cintura (talvolta le cinture sono due, una più alta e l’altra sui fianchi) ed è chiusa sul petto da una fibbia, oppure sulle spalle da bottoni ornati di pietre preziose; le maniche possono essere lunghe o corte: nella parte inferiore la stola è ornata da una striscia di porpora o da una balza ricamata in oro. Per uscire in pubblico, nei primi secoli dell’età repubblicana le matrone usavano gettare sulla stola un mantello quadrato di dimensioni piuttosto limitate, cui si va sostituendo, con il passar del tempo, la "palla" ossia un grande manto rettangolare che, a differenza della toga maschile, copre entrambe le spalle; può essere lungo fino ai piedi, ma generalmente scende fin sotto le ginocchia. In pubblico la donna talvolta si copre la testa con un lembo della palla; nei tempi antichi lo faceva sempre, poiché alla lana ed al lino vanno sostituendosi nell’età imperiale i tessuti misti: lana e cotone; cotone e lino, cotone e seta. Le donne amano soprattutto le stoffe fini e leggere, come la seta che rappresenta il massimo dell’eleganza e della raffinatezza. Anche nell’ambito dei colori vi è una larga possibilità di scelta: abilissimi tintori hanno creato tutta una gamma di sfumature che soddisfano qualsiasi esigenza. I gioielli: ecco la grande passione delle donne romane! Un tempo, nei primi secoli della Repubblica, il lusso eccessivo delle vesti e degli ornamenti era severamente riprovato dai Censori; allora l’austerità e la semplicità caratterizzavano ancora la vita del popolo romano. Poi vennero le grandi conquiste degli ultimi due secoli prima di Cristo e con le conquiste si operò una profonda trasformazione materiale e morale nella vita e nei costumi dei cittadini: la ricchezza ed il lusso ebbero un enorme incremento, le leggi che ogni tanto venivano emanate dal Senato per limitare le spese del vestiario, dei banchetti, degli ornamenti, rimanevano senza alcuna efficacia pratica: nessuno si curava di osservarle. Patrizi e grossi borghesi vanno a gara nel coprire di ornamenti preziosi le mogli e le figlie, per ostentare davanti a tutta la città la loro ricchezza ed il loro sfarzo; le donne, dal canto loro, si danno da fare per non rimanere indietro in questa competizione che solletica la loro vanità: pretendono pietre sempre più rare, le gemme più costose e si mettono addosso interi patrimoni. E naturalmente c’è chi esagera in questo sfoggio di gioielli e si trasforma in una specie di vetrina ambulante con risultati ridicoli. La varietà degli ornamenti femminili è enorme: vi sono diademi di metallo prezioso, nastri ornati di gemme che si inseriscono tra i capelli; spille e fibbie in oro e argento; anelli con pietre preziose che si portano non solo alle dita delle mani, ma anche a quelle dei piedi o intorno alla caviglia; braccialetti in oro massiccio; collane di perle e pendenti in smeraldo che adornano il collo ed il petto. Fra gli orecchini sono di gran moda i "crotalia" e cioè dei pendenti doppi che hanno all’estremità una perla; quando la donna cammina, producono un piacevole tintinnio. Affinché i l quadro sia completo ricordiamo ancora alcuni accessori che una signora veramente elegante non dimentica mai quando esce di casa: la borsetta, il ventaglio e l’ombrellino. I ventagli non sono pieghevoli come i nostri, ma rigidi: sono fatti di piume di pavone dai brillanti colori, oppure di foglie di loto.
