Prima ancora del blues esistevano i work songs, i canti di lavoro degli schiavi afroamericani che raccoglievano il cotone e il riso, tagliavano la canna da zucchero, costruivano le linee ferroviarie, scavavano gallerie.
Non si trattava di semplice intrattenimento ma dell’unico modo per reggere i disumani cicli lavorativi in quanto il ritmo del canto cadenzava i movimenti, sincronizzava la mano d’opera e rendeva la giornata meno alienante (dunque più proficua per i padroni).
La tradizione non è tramontata come si pensa e ancora si trovano le workgang, i gruppi per cui il canto è complementare al lavoro, ad esempio nel sud dell’Etiopia, dove l’Associazione Esplorare La Metropoli è andata a girare il documentario The well .
Per mesi la telecamera ha seguito nelle aride distese dell'Oromia l’attività dei Borana, i figli dell’aurora, una popolazione di pastori seminomadi che durante la stagione secca si sposta per lunghi tratti per raggiungere i centenari “pozzi cantanti”, la cui litania è un rassicurante richiamo per uomini e bestie.
Queste “Ellas” sono scavate a mano nella roccia fino a trenta metri di profondità, con diversi livelli e rampe digradanti.
Dal fondo parte la catena umana, composta da giovani volontari che passano secchi pieni d’acqua da un braccio all’altro, da un livello a quello successivo, finché l’ultimo, il più vicino alla superficie, non li versa nell’abbeveratoio.
E’ una staffetta senza sosta sin dal primo mattino, una fatica immane scandita dal canto ascensionale e perfettamente coordinato che dalla cavità si spande nell'aria fino a raggiungere le grandi mandrie che, riconoscendo il suono, si avvicinano lentamente dopo giorni di cammino.
Così nella savana, rossa e asciutta a perdita d’occhio, quando il nulla sembra essere dappertutto, il canto di lavoro che spunta dalle viscere della terra funge da guida verso la salvezza.
Il work song si basa sullo schema del call-and-response, cioè il richiamo del solista e la reiterazione del coro, non c’è accompagnamento strumentale e i testi improvvisati contengono storie tradizionali o nuove, con mille varianti:
«Il canto aiuta a concentrarci e a non stancarci - racconta uno dei giovani Borana - Celebriamo gli animali o raccontiamo aneddoti sul proprietario o cose inventate. Ci aiuta a dimenticare la noia e il fatto che per sopravvivere non abbiamo scelta».
Se il solista canta più forte gli altri lo seguono, se funziona il canto funziona la squadra.
Di pozzi cantanti ne restano quattordici, diciotto sono stati abbandonati perché, a causa dell’estrema siccità, le tribù si sono spostate altrove o perché le frane hanno ricoperto di detriti la falda. Ogni “ella” appartiene a uno specifico clan Borana, ma l’acqua è un diritto indiscriminato e non viene negata a nessuno, nemmeno a chi non appartiene ai clan.
Il Konfi è il trovatore del pozzo ma mai il proprietario, il proprietario resta la Comunità.
Il gestore viene scelto dal clan, tiene pulito il pozzo, coordina le persone e governa gli animali, 2300 al giorno, in ordine cavalli, vitelli, vacche e cammelli.
Presta servizio gratuitamente e non può accettare soldi. Il denaro non deve sporcare ciò che è sacro quindi all’interno dei pozzi è vietato qualsiasi affare o commercio, nessuno può litigare e se capita, se qualcuno viene alle mani, uno dei suoi animali viene immediatamente sgozzato.
In una delle regioni più ingenerose della terra abitata, l’acqua assurge a funzione unificante e pacificatrice persino tra gruppi di etnie differenti, spesso in conflitto tra loro. E per tirarla su ci vogliono tante voci che ne formano una sola, ci vuole la musica perché senza, dicono, si perdono storie, muscoli e sintonia.
Fonte: ilmessaggero.it
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