L’EDUCAZIONE DEL RAGAZZO Nove giorni dopo la nascita, il padre dava al figlio un nome, poi gli poneva al collo un piccolo amuleto d’oro o di bronzo o di cuoio, chiamato bulla e destinato a scacciare il " malocchio"; il ragazzi lo conservava fino alla maggior età. Nei primi tempi della repubblica il ragazzo veniva allevato dalla madre o da una vecchia parente; in seguito se la sua famiglia poteva permetterselo, egli veniva educato da una schiava greca apprendendo cosi’ a parlare il greco contemporaneamente al latino. I suoi passatempi erano il gioco a mosca cieca, la trottola, il cavallo di legno, i trampoli. Di solito era il padre che gli insegnava a leggere, scrivere nuotare e cavalcare. Un padre ricco poteva servirsi di un liberto o comperare uno schiavo colto perché facesse da precettore al figlio; altrimenti a sette anni il ragazzo veniva mandato a scuola. Le lezioni non si svolgevano in un edificio apposito; il maestro stesso affittava una stanza in qualche retrobottega oppure faceva lezione sul tetto a terrazza di una casa qualsiasi. Chiunque poteva aprire una scuola purché naturalmente trovasse allievi paganti. Le lezioni cominciavano piuttosto presto. Il ragazzo usciva di casa prima dell’alba, rischiarandosi il cammino con una lanterna. Il povero portava da se stesso il sacco con le tavolette incerate e comperava per via un pezzo di pane per la colazione; il ricco invece, si faceva accompagnare da uno schiavo che gli portava i libri. Il problema principale del maestro era quello di mantenere la disciplina. Se insegnava in una bottega, l’aula era separata dai rumori della strada soltanto da una tenda. L’insegnante era spesso un liberto che aveva imparato a leggere e scrivere quando ancora era schiavo; ma poteva anche essere un ex lottatore oppure un mimo, che i figli dei liberi cittadini non rispettavano minimamente. Le lezioni duravano sei ore, con una pausa per la colazione a mezzogiorno . A volte invece di tornare a scuola dopo l’intervallo gli allievi si intrufolavano nel circolo per vedere le corse dei carri. Durante la repubblica l’anno scolastico contava più di un centinaio di giorni festivi durante i quali la scuola era chiusa, senza tener conto naturalmente delle vacanze estive. Per cinque anni l’allievo imparava a leggere a fare di conto (addizioni sottrazioni, moltiplicazioni e divisioni fatte con l’aiuto di un abbaco). L’abbaco più semplice era costituito da una scatola di sabbia con dischi metallici mobili. Gli abbachi più complicati, o pallottolieri, erano composti o di asticelle sulle quali si facevano scorrere alcune palline di legno colorate. L’insegnante stava seduto su una sedia, mentre gli allievi sedevano su panche e tenevano sulle ginocchia le tavolette per scrivere. Incidevano le lettere sulla cera mediante una cannuccia appuntita di ferro chiamata stylum (da cui e’ derivata la parola "stilografica"). Le lettere che essi tracciavano, erano praticamente identiche a quelle in cui noi ci serviamo oggi. A dodici anni il ragazzo iniziava lo studio, a casa o a scuola, della letteratura sotto la guida di un grammatico, generalmente greco, dell’Asia o di Egitto. Gli allievi dovevano arrivare a parlare, a leggere e a scrivere il greco correttamente come il latino. I Romani si burlavano di quei grammatici che tenevano corsi di lezione su argomenti assurdi: per esempio su quali fossero i canti delle sirene. Nei primi tempi della Repubblica, il ragazzo diventava ufficialmente uomo a 17 anni. Deponeva allora la "bulla" e la toga praetexta con un fregio rosso, per indossare la toga tutta bianca o toga virilis. Ormai era un cittadini che doveva prestare servizio nell’esercito. Verso la fine della Repubblica e sotto l’Impero, il ragazzo poteva a volte indossare la toga virilis gia’ a 14 anni senza per questo dover servire nell’esercito. Dopo aver rivestito la toga virile, il giovane studiava la filosofia e l’oratoria. Alla fine della Repubblica si recava anche all’estero: ad Atene ad Alessandria e Rodi. Cesare Cicerone e il poeta Orazio studiarono all’estero. Più tardi, ai tempi dell’impero il giovane poteva ricevere questa formazione "universitaria" anche nel suo paese, poiché gli imperatori favorirono l’istruzione superiore fondando nuove scuole e distribuendo borse di studio agli studenti poveri.
L’ABBIGLIAMENTO MASCHILE Su di una specie di camicia di lino piuttosto corta e a diretto contatto con la pelle, il romano infila la "tunica", ossia una veste di lana formata da due pezzi di stoffa cuciti insieme e tenuta stretta intorno al corpo da una cintura piuttosto bassa sui fianchi; la tunica cade in modo ineguale: fin sul ginocchio davanti, un po’ più lunga dietro. Le maniche o mancano del tutto o non arrivano all’altezza del gomito; solo gli effeminati usano tuniche lunghe fino alla caviglia, senza cintura e con maniche fino ai polsi, il che è considerato, almeno nell’età repubblicana e nei primi secoli dell’Impero cosa assai riprovevole. La tunica è la veste che si indossa nell’intimità della casa, in campagna, in provincia ; è la veste che usa la gente che lavora, perché è semplice e pratica. Quando fa freddo si mettono due o più tuniche l’una sull’altra. Ornamento più comune della tunica è una striscia di porpora che serve a determinare l’ordine o la classe sociale cui si appartiene: quella dei senatori è molto larga, più ridotta quella dei cavalieri. Vi è poi la tunica "palmata" adorna di splendidi ricami che indossano i generali vincitori durante il trionfo. Il cittadino romano prima di uscire di casa si avvolge nella "toga": è questo l’abito ufficiale dei romani, inseparabile da tutte le manifestazioni della loro attività civica. La toga è stata usata fin dai tempi antichissimi; essa costituisce il costume nazionale e distintivo dei romani. La toga è un manto di lana bianca pesante, tutto di un pezzo; le sue dimensioni e il modo con cui si avvolge intorno al corpo hanno subito vari mutamenti attraverso i secoli. Alle origini doveva essere una specie di coperta di forma quadrata che si gettava semplicemente sulle spalle; poi, con il passare del tempo, quel manto fu tagliato in modo da permettere un drappeggio menu rudimentale. Intorno al terzo secolo a.C. la forma che la toga ha assunto è grossomodo quella di un trapezio con i lati arrotondati. Nell’età di Augusto è di moda una toga molto ampia tagliata a forma di ellisse, che avvolge il corpo con una sapiente drappeggiatura, lasciando libero il braccio destro. Mettersi addosso la toga in modo che cada bene, che avvolga armoniosamente il corpo, richiede una notevole abilità; chi può si fa aiutare da uno schiavo che ha provveduto fin dalla sera prima a preparare l’abito disponendo in ordine le pieghe; gli altri si arrangiano da soli, ma talvolta non possono evitare che la toga, come dice Orazio, cada male, esponendo chi la porta ai commenti maligni del prossimo. Bello e dignitoso è questo abito, ma assai poco pratico: quando si cammina, quando si gesticola, quando ci si fa largo nelle vie e nelle piazze formicolanti di gente, è difficile mantenerlo composto ed in bell’ordine! E inoltre, quanti lavaggi sono necessari per conservare il suo candore immacolato! La lana a furia di lavarla, si rovina… Poiché la toga è veramente poco pratica, non c’è da stupirsi se i Romani cercano di limitarne l’uso alle situazioni in cui è strettamente indispensabile e se, con il passare del tempo, vanno via via sostituendola con manti più semplici e più comodi, alcuni dei quali, si possono indossare anche sulla toga, quando fa freddo. Così, soprattutto nell’età imperiale il cittadini romani comincia ad usare il "pallium", una sopravveste più corta, meno ampia della toga e che perciò non impaccia i movimenti. Quando ci si mette in viaggio, o in città quando fa molto freddo, si indossa sopra la tunica una specie di blusa interamente chiusa davanti, fornita di cappuccio, che si infila passando la testa attraverso una apertura centrale. Esaminiamo ora gli altri elementi che completano l’abbigliamento maschile: scarpe e cappelli. Quando il romano indossa la toga o esce in pubblico, porta i "calcei", stivaletti alti fin quasi al polpaccio che coprono interamente il piede; neri sono i calcei dei senatori, rossi quelli dei patrizi generalmente i romani vanno a capo scoperto; solo quando si mettono in viaggio o a teatro quando stanno lunghe ore fermi al sole, si riparano con un cappello di feltro a larghe tese annodato sotto il mento o sulla nuca che si chiama "petasus". L’unico ornamento che gli uomini usano sono gli anelli. Nell’età imperiale si diffonde la consuetudine di portare anelli esclusivamente come ornamento; certi tipi stravaganti giungono al punto di metterne uno ad ogni dito e persino parecchi allo stesso dito; altri più bizzarri ancora sfoggiano anelli "d’estate" e anelli "d’inverno"…
L’EDUCAZIONE DELLA RAGAZZA Agli inizi della Repubblica, le figlie erano considerate effettivamente delle piccole madri: apprendevano a cucinare, a filare e a tessere: Più tardi, nelle famiglie tradizionaliste, le figlie continuavano a filare e a tessere; fierissimo, il padre faceva ammirare agli amici la toga tessuta dalla figlia La figlia di una famiglia agiata era affidata alle cure di una nutrice greca che le raccontava le prime favole in lingua greca. La ragazza doveva imparare a dipingere, poiché la madre pensava che ciò le sarebbe più tardi servito nella scelta dei tappeti e dei tendaggi per la sua casa. Imparava anche a cantare, a danzare e a suonare alcuni strumenti. Se la famiglia non aveva precettore, a 6 anni la fanciulla veniva mandata a scuola per imparare a leggere e a scrivere. Verso i 10 anni veniva fidanzata dal padre o dal tutore, che le sceglievano il futuro sposo, a volte anche con l’aiuto di un sensale di matrimoni. Il futuro sposo regalava alla fidanzata un anello di fidanzamento d’oro o di ferro su cui aveva fatto incidere due mani che si stringevano. Il matrimonio avveniva alcuni anni dopo. Alla fine della Repubblica, essendo divenuto il divorzio un fatto assai comune, non era difficile vedere uomini o donne che si sposavano quattro cinque o volte . Cesare si sposò quattro volte; Cicerone divorziò da sua moglie per sposare un’ereditiera più giovane della figlia Tullia. Sua moglie però non si disperò a lungo. Si risposò infatti per ben due volte. Quando il matrimonio veniva celebrato religiosamente, la futura sposa portava sul capo un velo arancione sormontato da una corona di fiori d’arancio. Dopo aver firmato il contratto di matrimonio, una matrona la conduceva dal suo sposo. Anche presso i Romani, come presso i Greci, la sposa superava la soglia della casa fra le braccia del marito. Verso la fine della Repubblica, il matrimonio generalmente si limitava a una cerimonia civile. Lo sposo, davanti ai testimoni, domandava alla sposa se voleva diventare "madre di famiglia": ella rispondeva di sì e a sua volta domandava allo sposo se voleva diventare " padre di famiglia": Dopo di che, essi erano legalmente marito e moglie. Benché la sposa potesse disporre liberamente dei propri beni e della propria dote, in realtà il capo di casa era sempre il marito. Ma secondo quanto diceva un romano: "Noi governiamo il mondo, ma sono le nostre mogli a governare noi". Non era cosa rara che una sposa dodicenne abbandonasse la casa paterna per stabilirsi nella propria, passando per così dire dalla balia alla vita pubblica. Altre donne si occupavano di politica, preparavano le campagne elettorali in occasione delle elezioni e addirittura dipingevano frasi di incitamento sui muri delle case. Dopo le elezioni, iscrizioni del genere venivano cancellate con una mano di calce. Avendo il Senato proposto un giorno una legge tendente a limitare i gioielli di proprietà di una donna, una matrona infuriata tenne nel Foro, il luogo delle pubbliche riunioni, un discorso così violento che la legge fu subito abrogata. Negli ultimi anni della Repubblica vi furono perfino avvocatesse che difendevano i loro clienti nei tribunali. Durante l’Impero, donne di nobili famiglie lottarono come gladiatori nell’arena, parteciparono a incontri di lotta e guidarono carri durante la caccia al cinghiale. La matrona romana formosa era ormai una figura del passato: le ragazze portavano busti fin dall’infanzia . Quelle che non avevano forme snelle e aggraziate erano considerate "lottatrici". Tuttavia le matrone romane non persero mai il oro coraggio. Quando l’imperatore Claudio ordinò a Cecina Peto di uccidersi e questi esitò per paura, la sua sposa si pugnalò, estrasse il pugnale dalla ferita e lo tese al marito dicendo: " Non fa male, Peto": Sulla tomba delle loro spose i Romani facevano incidere epitaffi di questo genere: "Viandante, breve è il mio messaggio; arrestati leggi ! Questa pietra odiosa copre una bella donna"
VESTI E ORNAMENTI FEMMINILI Mentre nel mondo moderno l’abbigliamento della donna si distingue nettamente da quello dell’uomo, in Roma la differenza non consisteva tanto nella foggia del vestire quanto piuttosto nei tessuti impiegati e nella varietà dei colori. Anche le donne usano la tunica, più lunga di quella maschile; su di essa indossano la "stola" che è la veste caratteristica della matrona romana, così come la toga è il costume nazionale degli uomini. La stola, che ha subito attraverso il tempo vari mutamenti a seconda della moda, è una sopravveste molto ampia che scende sino ai piedi; è stretta in vita da una cintura (talvolta le cinture sono due, una più alta e l’altra sui fianchi) ed è chiusa sul petto da una fibbia, oppure sulle spalle da bottoni ornati di pietre preziose; le maniche possono essere lunghe o corte: nella parte inferiore la stola è ornata da una striscia di porpora o da una balza ricamata in oro. Per uscire in pubblico, nei primi secoli dell’età repubblicana le matrone usavano gettare sulla stola un mantello quadrato di dimensioni piuttosto limitate, cui si va sostituendo, con il passar del tempo, la "palla" ossia un grande manto rettangolare che, a differenza della toga maschile, copre entrambe le spalle; può essere lungo fino ai piedi, ma generalmente scende fin sotto le ginocchia. In pubblico la donna talvolta si copre la testa con un lembo della palla; nei tempi antichi lo faceva sempre, poiché alla lana ed al lino vanno sostituendosi nell’età imperiale i tessuti misti: lana e cotone; cotone e lino, cotone e seta. Le donne amano soprattutto le stoffe fini e leggere, come la seta che rappresenta il massimo dell’eleganza e della raffinatezza. Anche nell’ambito dei colori vi è una larga possibilità di scelta: abilissimi tintori hanno creato tutta una gamma di sfumature che soddisfano qualsiasi esigenza. I gioielli: ecco la grande passione delle donne romane! Un tempo, nei primi secoli della Repubblica, il lusso eccessivo delle vesti e degli ornamenti era severamente riprovato dai Censori; allora l’austerità e la semplicità caratterizzavano ancora la vita del popolo romano. Poi vennero le grandi conquiste degli ultimi due secoli prima di Cristo e con le conquiste si operò una profonda trasformazione materiale e morale nella vita e nei costumi dei cittadini: la ricchezza ed il lusso ebbero un enorme incremento, le leggi che ogni tanto venivano emanate dal Senato per limitare le spese del vestiario, dei banchetti, degli ornamenti, rimanevano senza alcuna efficacia pratica: nessuno si curava di osservarle. Patrizi e grossi borghesi vanno a gara nel coprire di ornamenti preziosi le mogli e le figlie, per ostentare davanti a tutta la città la loro ricchezza ed il loro sfarzo; le donne, dal canto loro, si danno da fare per non rimanere indietro in questa competizione che solletica la loro vanità: pretendono pietre sempre più rare, le gemme più costose e si mettono addosso interi patrimoni. E naturalmente c’è chi esagera in questo sfoggio di gioielli e si trasforma in una specie di vetrina ambulante con risultati ridicoli. La varietà degli ornamenti femminili è enorme: vi sono diademi di metallo prezioso, nastri ornati di gemme che si inseriscono tra i capelli; spille e fibbie in oro e argento; anelli con pietre preziose che si portano non solo alle dita delle mani, ma anche a quelle dei piedi o intorno alla caviglia; braccialetti in oro massiccio; collane di perle e pendenti in smeraldo che adornano il collo ed il petto. Fra gli orecchini sono di gran moda i "crotalia" e cioè dei pendenti doppi che hanno all’estremità una perla; quando la donna cammina, producono un piacevole tintinnio. Affinché i l quadro sia completo ricordiamo ancora alcuni accessori che una signora veramente elegante non dimentica mai quando esce di casa: la borsetta, il ventaglio e l’ombrellino. I ventagli non sono pieghevoli come i nostri, ma rigidi: sono fatti di piume di pavone dai brillanti colori, oppure di foglie di loto.
L’EDUCAZIONE DEL RAGAZZO Nove giorni dopo la nascita, il padre dava al figlio un nome, poi gli poneva al collo un piccolo amuleto d’oro o di bronzo o di cuoio, chiamato bulla e destinato a scacciare il " malocchio"; il ragazzi lo conservava fino alla maggior età. Nei primi tempi della repubblica il ragazzo veniva allevato dalla madre o da una vecchia parente; in seguito se la sua famiglia poteva permetterselo, egli veniva educato da una schiava greca apprendendo cosi’ a parlare il greco contemporaneamente al latino. I suoi passatempi erano il gioco a mosca cieca, la trottola, il cavallo di legno, i trampoli. Di solito era il padre che gli insegnava a leggere, scrivere nuotare e cavalcare. Un padre ricco poteva servirsi di un liberto o comperare uno schiavo colto perché facesse da precettore al figlio; altrimenti a sette anni il ragazzo veniva mandato a scuola. Le lezioni non si svolgevano in un edificio apposito; il maestro stesso affittava una stanza in qualche retrobottega oppure faceva lezione sul tetto a terrazza di una casa qualsiasi. Chiunque poteva aprire una scuola purché naturalmente trovasse allievi paganti. Le lezioni cominciavano piuttosto presto. Il ragazzo usciva di casa prima dell’alba, rischiarandosi il cammino con una lanterna. Il povero portava da se stesso il sacco con le tavolette incerate e comperava per via un pezzo di pane per la colazione; il ricco invece, si faceva accompagnare da uno schiavo che gli portava i libri. Il problema principale del maestro era quello di mantenere la disciplina. Se insegnava in una bottega, l’aula era separata dai rumori della strada soltanto da una tenda. L’insegnante era spesso un liberto che aveva imparato a leggere e scrivere quando ancora era schiavo; ma poteva anche essere un ex lottatore oppure un mimo, che i figli dei liberi cittadini non rispettavano minimamente. Le lezioni duravano sei ore, con una pausa per la colazione a mezzogiorno . A volte invece di tornare a scuola dopo l’intervallo gli allievi si intrufolavano nel circolo per vedere le corse dei carri. Durante la repubblica l’anno scolastico contava più di un centinaio di giorni festivi durante i quali la scuola era chiusa, senza tener conto naturalmente delle vacanze estive. Per cinque anni l’allievo imparava a leggere a fare di conto (addizioni sottrazioni, moltiplicazioni e divisioni fatte con l’aiuto di un abbaco). L’abbaco più semplice era costituito da una scatola di sabbia con dischi metallici mobili. Gli abbachi più complicati, o pallottolieri, erano composti o di asticelle sulle quali si facevano scorrere alcune palline di legno colorate. L’insegnante stava seduto su una sedia, mentre gli allievi sedevano su panche e tenevano sulle ginocchia le tavolette per scrivere. Incidevano le lettere sulla cera mediante una cannuccia appuntita di ferro chiamata stylum (da cui e’ derivata la parola "stilografica"). Le lettere che essi tracciavano, erano praticamente identiche a quelle in cui noi ci serviamo oggi. A dodici anni il ragazzo iniziava lo studio, a casa o a scuola, della letteratura sotto la guida di un grammatico, generalmente greco, dell’Asia o di Egitto. Gli allievi dovevano arrivare a parlare, a leggere e a scrivere il greco correttamente come il latino. I Romani si burlavano di quei grammatici che tenevano corsi di lezione su argomenti assurdi: per esempio su quali fossero i canti delle sirene. Nei primi tempi della Repubblica, il ragazzo diventava ufficialmente uomo a 17 anni. Deponeva allora la "bulla" e la toga praetexta con un fregio rosso, per indossare la toga tutta bianca o toga virilis. Ormai era un cittadini che doveva prestare servizio nell’esercito. Verso la fine della Repubblica e sotto l’Impero, il ragazzo poteva a volte indossare la toga virilis gia’ a 14 anni senza per questo dover servire nell’esercito. Dopo aver rivestito la toga virile, il giovane studiava la filosofia e l’oratoria. Alla fine della Repubblica si recava anche all’estero: ad Atene ad Alessandria e Rodi. Cesare Cicerone e il poeta Orazio studiarono all’estero. Più tardi, ai tempi dell’impero il giovane poteva ricevere questa formazione "universitaria" anche nel suo paese, poiché gli imperatori favorirono l’istruzione superiore fondando nuove scuole e distribuendo borse di studio agli studenti poveri.
L’ABBIGLIAMENTO MASCHILE Su di una specie di camicia di lino piuttosto corta e a diretto contatto con la pelle, il romano infila la "tunica", ossia una veste di lana formata da due pezzi di stoffa cuciti insieme e tenuta stretta intorno al corpo da una cintura piuttosto bassa sui fianchi; la tunica cade in modo ineguale: fin sul ginocchio davanti, un po’ più lunga dietro. Le maniche o mancano del tutto o non arrivano all’altezza del gomito; solo gli effeminati usano tuniche lunghe fino alla caviglia, senza cintura e con maniche fino ai polsi, il che è considerato, almeno nell’età repubblicana e nei primi secoli dell’Impero cosa assai riprovevole. La tunica è la veste che si indossa nell’intimità della casa, in campagna, in provincia ; è la veste che usa la gente che lavora, perché è semplice e pratica. Quando fa freddo si mettono due o più tuniche l’una sull’altra. Ornamento più comune della tunica è una striscia di porpora che serve a determinare l’ordine o la classe sociale cui si appartiene: quella dei senatori è molto larga, più ridotta quella dei cavalieri. Vi è poi la tunica "palmata" adorna di splendidi ricami che indossano i generali vincitori durante il trionfo. Il cittadino romano prima di uscire di casa si avvolge nella "toga": è questo l’abito ufficiale dei romani, inseparabile da tutte le manifestazioni della loro attività civica. La toga è stata usata fin dai tempi antichissimi; essa costituisce il costume nazionale e distintivo dei romani. La toga è un manto di lana bianca pesante, tutto di un pezzo; le sue dimensioni e il modo con cui si avvolge intorno al corpo hanno subito vari mutamenti attraverso i secoli. Alle origini doveva essere una specie di coperta di forma quadrata che si gettava semplicemente sulle spalle; poi, con il passare del tempo, quel manto fu tagliato in modo da permettere un drappeggio menu rudimentale. Intorno al terzo secolo a.C. la forma che la toga ha assunto è grossomodo quella di un trapezio con i lati arrotondati. Nell’età di Augusto è di moda una toga molto ampia tagliata a forma di ellisse, che avvolge il corpo con una sapiente drappeggiatura, lasciando libero il braccio destro. Mettersi addosso la toga in modo che cada bene, che avvolga armoniosamente il corpo, richiede una notevole abilità; chi può si fa aiutare da uno schiavo che ha provveduto fin dalla sera prima a preparare l’abito disponendo in ordine le pieghe; gli altri si arrangiano da soli, ma talvolta non possono evitare che la toga, come dice Orazio, cada male, esponendo chi la porta ai commenti maligni del prossimo. Bello e dignitoso è questo abito, ma assai poco pratico: quando si cammina, quando si gesticola, quando ci si fa largo nelle vie e nelle piazze formicolanti di gente, è difficile mantenerlo composto ed in bell’ordine! E inoltre, quanti lavaggi sono necessari per conservare il suo candore immacolato! La lana a furia di lavarla, si rovina… Poiché la toga è veramente poco pratica, non c’è da stupirsi se i Romani cercano di limitarne l’uso alle situazioni in cui è strettamente indispensabile e se, con il passare del tempo, vanno via via sostituendola con manti più semplici e più comodi, alcuni dei quali, si possono indossare anche sulla toga, quando fa freddo. Così, soprattutto nell’età imperiale il cittadini romani comincia ad usare il "pallium", una sopravveste più corta, meno ampia della toga e che perciò non impaccia i movimenti. Quando ci si mette in viaggio, o in città quando fa molto freddo, si indossa sopra la tunica una specie di blusa interamente chiusa davanti, fornita di cappuccio, che si infila passando la testa attraverso una apertura centrale. Esaminiamo ora gli altri elementi che completano l’abbigliamento maschile: scarpe e cappelli. Quando il romano indossa la toga o esce in pubblico, porta i "calcei", stivaletti alti fin quasi al polpaccio che coprono interamente il piede; neri sono i calcei dei senatori, rossi quelli dei patrizi generalmente i romani vanno a capo scoperto; solo quando si mettono in viaggio o a teatro quando stanno lunghe ore fermi al sole, si riparano con un cappello di feltro a larghe tese annodato sotto il mento o sulla nuca che si chiama "petasus". L’unico ornamento che gli uomini usano sono gli anelli. Nell’età imperiale si diffonde la consuetudine di portare anelli esclusivamente come ornamento; certi tipi stravaganti giungono al punto di metterne uno ad ogni dito e persino parecchi allo stesso dito; altri più bizzarri ancora sfoggiano anelli "d’estate" e anelli "d’inverno"…
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